CIP
di Antonio De Rossi
La vicenda che sto per raccontarvi è un po’ stramba. Una vicenda che attraversa gli ultimi quarant’anni, muovendo ovviamente ancora da prima, almeno dalla fine dell’Ottocento. Parla di montanari che diventano cittadini, di cittadini che divengono montanari, di montanari poi cittadini che ritornano montanari, di stranieri che atterrano sulle montagne, e anche di cittadini che diventano montanari intermittenti, metromontani, in bilico perpetuo tra il qui e il là. Insomma, un gran casino, da far girare la testa, dove non si capisce neanche più chi è cosa. In tutto questo continuo movimento, una sola cosa resta fissa, ed è la scena, quella di un piccolo paese delle alte valli occitane del Cuneese, il cui nome è Ostana, in valle Po, ai piedi di una delle montagne più belle del mondo, il Monviso.
In anni recenti Ostana e i suoi bizzarri abitanti hanno acquisito una certa notorietà. Sono diventati il simbolo di una possibile rinascita della montagna, Anzi, di più. Diversi usano il termine laboratorio. Un laboratorio dei processi di neopopolamento e di innovazione sociale a base culturale, di una rinnovata e inedita modalità coevolutiva tra uomo e contesto ambientale. Un laboratorio, insomma, di contemporaneità. Parola che subito risulta stridente, perché montagna è, per le nostre società urbane europee, dal XVIII secolo in avanti, sinonimo di tradizione, di identità, di fissità di valori anche morali, perfetto (e funzionale) contraltare idealtipico al dinamismo trasformativo delle città e dei processi di modernizzazione. Lassù – pensiamo pavlonianamente –, rispetto ai casini del mondo, c’è qualcosa di autentico e senza tempo, una sorta di solida roccia salvifica.
Ma procediamo con ordine, partendo dall’inizio di questa storia bislacca. Questo paese all’ombra della bellissima montagna ha, al censimento del 1921, 1.187 abitanti. Se vi aggiraste lungo il piano inclinato esposto a sud del territorio comunale, con le sue tante borgate disposte tra i 1.100 e i 1.600 metri di quota, vi chiedereste subito: ma come facevano a viverci in così tanti? Che cosa mangiavano?
Non era così solo qui. Tutte le Alpi occidentali, italiane e francesi – o ancora meglio, occitane e francoprovenzali – erano state oggetto di un sovrappopolamento, figlio di condizioni di vita migliorate e soprattutto dell’emigrazione stagionale, che portava denari nelle terre d’origine e consentiva di sgravare i luoghi da bocche per molti mesi all’anno. E dove andavano questi montanari? Sovente a Parigi, molto spesso a Marsiglia e Nizza. Perché come dice sempre con una punta di orgoglio Giacomo Lombardo, che come si vedrà è un po’ l’eroe di questa storia, «noi si parlava in primis l’occitano, poi il piemontese, e dopo il francese e l’italiano». Marselha e Niça sono nella Occitania Grande, e i montanari che parlano una lingua che allora definiscono ancora A nosto modo in quelle città riescono a farsi capire e a lavorare. Ogni paese ha una sua specializzazione lavorativa – il caso più famoso è quello di un luogo delle Valades ousitanes, Elva, dove si producevano parrucche per donne raccogliendo capelli veri –, e quando si emigra si portano quelle abilità.
L’emigrazione definitiva comunque inizia precocemente. Già negli ultimi decenni dell’Ottocento il precario equilibrio incomincia a rompersi, e i due versanti delle Alpi occidentali, in primis quello francese, anticipano quello che nel corso del Novecento avverrà su tutta la montagna italiana. Nel censimento del 1931 gli abitanti di Ostana scendono a 713, e a 632 in quello del 1936. Sono gli anni della grande inchiesta su Lo spopolamento montano in Italia, sviluppata a partire dalla fine degli anni venti e per circa un decennio dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria. Contestualizzata a quel periodo storico, è un’indagine d’avanguardia, che riesce a cogliere non solo le ragioni materiali del crescente abbandono, ma anche le matrici sociologiche e culturali della crisi imminente. Scrive Antonio Renato Toniolo, uno degli artefici della ricerca, nelle Note introduttive del volume Lo spopolamento montano nelle Alpi liguri-piemontesi del 1932: «la politica forestale vincolistica, l’aggravio fiscale, la deficiente viabilità, le ragioni igieniche e quelle stesse morali, che prevalgono volta a volta, come motivi locali, non riescono a mascherare la causa fondamentale del fenomeno, che è dato quasi sempre dal forte squilibrio odierno fra la vita dell’abitante di montagna e di quello del piano».
