Stampa Articolo

La “religiosità ecumenica” di Franco Ferrarotti

coverdi Roberto Cipriani 

In occasione del suo novantacinquesimo genetliaco, il 7 aprile del 2021, Franco Ferrarotti, professore emerito della Sapienza, si è fatto un “regalo”, scrivendo la prefazione ad un altro suo libro, questa volta su La religiosità ecumenica (Solfanelli, Chieti, 2021). Sin dalle prime due pagine di avviamento e di accompagnamento alla lettura del volume, si può trarre la chiave principale di interpretazione che costituisce il filo rosso conduttore scelto dall’autore: “il mistero di Dio” e “la compassione per il prossimo”, per cui «ego e alter si riconoscono parte della inviolabile sacralità della vita».

Il tenore ed il valore di queste parole non sono indizi senza significato, nella misura in cui riconducono chi scrive alle sue origini di soggetto continuamente riflessivo e mai stanco di ricercare, dato che «da anni, da decenni l’idea del ‘sacro’ mi accompagna, discreta ma costante». E probabilmente un richiamo, una sorta di reminder, gli può essere arrivato anche dagli studi di Maria Immacolata Macioti e, forse, miei sulla fenomenologia e sulla sociologia della religione. In fondo, si è trattato di una presenza pluridecennale, di una dimestichezza quasi quotidiana, di un incrocio ricorrente di percorsi comuni o comunque paralleli, affini o parzialmente convergenti.

Ma non è giusto attribuirsi meriti che non ci sono, anche perché bisogna considerare tante altre possibilità ed occasioni che Ferrarotti ha intercettate nel corso della sua lunga esistenza. Alcuni nomi, quasi a caso, vengono citati dallo stesso autore: Enrico Castelli di Gattinara, ospitante di intellettuali nel salotto della sua casa pariolina a Roma ed organizzatore attento di incontri internazionali di studio, annuali ed invernali – segnatamente nel periodo delle vacanze natalizie –, sulla filosofia della religione; Ugo Spirito, Paolo Filiasi Carcano, Paolo Brezzi ed un altro assistente del medesimo Ferrarotti, cioè Armando Catemario, poi passato ad interessi di Antropologia Culturale.

brezzi-ferrarotti-galli-harrison-culturologia-del-sacro-eRivanga antichi trascorsi Ferrarotti quando ricorda di aver scritto con Paolo Brezzi e Gualtiero Harrison (ma non si può dimenticare l’antropologa Matilde Callari Galli) il testo sulla Culturologia del sacro e del profano (Brezzi, Callari Galli, Ferrarotti, Harrison, Culturologia del sacro e del profano, a cura di Gualtiero Harrison, Feltrinelli, Milano, 1966), riandando così ad un abbrivio quasi fondatore del suo discorso sul sacro e la religione, proseguito nel tempo, quasi senza alcuna interruzione, fino a I guardiani dell’ortodossia (Comunità, Milano,  2020).

Per l’ennesima volta il Nostro rimette in gioco la figura ed il pensiero di Paolo di Tarso, già oggetto di una diatriba con lo specialista di sacre scritture Giuseppe Barbaglio, menzionato altrove come dedicatario ed ipotetico interlocutore nella prefazione (La religione dissacrante. Coscienza e utopia nell’epoca della crisi, Dehoniane, Bologna, 2013). Sarebbe di origine paolina l’apparato sostanziale della Chiesa così come è ancora oggi concepita e strutturata. Stavolta l’autore chiama in soccorso un altro intellettuale, quasi coetaneo, di cui condivide in pieno quanto affermato in un’intervista: è Sossio Giametta, esperto cultore dell’opera nietzschiana, per il quale la Chiesa avrebbe tradito Gesù Cristo e Paolo avrebbe avuto il merito di averla tenuta “viva” sia teoricamente che praticamente, anche se «non sono mai mancate, accanto alle crudeltà e atrocità, le opere pie e di carità».

giordano-bruno-copertinaQui Ferrarotti coglie il destro per ricordare sia l’episodio di Béziers del 22 luglio 1209, con il massacro della popolazione da parte dei crociati albigesi, sia il rogo che il 17 febbraio 1600 portò a morte Giordano Bruno, per ordine della Santa Inquisizione.

Appunto su Bruno il sociologo piemontese ha pubblicato un volume: Giordano Bruno, (Empiria, Roma, 2014) ed è intervenuto più volte in occasione delle commemorazioni ufficiali a Roma in Campo dei Fiori, in particolare il 17 febbraio del 2011, del 2012 e del 2014. 

