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Il rito del varo: credenze e superstizioni

varo-1di    Lorenzo Greco

Nelle settimane scorse un doloroso evento di cronaca ha riportato l’attenzione sulle tematiche del varo delle imbarcazioni: la procedura del primo ingresso in mare di una nave è stata infatti funestata nei cantieri di Riva Trigoso dalla morte di un ufficiale di Marina, per la fatalità di un incidente connesso alla complessità e anche alla possibile imprevedibilità di questo tipo di manovre. La tradizione marinara diffusa in molte regioni e culture registra un grande varietà di pratiche rituali, credenze e perfino esplicite superstizioni inerenti sia alla costruzione delle imbarcazioni, sia a simili occasioni inaugurali e al varo stesso. Alcune di esse, in forme magari trasfigurate, sopravvivono variamente ancora oggi. Ma tutte appaiono legate simbolicamente all’idea che una particolare cerimonia, un particolare rito siano necessari quando si dà vita ad una materia inerte qual è l’informe quantità di lamiere o tavole di legname che assemblate dalla sapienza del lavoro umano danno infine forma a una nuova imbarcazione. Quella materia pesante e rozza, in apparenza a tutto idonea tranne che a galleggiare in acqua, si trasforma come per magia (la magia della tecnica umana!) in esseri agili e sicuri fra le onde, perfino eleganti.

Il rito del battesimo e del varo della nave ha sempre rappresentato la necessità che quella costruzione finale che si spera galleggiante e navigante, che ha perso già in terra, impostata com’è su scivoli e provvisoriamente puntellata da pali di sostegno, la sua pesante materialità originaria, e che da quel determinato momento affronterà le onde, possa entrare a far parte delle creature favorevoli agli esseri umani che vi si affidano. Folco Quilici una volta ha raccontato quel che ebbe modo di sentire da un pescatore siciliano: «tuo figlio lo battezzi, glielo dai un nome? La barca è la stessa cosa, è una creatura cristiana», dove cristiana, come in tanti dialetti nostrani, vale per umana.

Creatura vivente e “cristiana”, dunque. In molte sue tipologie tradizionali l’imbarcazione è stata ovviamente dotata per questa ragione anche di occhi di qualche sorta. Occhi di cinghiale, cigno o delfino per i romani, grandi occhi di balena nei velieri dell’occidente… Occhi che non intendevano rappresentare semplici ornamenti, ma un attributo essenziale di creature viventi che, grazie agli strumenti della vista, possono riconoscere con sicurezza nel vasto mare la giusta direzione. Molte volte il marinaio nella notte, nella nebbia, nel cattivo tempo – in modo che diremmo “cieco”– non poteva che affidarsi alla sua imbarcazione, forse non diversamente dal montanaro che per ritrovare la strada del ritorno conta sul suo mulo per attraversare con sicurezza il dedalo dei sentieri di montagna e delle foreste, dove l’uomo – ma magari non l’animale – può perdere facilmente l’orientamento. Così nella molteplicità dei rischi che il mare può riservare (secche, scogli affioranti, relitti alla deriva, o anche solo la difficoltà di trovare un riparo lungo coste finora ignote) gli occhi della barca vogliono essere garanzia simbolica di sicurezza.

I marinai da che mondo è mondo affidano la propria vita alla loro imbarcazione ed il significato più profondo della cerimonia del varo risiedeva nel legame di assoluta fiducia che gli uomini assegnavano alla creatura nata da nient’altro che dal loro lavoro. Proprio per questo durante il varo si celebrava la benedizione, per sottolineare la solennità del rito che conferiva alla nave un prestigio senza eguali rispetto ad altri mezzi di trasporto.

Oggi che la navigazione pare un’attività molto più naturale grazie alla moderna tecnologia e generalmente (ma non assolutamente: le cronache anche drammatiche lo ricordano) priva di rischi, il momento del varo assume i tratti più che di una cerimonia di benedizione della nave e dei marinai che a lei si affideranno, quelli di un più laico momento di festa e di gioiosa celebrazione del mezzo e del cantiere costruttore. E tuttavia anche in tali occasioni mondane il rito del battesimo in qualche modo rimane ben vivo e sentito. Sulla fiancata si suole rompere una bottiglia di vino, residuo e trasfigurazione probabili del sangue di animali vittime rituali con cui si aspergeva lo scafo e di cui si hanno testimonianze cospicue. Nella tradizione dell’Adriatico si teneva una pelle dell’agnello sacrificato al momento del varo sulla prua, pelle trasformata poi in una scultura in legno che ne riprendeva e ricordava nella forma riccioli e volute.

Con tutti gli inevitabili cambiamenti nel cerimoniale, il significato più profondo non pare cambiato: le difficoltà tecniche e il pericolo del varo ed al tempo stesso il suo fascino sono rimasti immutati nei secoli, come immutate sono le leggi fisiche che governano il fenomeno. Basti ricordare, a proposito dei rischi connessi al varo, il naufragio immediato che toccò (ancora a Riva Trigoso) a una delle più belle e lussuose navi mai costruite dai cantieri italiani, la Principessa Jolanda, subita affondata nelle onde appena scivolata in acqua. Difficile fu poi per l’opinione pubblica sottrarsi a suggestioni superstiziose quando, pochi anni dopo, davanti al Brasile la sua esatta gemella Principessa Mafalda fece anch’essa naufragio pur in condizioni e modalità molto diverse, stavolta con molte perdite di vite umane. È il caso di ricordare in quell’evento drammatico l’eroica figura del comandante palermitano dell’unità Simone Gulì che si prodigò per salvare molte persone a lui affidate, per poi andare a fondo con la sua nave.

Nel battesimo, come diceva il pescatore, si dà l’anima all’imbarcazione, la si benedice perché appartenga da quel momento alle forze benevole per gli uomini. Non stupisce dunque che se qualcosa nel varo non si svolge nei modi previsti, se ne traggano generalmente cattivi auspici. Quando la grande nave da crociera Concordia un paio di anni fa ha fatto naufragio all’isola del Giglio, subito si è ricordato come al momento del suo varo la bottiglia augurale lanciata contro lo scafo non si era rotta come previsto e auspicato, e quindi per il mancato versamento del vino il battesimo rituale con le benefiche conseguenze non era avvenuto. Nel sottofondo del video che testimonia quell’evento si sentono le espressioni attonite e sgomente dei presenti che, davanti alla bottiglia che non si rompe, sottolineano il cattivo presagio. Del testo anche al grande Titanic capitò lo stesso incidente al momento del battesimo, e com’è tristemente noto conobbe non diversa sorte.

Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
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