Dopo la fiumana di valligiani morti nelle steppe di Russia e sulle montagne di Grecia e Albania, il secondo dopoguerra, e soprattutto gli anni cinquanta e sessanta, trasformano il ruscellamento dei decenni precedenti in ondata di piena verso valle. Talvolta gli abitanti di intere borgate partono tutti insieme, abbandonando dietro qualunque cosa. Ancora alcuni anni fa, affacciandosi da una finestra verso l’interno di una baita delle alte valli, si poteva scorgere una tavola perfettamente imbandita per un pranzo mai poi avvenuto, perché era sopraggiunta la partenza. Una Pompei alpina. Solo che questa volta si scivola verso la Fiat di Torino, la Michelin di Cuneo.
Poteva andare diversamente? Certamente sì. Come ci ricorda sempre Fabrizio Barca, padre nobile della Strategia nazionale per le Aree interne, i luoghi non sono marginali per una sorta di destino geografico immanente, ma diventano marginalizzati in ragione delle politiche. Le grandi fabbriche del Nord hanno bisogno di masse di uomini per le loro catene di montaggio. E al contempo, però, non bisogna dimenticare che quel fiume umano è attraversato non solo dalla disperazione, ma anche da un desiderio liberatorio e di emancipazione. Scrive il giornalista Giovanni Giovannini su «La Stampa» del 20 marzo 1964, in un articolo intitolato «Miseria desolata e senza speranza dei montanari nelle valli del Cuneese condannate a lenta agonia»:
«Si va nel fango tra casa e casa; a molte è inutile bussare, sono abbandonate e deserte; in altre, è difficile trovare chi le abita, perché hanno chiuso le camere principali, si sono ritirati in una sola stanza. […] Non c’è un’abitazione con un bagno, una doccia, un gabinetto interno. E non c’è un televisore, nemmeno nella parrocchia, nemmeno nella povera osteria. [...] La luce arriva e non arriva; l’acqua viene attinta dai pozzi [...]. Quando uno se ne va, non c’è un becchino a provvedere: sono i parenti a portarselo a spalle, a scavare, e a ricoprire la fossa. […] È naturale e opportuno che molti fuggano al piano».
I numeri parlano da soli anche per il nostro paese: 546 abitanti al censimento del 1951, 402 nel 1961, 306 nel 1971. In realtà i numeri ufficiali non esprimono la realtà, perché in maniera crescente, per diverse ragioni, alcuni per quanto emigrati mantengono la residenza nel paese. Buona parte della comunità di Ostana va a vivere a Torino. Come capita sovente nelle emigrazioni, si ritrovano ad abitare tutti insieme nel quartiere popolare di Porta Palazzo, perché le relazioni, il mutuo sostegno, il rituale collettivo delle memorie e dei ricordi, diventano ancora più importanti nella diaspora. Praticano il mestiere tradizionale del loro paese, quello dei “ferri vecchi”. In realtà il legame col paese d’origine non si interromperà mai. Appena possono – feste, weekend, vacanze – scappano sulle loro montagne, dove mantengono le loro case di famiglia. La comunità quindi continua a esistere sia qui che là, con e senza il paese fisico. Nelle sere d’estate, come ricorda Giacomo Lombardo, si ritrovano sul Ponte Mosca, soprattutto le donne più anziane a guardare la loro bellissima montagna.