«Fino a quando il sacro sarà amministrato, per così dire, dal potere clericale, pur riconoscendo la positività di iniziative come quella di Giovanni XXIII con la convocazione del Concilio Vaticano II, non si potrà a rigore ottenere un autentico dialogo inter-religioso né sarà possibile configurare una religiosità ecumenica, decisa e vissuta individualmente come esperienza personale del divino. […] Sembra necessario, invece, pensare ad un valore comune, al ‘sacro’, ancor prima del divino, non subordinato alla logica dei rapporti di potere e al di là delle ‘leggi’ del mercato e della logica delle relazioni interpersonali puramente utilitarie» (Ferrarotti 2021: 25). 

In tal modo, viene tracciato un itinerario di purificazione della Chiesa e della religione che ha come precipitato ultimo una “religiosità ecumenica” che, invero, ha un carattere metaindividuale, non circoscritto a quella che viene chiamata “esperienza personale del divino”. Su questo punto c’è bisogno di qualche chiarimento in più da parte di Ferrarotti, il quale scrive che 

«la religiosità ecumenica non può essere né donata né tanto meno garantita dai poteri clericali, per i quali essa è al più una tregua, un temporaneo armistizio, se non un espediente per la loro riorganizzazione. La religiosità ecumenica presuppone e passa sulla scomparsa dei poteri clericali storicamente consolidati» (ivi: 27-28). 

Tale punto di vista è chiarito ulteriormente: «penso che l’unità e la convergenza delle religioni vadano ricercate in una religiosità ecumenica che faccia perno su un concetto e una corrispondente pratica di vita in grado di determinare e giustificare una significativa convergenza ecumenica» (ivi: 40-41). In aggiunta, 

«c’è qualcosa che precede, che fa da richiamo all’essere umano, che accende un’aspirazione, una nuova direzione. Non è il nulla, ma una sorta di grembo dove tutte le potenzialità sono presenti, ma non sono manifestate. È un silenzio che non è in contrasto con la parola, ma da cui scaturisce la parola. È il mondo che sta prima dei nomi e delle forme, li precede, in quanto li ha tutti in sé, come non espressi. È l’informe che contiene tutte le forme dell’essere. È l’innominabile, quel senza suono che contiene tutti i suoni: è la dimensione della vita pura. Non è un prima del principio in senso temporale, ma è sempre nell’adesso, nell’ora: è propria dell’idea della vita pura, dell’eterno sorgere» (ibidem). 

Tutto questo ragionamento di natura prettamente filosofica e parateologica e/o preteologica sembra alludere ad un altro approccio che seguirà subito dopo, senza interruzioni né temporali né logiche, giacché si riverbera nel contenuto del volume intitolato Cristo prima di Cristo. La parola poetica e il Cristianesimo naturale (Solfanelli, Chieti, 2021): 

«è possibile che si dia un Cristianesimo naturale, già presente e diffuso presso gli esseri umani, ancor prima di Cristo? Una sorta di lógos spermatikós planetario? Credo che così abbiano previsto due grandi padri della Chiesa, entrambi nordafricani, Agostino da Tagaste e Quinto Settimio Fiorente Tertulliano da Cartagine» (ivi: 47). 

 Si scioglie immediatamente, anche il dubbio relativo alla dimensione solo individuale della “religiosità ecumenica”, nella misura in cui la prospettiva si allarga e diventa metaindividuale, sociale, universale: 

«è qui richiamata la compassione globale e l’amore che dà senso alla responsabilità sociale: amore, fratellanza, unitarietà fondamentale della famiglia umana. Non è solo il paolino ‘Deus charitas est’. È l’idea di prossimo che viene elaborandosi e si presenta come valore primordiale e base della religiosità ecumenica» (ivi: 42). 

9788833053356-1Così, un amico, Cesare Pavese, arriva ad incarnare l’ideale religioso ecumenico, appunto: «era un credente mitico [mistico?], ossessionato dalla colpa, un credente in nessuna religione positiva, ma un religioso ecumenico» (ivi: 43). Perciò il concetto di laicità non è assimilabile a quello di antireligiosità. Magari il laico se la prende solo con la Chiesa, ma in questo è simile a tanti credenti, persino osservanti e militanti, se si deve tenere conto di quanto dicono le ricerche più recenti (Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, il Mulino, Bologna: 112-113; Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, FrancoAngeli, Milano: 270-277). Per di più, essere laici significa essere imparziali nei riguardi delle diverse espressioni religiose e potere assumere come valori assoluti la coscienza etica o la stessa scienza.

