di Mario Sarica
Una visita inaspettata sui titoli di coda del mandato del 46mo presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, quella della first lady, che ha destato d’improvviso il paese addormentato su quella collina- belvedere, dove lo sguardo abbraccia, riempendosi di sublime bellezza, il profilo frastagliato, tagliente ed intensamente verde dei Peloritani, la penisoletta di Milazzo stesa dolcemente sul mare, da dove emergono sognanti le isole Eolie; e volgendo ancora una volta lo sguardo allo skyline dei Peloritani, ecco a volte sorgere la mitica e mutevole sommità della maestosa Etna; e come fondali dai toni azzurrini il disegno morbido dei Nebrodi, che rotolano sulle onde con i promontori rocciosi e ciclopici di Tindari e Calava’ del golfo di Patti.
Accarezzata teneramente da queste immagini siciliane, fra monti, mare, isole “vaganti” e cielo, quasi in maniera epifanica, dal momento che francamente si era persa ogni speranza inseguita per quattro anni, nella soleggiata e tiepida tarda mattinata del 4 dicembre, è giunta nella piazza della chiesa Madre di Sant’Antonio Abate di villaggio Gesso, la delicata e luminosa first lady, Jill Tracy Jacobs Biden, assieme alla figlia 43enne Ashley, per scoprire la terra dei suoi bisnonni. Quel Gaetano Giacoppo, nato nel 1855, e Concetta Scaltrito, nata nel 1865. Il bisnonno coraggioso e risoluto, parte dal Casale peloritano per varcare l’Atlantico, in cerca di fortuna, a 32 anni, nel 1887; per poi essere raggiunto ad Hammonton, centro rurale in crescita nel New Yersey, – terra promessa per oltre la metà degli abitanti del villaggio peloritano – due anni dopo, il 20 novembre del 1895, da Concetta Scaltrito, che di anni ne ha 24, imbarcatasi a Palermo sul piroscafo California.
I due ‘ziti’ ibbisoti si sposeranno in fretta, a soli due giorni dell’arrivo di Concetta, nella chiesa di San Giuseppe, condividendo la felice scelta matrimoniale con i compaesani più cari, fra i quali, come testimone di nozze Matteo Campanella. Quest’ultimo il primo ibbisoto a scegliere Hammonton in cerca di una migliore vita, dopo sei mesi di clandestinità trascorsi a Messina, pur di evitare la leva militare obbligatoria imposta dai Sabaudi, all’indomani dell’Unità d’Italia. Una storia di emigrazione e integrazione sociale e culturale davvero esemplare, quella degli Ibbisoti ad Hammonton, che desta presto l’interesse del governo americano, non certamente tenero in quegli anni nei confronti degli italiani di provenienza meridionale.
E così all’inizio del Novecento dà incarico alla giovane e brillante sociologa, femminista ante litteram, Emily Fogg Meade, di andare “sul campo” e redigere una relazione per saperne di più di questa singolare comunità di immigrati siciliani, ben voluti da tutti, ad iniziare dai proprietari terrieri, particolarmente laboriosi, rispettosi con tutti, generosi e grandi lavoratori. La Fogg ci restituisce nel 1907 un reportage di grande interesse sociologico, evidenziando lo stile di vita di questa comunità, gli ambienti domestici, le relazioni interfamiliari, l’approccio solidale, un vero e proprio welfare, tipico della cultura sociale della tradizione d’origine, che li contraddistingue da tutti gli altri. la Meade va ben oltre la sua mission, mostrando dal suo racconto (tradotto per la prima in italiano qualche anno fa a cura del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina per i tipi di Pungitopo Editore), una sensibilità e spirito di osservazione e un’empatia non comune con la comunità degli immigrati peloritani. E così ci dona un vero e proprio documento di vita vissuta, con acuto sguardo socioantropologico palpitante e partecipe, di famiglie strette ai valori identitari di origine, quelli irrinunciabili e fondativi, in grado tuttavia di riplasmarli in maniera graduale e virtuosa con le nuove abitudini, stili di vita e opportunità del contesto sociale, lavorativo, culturale ed economico americano. Un esempio quanto mai illuminante della nascita di una nuova identità ridefinita dall’incontro di lingue e culture ‘altre’ e diverse fra loro, distanti nel tempo e nello spazio, eppure in grado di confrontarsi per necessità e utilità, per sopravvivere a vicenda, o comunque per non annullarsi reciprocamente, e dunque confrontarsi senza tentare di sopraffarsi, dialogando fra di loro, condividendo le differenze, fino ad integrarsi dentro il modello dominante, lasciando comunque spazio alle ragioni vitali delle origini. E ciò per evitare lo spaesamento e lo smarrimento delle ‘difese’ individuali e collettive nelle forme primarie di relazioni familiari e comunitarie, esibendo e rafforzando i vincoli interpersonali, attraverso, ad esempio, feste, culti e devozioni religiose, musica e cibi della tradizione d’origine.