E a questo punto della storia spunto io. Già, perché non sono solo il narratore della storia, ma anche un narratore partecipe. È il giugno del 1973, ho 8 anni, quando il prete operaio don Oreste, viceparroco nel quartiere della periferia di Torino dove abito, ci porta tutti a fare il “campeggio” – in realtà si dormiva nella casa parrocchiale del XVII secolo – nel paese della storia. Per quanto nostro padre ci portasse in montagna fin dai primi giorni di vita, quella è la mia prima volta “da solo”. Alle frequentazioni con i preti si uniscono quelle con gli scout. Tra il 1973 e il 1979 passo diversi periodi nel paese, facendo tutti noi cose folli che oggi sarebbero impossibili. Qui acquisto il mio primo pacchetto di sigarette, qui verrò a rifugiarmi durante una semifuga da casa a 14 anni. Camicie a scacchi e jeans sgualciti. L’aria di dissoluzione oramai pervade ogni cosa, dai muri in pietra delle case abbandonate, alla stalla oramai troppo grande dell’anziano montanaro dove vado a prendere il latte per tutti alla mattina, in cui campeggia una rinsecchita e altrettanto vecchia vacca.
E però, c’è un però. In una sorta di gioco di specchi, per noi che veniamo dalla Torino operaia degli anni settanta, quelle montagne e quel paese da cui gli antichi abitanti erano fuggiti rappresentano non soltanto uno spazio di libertà, ma ad esse riconosciamo un valore nuovo. Un valore che leggiamo nell’ordine delle pietre, nei volti segnati dei montanari rimasti. In fondo la mia Bildung ha avuto luogo qui. Non sapevamo che stavamo partecipando a uno dei grandi giri di boa della storia del Novecento. Nel 1977 Nuto Revelli pubblica Il mondo dei vinti, che è libro bifronte, perché mentre sancisce la morte della originale e plurisecolare civiltà alpina, la sacralizza e ne riconosce le valenze, aprendo la strada – lo capiamo solo oggi – a nuovi valori simbolici e d’uso di quei resti e rovine. Il 1977 è del resto anno decisivo per l’avvio di una nuova visione della montagna: a non tantissimi chilometri in linea d’aria dal nostro paese, il 23 agosto il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, durante una visita al Parc national des Écrins, pronuncia il famoso (in Francia) «discours de Vallouise», in cui si criticano gli eccessi della modernità e del turismo sulle Alpi, e si inaugura un’inedita attenzione per le popolazioni autoctone e l’ecologismo.
Dal 1980 abbandono il paese. Ho altre urgenze, più urbane e più legate ai miei 15 anni che si aprono sul mondo. Ritornerò nei primi anni novanta, dopo aver calcato i palchi del punk italiano ed europeo. La Bildung fa sentire il suo richiamo. Laureato in architettura, oramai vivo tra la città e una casa sulle propaggini montane del Cuneese. Riappaio nel paese abbandonato perché voci, articoli di giornale, mi dicono che lì sta capitando qualcosa. Ed in effetti qualcosa sta succedendo. Preoccupati che il paese possa perire – il censimento del 1981 indica 239 abitanti –, da un sindaco che quando qualcuno si presenta per comprare una casa o aprire un’attività dice «lasciateci morire in pace», gli antichi abitanti dalla diaspora torinese presentano nel 1980 una lista per candidarsi in comune. Perdono. Si fanno le ossa come minoranza. Nel 1985, vincono. Giacomo Lombardo diventa il sindaco. Il 1985 è l’anno zero della nuova storia di Ostana.
Seduti intorno a un tavolo, i nuovi amministratori ragionano sui possibili punti di forza tramite cui, se non invertire, almeno bloccare lo spopolamento. Tenendo conto che il turismo novecentesco non è mai arrivato neanche alle porte del paese. Certo, c’è la montagna più bella del mondo. Certo, c’è la rinascente cultura occitana. Ma soprattutto c’è un paesaggio costruito totalmente preservate, anche se oramai i boschi iniziano a invadere gli antichi seminativi. E decidono di partire da lì.
A un tiro di schioppo, più nel fondovalle, c’è un centro abitato, il cui nome è Crissolo, che ha la seggiovia, le piste da sci. Si sono costruite molte seconde case. L’emorragia demografica lì sembra essersi fermata. Quello è il modello imperante. Nel nostro paese invece fanno una scelta folle per quegli anni: realizzano un piano regolatore che non consente nuove edificazioni, ma solo il recupero delle costruzioni esistenti. Un architetto locale, Renato Maurino, elabora una sorta di vocabolario costruttivo normalizzato, a metà la tradizione edilizia del luogo e l’esperienza di progettisti alpini moderni come Edoardo Gellner, che guida i primi riusi a destinazione residenziale e che viene adottato come linea guida dal comune.