 L’attenzione all’altro è un’ulteriore caratteristica della “religiosità ecumenica”, che arriva a coinvolgere esperienze piuttosto lontane fra loro. Infatti, «la partecipazione effettiva alla vita, al dolore e alla gioia dell’altro implica la sostituzione di sé all’altro. ‘Agnus Dei – qui tollis peccata mundi’ – traduzione errata, riduttiva del tollis come ‘toglie’ – va inteso come ‘prendi sulle tue spalle…» (Ferrarotti, 2021: 49). Allo stesso modo, richiamandosi di nuovo al buddismo, «il bodhisattva è colui che fa voto di non entrare nel nirvana fino a che tutti gli esseri umani non siano illuminati. Emerge così la seconda delle Grandi Virtù del ‘Grande Veicolo’, ossia la ‘compassione’, che ispira le generosità del saggio verso i suoi simili» (ivi: 49).

L’accostamento alla prospettiva buddista non è un mero esercizio retorico o un tentativo utopico di convergenza, ma rientra in una progettualità che almeno a livello intellettuale è coltivata con cura, giacché l’autore scrive: 

«sto lavorando per accettare [oppure accertare?] e tematizzare la congiunzione fra il buddhismo e lo stoicismo, ossia fra il nirvana e l’atarassia. I sette passi e l’uovo cosmico, la rinuncia ad ogni delirio antropocentrico, prometeico o faustiano, vista anche la breve, trascurabile vita degli umani, l’accettazione di semplicemente essere nell’esserci, accettarsi pulviscolo nel cosmo, mi appaiono vicini all’idea espressa da Seneca là dove afferma che ‘vivere altro non è che ascoltarsi morire» (ivi: 54). 

Sullo sfondo, però, si staglia il parametro gesuitico dell’amore verso gli altri (anche se nemici), nonché della reciprocità del perdono. Il che prelude ad un finale esortativo, parenetico, tipico del Ferrarotti retore, maestro nell’oratoria e prono alla visione utopica, pur nella consapevolezza dell’impossibilità: 

«forse è venuta l’epoca di un rinnovamento profondo, radicale: dai poteri clericali alla religiosità ecumenica; dalla società acquisitiva al rapporto interpersonale in sé e per sé significativo; dalla massimizzazione del profitto in senso puramente contabile e dall’espansione caotica, da esso provocata, allo sviluppo integrale per il recupero e la rivalutazione dell’unità del vivente» (ivi: 55). 

413pcadbtml-_ac_uf10001000_ql80_Tre appendici conchiudono l’opera, ribadendo dapprima (in due parti dello stesso discorso) che il dialogo è la sola via di salvezza e rinviando poi alla trascrizione di un’intervista dal titolo emblematico “Dopo il Cristianesimo” – già pubblicata (in Acquaviva, Ardigò, Ferrarotti, Magli, Il sacro oggi. Una svolta antropologica, Edizioni dell’Apocalisse, Milano, 1980: 101-134) –, che fa da pendant perfetto ed anticipatore del volumetto successivo, uscito appena un mese dopo, nel maggio del 2021, in uno degli spunti principali proviene per l’ennesima volta dall’opera tertullianea De testimonio animae, che parla della persona umana come naturalmente cristiana. L’avverbio naturaliter di Tertulliano rimanda, imprevedibilmente, ad un altro autore classico latino, il sulmonese Ovidio, che proclama: “est Deus in nobis”. La presenza di un Dio in noi è, dunque, percepita in anticipo a livello poetico, quasi un pronostico di sviluppi posteriori. Ma qui la riflessione di Ferrarotti prende corpo, anche nel senso che recupera la dimensione fisica all’analisi sociologica, chiamando in causa i passi biblici del Cantico dei cantici, un vero e proprio inno alla corporeità, non disgiunto da considerazioni religiose di raffinata teologia sull’unità fra umano e divino. Così, il passaggio successivo è quasi scontato: «e il Verbo si fece carne’. Ciò è diventato verità nella stalla di Betlemme. Ma ciò si è compiuto anche in altra forma: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, possiede la vita eterna» (Cristo prima di Cristo. La parola poetica e il Cristianesimo naturale, Solfanelli, Chieti, 2021: 29).

9788810513279Ma seguiamo da vicino il percorso suggerito dall’intellettuale di Palazzolo: «il punto delicato, l’aspetto cruciale della comune paternità divina, intrinseca nell’incarnazione del Verbo, riguarda il concetto di prossimo, su cui Cristo fonda il suo messaggio» (ivi: 30). In proposito, il sociologo della Sapienza non nutre dubbi, in quanto «è un valore metastorico, umano e divino insieme. Questo valore comporta la partecipazione. La condivisione, il riconoscimento dell’altro e la consapevolezza vissuta, non solo intellettualmente, che il destino è comune, che la vita dell’altro è la vita del Sé» (ibidem).   