Nel frattempo, nasce l’associazione culturale “I Rëneis” che realizza il Civico Museo Etnografico, e che tramite i Quaderni del Museo compie un’ampia operazione di recupero della storia locale. “I Rëneis” realizzano inoltre un progetto volto a ripristinare le antiche mulattiere abbandonate dopo la costruzione delle strade carrozzabili. Intanto il passaparola richiama sempre più persone nel paese, iniziano a uscire i primi articoli – diversi a mia firma –, e la qualità degli interventi architettonici sul patrimonio fa da volano per ulteriori operazioni di riuso.
Malgrado la sua precocità, visto il drammatico contesto delle Alpi occidentali, la prima fase della rivitalizzazione del paese sembra dunque presentare ingredienti poi divenuti consueti: la valorizzazione e la patrimonializzazione delle culture e risorse locali come leva della rigenerazione. In realtà, guardando in filigrana, la differenza è data dai suoi protagonisti, che hanno la capacità di costruire reti lunghe e narrazioni di senso che travalicano il mero contesto locale.
La biografia di Giacomo Lombardo, sindaco del paese dal 1985 al 1995, e poi dal 2004 fino al 2019, è da questo punto di vista emblematica: ragazzo della diaspora a Torino – la sua famiglia è attestata in paese almeno dal 1425 –, inizialmente operaio, diventa direttore generale di una nota ditta di abbigliamento torinese; per lavoro frequenta spesso la Spagna, acquisendo esperienze internazionali. Insieme ad altri attivisti del movimentismo politico occitano, è membro della Chambra d’Oc, di cui diventa presidente, che negli anni a cavallo del passaggio di secolo svolge un importante lavoro di valorizzazione della cultura occitana e di messa in rete delle produzioni locali.
A questo punto è necessaria una parentesi, visto il ruolo che nel racconto sta acquisendo il tema occitano. Vi erano già alcuni gruppi nelle valli che si richiamavano alla storia provenzale, ma in un’ottica essenzialmente culturalista e tradizionale. François Fontan, fondatore del Parti Nationaliste Occitan nel 1959 a Nizza, a seguito di un processo per aiuti all’FLN durante la guerra d’Algeria, scappa nelle valli cuneesi dove nel 1967 crea il MAO-Movimento Autonomista Occitano. Fontan è figura complessa e originale: di formazione comunista, libertario e omosessuale, unisce marxismo critico e dimensione etnica, anticipando nei suoi scritti tutti i conflitti nazionalisti europei, in primis quello jugoslavo. Muore nelle valli nel 1979, lasciando un’eredità profonda a quel gruppo di ragazzi che lo aveva seguito nel MAO, che in quegli anni, oltre a rivendicare i diritti per la lingua e la cultura occitana, lotta contro la speculazione turistica in montagna e per la difesa della natura.
Proprio un intellettuale occitano, Fredo Valla, che si trasferisce dalla vicina val Varaita nel paese del nostro racconto, è autore della sceneggiatura di un film del 2005, Il vento fa il suo giro, divenuto di culto tra le persone interessate alla montagna. Il film narra i tentativi di rinascita di un villaggio e le difficoltà che incontra. Pochi sanno che la vicenda del pastore francese con la sua famiglia, prima accolti calorosamente e poi espulsi della comunità, è realmente accaduta, e proprio nel nostro paese. Il sindaco che sbatte i pugni dicendo che bisogna fare qualcosa affinché il paese non muoia, è Giacomo Lombardo.
E in effetti, malgrado le tante progettualità e cose fatte, il paese continua a spopolarsi. Nel 1991 gli abitanti sono oramai 119, e scendono a 79 nel 2001. In realtà come si è detto sono dati da prendere con le molle. Il 17 gennaio 2004 la TGR Piemonte fa un servizio sulle persone che vivono realmente nel paese tutto l’anno, e che vengono chiamate dalla comunità i dormienti: sono sei. In ottant’anni, da 1187 a 6 abitanti. Per me è una profonda e dura lezione: turismo e patrimonializzazione sono importanti, ma non sufficienti.
Quando Giacomo Lombardo ritorna a governare il paese nel 2004 dopo due mandati del suo ex vicesindaco, è chiaro che serve qualcosa di radicalmente diverso. Ricordo bene la cena per festeggiare la vittoria all’Ostu d’la Bèla Mëndia a Paesana: più che di valorizzazione della storia e delle culture locali si parla ora di come costruire una nuova abitabilità, e anche una nuova dimensione produttiva del luogo. In quel momento in paese non ci sono più attività economiche: chiuso il vecchio emporio, resta un bar trattoria non sempre aperto. Il paese è davvero sul punto di morire. Giacomo Lombardo mi chiede di diventare assessore, gli dico di no, ma gli prometto un forte supporto come Politecnico di Torino. Diventano assessori due figure importanti: Lido Riba, vecchio comunista cuneese, già presidente del Consiglio regionale e Presidente dell’Unione dei Comuni e degli Enti Montani del Piemonte (Uncem), e Valter Giuliano, studioso ed ecologista che è stato assessore alla cultura della Provincia di Torino. Saranno fondamentali per costruire strategie e azioni di rete.
A differenza di tanti luoghi che costruiscono il loro percorso con voluminosi studi e analisi di esperti e universitari, qui il progetto è costituito da una sola, semplice, frase: «Il paese deve tornare ad avere cento abitanti». Nel senso di abitanti veri, dormienti appunto. Osservato oggi, dopo vent’anni, questo cammino appare segnato da un eclettico processo fatto di continui reindirizzamenti, svolte, cambi di marcia, implementazioni a seconda degli esiti man mano raccolti lungo il percorso. Un percorso apparentemente a zig-zag, che però mostra una ratio organizzativa squisitamente autopoietica, che coincide con l’obiettivo di rinascita del villaggio. Il 2004 è l’anno di passaggio dalla valorizzazione alla rigenerazione.
E qui inizia una storia che se raccontata nel suo puntuale sviluppo temporale richiederebbe troppo spazio. Diciamo che il paese punta su due assi principali: l’innovazione sociale a base culturale, e la costruzione di infrastrutture per l’abitabilità. Col tempo prenderà corpo un terzo tema, quello dello sviluppo di nuove attività economiche. Il territorio del paese non viene più visto solamente come paesaggio storico e culturale da conservare e valorizzare, ma come spazio materico da rimettere al lavoro ai fini dell’abitabilità, cosa che nel tempo porterà a conflitti con gli enti preposti alla salvaguardia essenzialmente figurale di un’immagine dei luoghi che si vuole immutabile e fissata per sempre.
È un lavorio continuo quello che prende avvio da quell’anno. Giacomo Lombardo è un instancabile ricercatore di finanziamenti, e porta nel piccolo paese figure del mondo politico, culturale, universitario che costituiranno una rete di supporter decisiva – marcando una radicale differenza rispetto alla tradizionale mentalità autarchica di queste aree – per questa seconda fase del processo di rinascita. La cultura gioca un ruolo centrale. Nel 2008 nasce il Premio internazionale per le “Scritture in lingua madre”, che porta in paese scrittori da tutto il mondo giunto e che è oramai alla XIV edizione. Nel 2012 Fredo Valla si inventa una Scuola di cinema che attira giovani da tutta Italia. Sono solo i tasselli iniziali di un processo che trasformerà il paese in una vera piattaforma di produzione culturale, con decine e decine di iniziative. Nel frattempo, nel 2005 il paese è Bandiera Verde di Legambiente, e nel 2008 entra nel circuito I Borghi più belli d’Italia.
Nel 2011 un evento importante: dopo anni di assenza di strutture ricettive e commerciali, apre il rifugio Galaberna, ristorante-bar-negozio-alberghetto, elemento fondamentale per la rinascita della socialità in paese. A gestirlo è Silvia Rovere, che abbandona il lavoro da funzionaria in Regione, portando con sé il marito – fisioterapista spagnolo – e le due figlie. Nel 2016 Silvia e Jose mettono al mondo Pablo. È il primo bambino nato in paese dopo 28 anni, una notizia che grazie ai supporter fa il giro del mondo, rimbalzando sulla Bbc e la Cnn.