Come già avvenuto in precedenza, si affaccia un altro apparentamento con il Budda: «è uno dei temi fondamentali, forse il più importante, su cui potrà costruirsi un giorno la religiosità ecumenica, al di là dei poteri clericali che, in nome delle varie credenze religiose, hanno nei secoli insanguinato il mondo, scatenando guerre e massacri» (ivi: 31). In particolare, 

«fondamento della religiosità ecumenica, valore comune alle religioni positive, è il riconoscimento del prossimo, chiunque egli sia e da qualunque parte del mondo provenga; è il prendersi cura dell’altro. Ciò significa farsi carico della fragilità e della sofferenza, della povertà non solo economica, ma anche culturale; lavorare per l’inclusione contro ogni forma di discriminazione e di esclusione sociale. I quattro Vangeli del Nuovo testamento cristiano e i testi della morale buddhistica – Dhammapada, Suttanipâta, Itivuttaka – non lasciano dubbi in proposito» (ibidem). 

Forse un tale avvicinamento alla considerazione del buddismo è frutto di qualche influenza esercitata da Maria Immacolata Macioti (Il Buddha che è in noi. Germogli del Sutra del Loto, Seam, Roma, 1996) che a lungo si è interessata della religione del nirvana.

Su un altro piano si pone una confessione ferrarottiana tanto fugace quanto celata fra le pieghe costituite dalle righe del libro: «è vero, lo confesso, che non avrei mai letto un libro che non avessi scritto io stesso se non fosse già stato scritto. Faccio un’eccezione per la Bibbia» (ivi: 35). Poco più avanti, l’autore riprende il progetto citato nel volume immediatamente precedente, in merito alla costruzione di una “religiosità ecumenica”, e si esprime in questi termini: 

«so bene che per il mio programma, tendente a stabilire l’unità trascendentale delle verità parziali delle grandi religioni universali, avrei bisogno ancora di almeno trent’anni di piena lucidità intellettuale e di conoscenze storiche e linguistiche di cui non dispongo per ora nella misura necessaria» (ivi: 49). 

Intanto, c’è da osservare che 

«i soli ad occuparsi veramente di Dio sono gli atei, coloro per i quali Dio è un problema, una chiamata e nello stesso tempo un insondabile mistero. È qui che trova le sue radici la religiosità ecumenica, al di qua dei poteri clericali e delle teologie accademiche. L’homo religiosus va sviluppando, oggi, in una situazione che corrivi analisti descrivono come ‘eclissi del sacro’, le sue caratteristiche essenziali» (ivi: 57). 

Riassumendo, nella “fondamentale unità della famiglia umana” si può sostenere che: 1) non importi tanto l’esistenza o meno di Dio quanto piuttosto il suo “mistero”; 2) l’apprezzamento dell’altro come prossimo abbia un valore in sé; 3) occorra avere la consapevolezza della finitezza umana perché la morte è un destino comune; 4) non sia accettabile una situazione di sottomissione agli altri. In siffatto scenario, la conclusione di Ferrarotti è che «siamo alle soglie di quella che oso definire la ‘religiosità ecumenica’, vale a dire un senso del mistero di Dio che va al di là delle varie religioni di chiesa, burocratizzate e gestite come aziende commerciali e che consente, nonostante le chiese, di sentirsi parte significativa dell’universo» (ivi: 64). 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
 __________________________________________________________________________________
Roberto Cipriani, professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia. Ha condotto numerose indagini teoriche ed empiriche. La sua principale e più nota teoria sociologica è quella della “religione diffusa”, basata sui processi di educazione, socializzazione e comunicazione. Ha condotto ricerche empiriche comparative in Italia a Orune (Sardegna), in Grecia a Episkepsi (Corfù), in Messico a Nahuatzen (Michoacán) ed a Haifa (Israele) sui rapporti tra solidarietà e comunità. Ha realizzato film di ricerca sulle feste popolari. Fa parte del comitato editoriale delle riviste Current Sociology, Religions, Sociedad y Religión, Sociétés, La Critica Sociologica, Religioni e Società. È Advisory Editor della Blackwell Encyclopedia of Sociology. È stato Directeur d’Études – Maison des Sciences de l’Homme – Parigi e “Chancellor Dunning Trust Lecturer” alla Queen’s University di Kingston, Canada. È autore di oltre novanta volumi e mille pubblicazioni con traduzioni in inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese, portoghese, basco, catalano e turco.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>