Parallelamente, a partire dal 2007, prende corpo l’infrastrutturazione fisica del paese ai fini di una nuova abitabilità, che conduciamo noi come Politecnico di Torino insieme a professionisti locali. Con Giacomo Lombardo e gli abitanti di Ostana è un lavoro continuo, fatto di incontri, telefonate nella notte, consigli e sfoghi, compilazione di domande per i bandi di finanziamento, cantieri, visite alle Fondazioni bancarie. Un lavoro che poco ha a che vedere con le professioni tradizionali, semmai più simile a quello di un bricoleur e agit-prop. Costruiamo un Centro culturale a 1.400 metri di quota in una delle borgate oramai disabitate, che al momento sembra follia ma sarà una scommessa vinta. Una Casa del Welfare, che oggi ospita un asilo e una scuola di musica per bambini, un laboratorio artigianale di pasticceria e panificazione, e l’ambulatorio medico. Un caseificio a servizio degli alpeggi. Un Housing sociale a supporto del ripopolamento. Un piccolo Centro wellness e sportivo. E riplasmiamo la porta del paese con strutture per attività sociali, economiche, culturali. Non ci sono finanziamenti speciali dietro queste iniziative, solo un lavorio minuto e continuo, con la partecipazione a bandi competitivi, e il sostegno dei tanti amici e supporter che il paese inizia ad avere. Perché la comunità ha capito che il paese per non morire deve aprirsi, costruire reti, tessere alleanze.
E intanto, prende corpo poco a poco il percorso di neopopolamento. Non c’è solo Silvia Rovere e la sua famiglia tra i nuovi abitanti. Tra i tantissimi visitatori del paese, alcuni decidono di fermarsi, perché intravedono in quel pugno di borgate una possibile terra d’elezione. È la storia di Enrica, che abbandona il posto alla Statale di Milano. Di Serena, che si inventa un grande orto biologico riattivando l’agricoltura del luogo. Di Flavio e Chiara, che aprono un laboratorio di panificazione. Del tedesco Claas, che si unisce a loro. Di Rashid, rifugiato pakistano che qui viene accolto con la sua famiglia. Di Matteo e la francese Elöise, che gestiscono un allevamento di capre e l’alpeggio. Sono giovani, sovente laureati e con figli, e con un preciso progetto imprenditoriale e di vita. La grande bravura dell’amministrazione di questo paese è quella di vedere questi giovani in volo – e vi assicuro, sono tanti, in giro per le montagne italiane, in fuga dalle città – che cercano un luogo di atterraggio, di afferrarli, di portarli a terra, di offrire loro le condizioni base per la loro vita e progetti.
Perché nel frattempo, da sei dormienti, gli abitanti reali sono diventati più di una cinquantina. Un caso di neopopolamento probabilmente unico sulle Alpi. Qualcuno è paesano di ritorno dalla diaspora, ma molti sono appunto nuovi montanari.
Nel maggio 2019 Silvia Rovere, donna e foresta, diventa sindaco di Ostana, dopo cinque mandati complessivi di Giacomo Lombardo. E nel 2020 un altro passaggio decisivo. Durante la pandemia nasce in paese una Cooperativa di comunità, Viso a Viso, che gestisce le strutture di servizi realizzate nel tempo, e che imprime una nuova accelerazione al progetto di rigenerazione, con una miriade di attività in campo culturale – laboratori, seminari, conferenze, mostre – e la creazione di una decina posti di lavoro. Le biografie dei membri della Cooperativa fanno ben capire la nuova natura del paese. Solo alcuni vivono in loco – come il presidente Federico Bernini, toscano –, gli altri abitano uno spazio largo, che mette insieme il paese, le città e altre montagne, rapporti nazionali e internazionali. Il villaggio come piattaforma e punto di condensazione di reti e movimenti.
Intanto Ostana raccoglie diversi riconoscimenti per il suo percorso di rigenerazione: Premio Vassallo nel 2015, Premio Fare Paesaggio della provincia autonoma di Trento nel 2016, Cresco Award e menzione speciale al Premio Europeo del Paesaggio del MIBACT nel 2017, partecipazione alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2018. Per non parlare dei premi e riconoscimenti di architettura, nazionali e internazionali. Televisioni come la franco-tedesca Arte o la svizzera RSI sono di casa a Ostana, come tanti studenti universitari o ragazzi (1.600 negli ultimi due anni) che frequentano seminari e laboratori organizzati da Viso a Viso. Un docente universitario svizzero ha creato un istituto di ricerca sui temi della sostenibilità in una borgata abbandonata. Il paese, unico in Italia, è nella rete europea Smart Rural Areas, e anche in Unita-Universitas Montiun, che permette a studenti universitari della UE di passare periodi di studio sulle montagne. E dal 2019 è presente una realtà universitaria di punta come il Centro per lo Studio dei Fiumi Alpini dell’Università del Piemonte Orientale.
Oggi Ostana ha diverse strutture ricettive, nuove aziende agricole, molteplici attività culturali che creano aggregazione e economia. Buona parte del patrimonio costruito è stato recuperato, e questo ha portato a una rinascita dei saperi artigianali e costruttivi, come la capacità di costruire bellissimi muri in pietra. Soprattutto, nel corso delle ruido, momenti di volontariato collettivo per la manutenzione del territorio, vecchi e nuovi abitanti lavorando spalla a spalla stanno forgiando una nuova cultura locale, esito dell’ibridazione tra antichi saperi e nuove visioni e progettualità. La storia qui ha ricominciato a scorrere, e come ha dichiarato ai giornali lo scrittore indiano Amitav Ghosh, che è stato ospite in paese diversi giorni, «Ostana mi ha impressionato perché ha un’architettura integrata nel paesaggio, mi colpisce come è stata ripopolata attraverso un lavoro sostenibile».
E del resto, che fosse in corso di elaborazione una nuova cultura del luogo, è diventato evidente in occasione di un momento di conflitto. Nel 2017, l’arrivo di sei rifugiati pakistani, fortemente voluto dall’amministrazione, è stato occasione di uno scontro per alcuni versi lacerante, che ha messo bene in evidenza l’esistenza di almeno quattro “popolazioni” nel paese. A favore dell’accoglienza il nucleo dei vecchi “traghettatori”, dei nuovi dormienti e dei supporter – quasi degli abitanti intermittenti –, dall’altro lato una parte degli antichi residenti del paese, che vivono nelle pianure e che mantengono in loco una residenzialità secondaria. Uno scontro che a partire dal tema dell’accoglienza degli stranieri ha fatto emergere una divaricazione che è di visioni e di immaginari: tra chi pensa il paese come un progetto al contempo individuale e collettivo di innovazione finalizzato a costruire la montagna del futuro, e coloro che vedono in quelle case un fondale idealizzato di memorie. Quasi la ripetizione della storia del film Il vento fa il suo giro. Un conflitto che è stato superato e ricomposto proprio in ragione della forza della nuova cultura locale e della nuova comunità.
Un’altra criticità è determinata dalla pressione cui il paese è sottoposto. Non soltanto perché i 50 abitanti in estate diventano 500. Ma perché l’attrattività del luogo ha portato a una dinamica di acquisti immobiliari che rischia di compromettere il processo di neopopolamento, tanto da spingere l’amministrazione a realizzare strutture di housing a supporto degli abitanti in arrivo.
E ancora, va osservato come il paese, malgrado le tante relazioni nazionali e internazionali, risulti isolato nel territorio vallivo e delle valli circostanti, circondato da realtà che seguono logiche tradizionali e che patiscono il successo dei loro vicini. Cosa che è risultata evidente in occasione del Bando Borghi linea A del Ministero della Cultura del 2022, quando Ostana, arrivata seconda in graduatoria, e di fronte a palesi errori nella valutazione, fa ricorso alla Regione Piemonte, suscitando la rabbia di molti vicini: «Ma cosa vogliono ancora questi “rossi”, ora basta!». E il ricorso verrà allora abbandonato, trovando un ragionevole accordo con la Regione. Ma questa contrapposizione, questa impossibilità di irradiare pratiche negli spazi circostanti, resta certamente un fattore critico di questa vicenda per tanti altri versi virtuosa, aprendo un tema politico.
Dopodiché questo paese è diventato il simbolo della possibilità di farcela, di rinascere, di far ripartire la storia di un luogo. Se ce l’hanno fatta loro, un paese di sei abitanti praticamente morto, perché non dovremmo farcela noi? Molte volte, durante i convegni, persone chiedono con una punta di malizia a Giacomo Lombardo se l’esempio di questo paese è replicabile. Lui risponde: «Beh, lavorate quarant’anni come noi e ne riparliamo». Non è una risposta arrogante. Parla della pazienza, della meticolosità del lavoro, del fatto – decisivo – che per rigenerare un paese serve tempo, perché ci sono di mezzo le persone, le loro visioni, i loro immaginari, i loro problemi materiali e psicologici. È un lavorio continuo, di mediazione culturale, di ascolto, di sollecitazioni e sguardi gettanti sul futuro necessariamente omeopatici. Per questo molte progettualità istituzionali falliscono, perché neanche capiscono l’importanza assoluta di questa dimensione. La rigenerazione non è un atto meccanico, e le risorse economiche da sole non bastano.
Perché è capitato a Ostana e non altrove? Mi sono interrogato mille volte su questa domanda. Certo, la qualità dei protagonisti. Ma non basta. Io credo che la ragione profonda è che a un certo punto la comunità originaria, di fronte alla morte certa del paese, abbia compiuto un atto tragico e inedito, impensabile per dei montanari, mettendosi alla ricerca di nuovi figli. E trattandosi di figli, il tema è delicato, intimo, difficile. Non puoi scegliere chi saranno i tuoi figli adottivi, ma li puoi in qualche modo ricercare e soprattutto selezionare. La selezione è tema centrale nel progetto di sopravvivenza del paese, dove giocano un ruolo decisivo affinità e competenze. E al contempo hai la consapevolezza, dolorosa, che nel passaggio tra te e il tuo figlio adottivo molte cose andranno perdute. Perché questa è anche la storia di una rottura. Che del resto è inevitabile, perché i figli sono portatori di idealità, visioni del mondo e progettualità ben lontane dall’antica comunità ante diaspora. Una nuova comunità altra.
Il processo di rigenerazione e di neopopolamento di Ostana è fragile, e i suoi abitanti possono essere spazzati via in un attimo. Ma esiste. Del resto, nel frattempo, il mondo è cambiato. Oggi si discute molto di aree interne e montane, e qualche studioso parla di «nuova centralità della montagna». Le aree interne, da luoghi del sottosviluppo e della marginalità, oggi sono viste anche come spazio di opportunità. E la rarefazione, rispetto al troppo pieno delle città, all’immobilismo determinato dalle rendite di posizione, può trasformarsi in atout.
Spirito Magno Rosso, un abitante delle valli occitane, classe 1896, nella testimonianza raccolta l’11 maggio 1974 da Nuto Revelli per Il mondo dei vinti, dice: «Oggi in montagna non c’è più modo di vivere. Lo sviluppo economico della pianura è stato troppo rapido, ha attirato tutte le forze valide della montagna, tutti i giovani. Eppure alla lunga la montagna ritornerà buona, ritornerà abitata. Ci vuole qualcosa di grosso, di grave, che faccia di nuovo apprezzare la gente contadina, la nostra montagna». Quel qualcosa – tra pandemie, guerre diffuse, povertà crescenti, record di temperature che si susseguono da un anno all’altro – forse sta avvenendo.
Dialoghi Mediterranei, n.71, gennaio 2025
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Antonio De Rossi, architetto e PhD, è professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana e direttore dell’Istituto di Architettura montana e della rivista internazionale «ArchAlp» presso il Politecnico di Torino. Ha al proprio attivo diverse realizzazioni architettoniche e progetti di rigenerazione in territorio alpino. Con i due volumi La costruzione delle Alpi (Donzelli, 2014 e 2016) ha vinto il premio Rigoni Stern e il premio Acqui Storia.
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