La chiave di volta adottata dagli ibbisoti ad Hammonton per affermarsi nel giro di due generazioni è stata certamente la loro capacità di adattamento al nuovo contesto di vita, puntando inizialmente sui saperi di lavoro dei contesti agropastorali lasciati oltreoceano. Per poi, con l’apprendimento della nuova lingua, e l’assunzione dei nuovi comportamenti e posture individuali e collettive, relazioni sociali e di lavoro, ampliare e diversificare l’inserimento in altri ambiti di lavoro più remunerativi e socialmente gratificanti, attivando abilmente il cosiddetto “ascensore sociale” del self made man. Tutti caratteri distintivi in rapida evoluzione, questi, ben evidenziati dalla sociologa americana, giudicati vincenti sul piano dell’affermazione sociale e del graduale sviluppo del benessere economico famigliare e della crescita dei figli, al punto da indicare il “modello di integrazione ibbisoto” come esemplare, da replicare anche in altri Stati americani, soprattutto quelli del Sud.
Una crescita tenace, fatta di sacrifici e di duro lavoro, quella della comunità del Casale peloritano ad Hammonton, che trova inizialmente proprio nella pratica contadina delle origini, e nella prima fase nella raccolta stagionale dei frutti di bosco della “terra dei Pini”, con le ampie aree lacustri, il segreto della propria affermazione e riscatto sociale, senza tuttavia mai rinunciare ai valori guida della tradizione siciliana. Davvero coinvolgente la narrazione partecipata, con dovizia di particolari, della Meade, che ci guida anche all’interno delle case disadorne ed essenziali, animate tuttavia da uno spirito di accoglienza e ospitalità mostrato con orgoglio dalle donne, soprattutto. Un fuoco sacro, dunque quello del genius loci trapiantato con successo in terra d’America, mai rinnegato o azzerato, anzi alimentato di generazione in generazione, in tutte le famiglie, mantenendo legami con il paese d’origine, di cui Jill Tracy Jacobs Biden incarna certamente l’espressione più alta, lungo un cammino intergenerazionale, che molto ci dice della costruzione di un’identità al plurale, tipica della nostra contemporaneità.
Un fuoco che si alimenta con devozione per gli avi, mista a nostalgia per la terra d’origine lontana, che riecheggia miticamente dai racconti dei nonni, senza mai spegnerlo, per evitare di trovarsi poi fra le mani la cenere del rimpianto, contagiati dalla sindrome della nostalgia, pur nel nuovo, vivace e gratificante american style. La prima first lady di origine italiana, dunque con questa sua emblematica scelta di ritorno all’Itaca dei suoi padri, ha voluto con determinazione e orgoglio ritrovare così il punto zero della sua storia, sollecitata evidentemente da un nostos che ha animato il suo percorso esistenziale. E così ha ritrovato, io credo, non solo il paesaggio e il cielo siciliano, ma ci piace pensare che abbia anche percepito i riflessi dell’anima popolare primigenia dei suoi bisnonni ibbisoti. La sua visita nel casale peloritano si è nutrita di scelte e gesti semplici, dettati da sentimenti profondi, ricolmi di verità, affidandosi a parole che hanno irradiato un’esperienza di vita di forte impatto, rivelando con profondità di pensiero e spontaneità, direi familiarità ed empatia inaspettata, alla comunità in festa, che il suo vissuto si è nutrito da sempre di questa eredità “genetico-familiare” esistenziale singolare, mai rinnegata, fino a citare persino le tipiche ed appetitose braciole messinesi (deliziosi involtini di carne di vitellina con ripieno di pan grattato, formaggio, prezzemolo, pepe, sale e una spalmata di strutto), degustate anche alla Casa Bianca! E ciò, fino al punto da plasmare il suo profilo caratteriale e i suoi plurimi livelli antropologici identitari, necessari oggi più che mai per perimetrare il nostro stare al mondo nel groviglio di storie e diversità che ci disorienta, comuni e condivisi con sfumature e storie diverse da altre generazioni di americani di origine italiana.
Oltre il rigido protocollo di sicurezza imposto dal suo ruolo istituzionale, reso plasticamente da uno schieramento di forze dell’ordine mai visto nel Casale peloritano, con un invalicabile cordone di sicurezza, la first lady ha dato la sensazione di voler prendere le distanze con naturalezza dal copione imposto dallo staff presidenziale, attivando un liberatorio corto circuito in grado di dare chiara visibilità ai profondi sentimenti che hanno guidato la sua scelta di ripercorrere, come testimonianza di gratitudine, la via del ritorno “a casa”, facendo così emergere con gioia vera il suo vissuto che si ricongiunge per un giorno con le radici, mai rinnegate della sua famiglia.
Animata da questo bisogno sentimentale irrinunciabile, e tentando per quanto possibile di difendersi dagli inevitabili e clamorosi effetti collaterali mediatici determinati dalla sua ultima visita ufficiale da first lady in Italia, dando così pieno spazio a quella che a me piace definire una filiale, intima e sentita devozione interiore nei confronti dei suoi “peani”, la delicata e tenera signora Jill ha voluto infatti, giungendo nel Casale peloritano, in forma strettamente privata – accompagnata solo dalla figlia Ashley, dall’Ambasciatore americano con la moglie, la Console americana di Napoli, e il ristretto staff presidenziale, e accolta solo dal parroco padre Franco Arrigo e da chi scrive – “rintracciare” e “toccare con mano” nella area absidale della monumentale secentesca chiesa Madre di villaggio Gesso, intitolata al Patrono Sant’Antonio Abate, le “tracce”, attraverso le testimonianze dell’atto di nascita e di battesimo della bisnonna Concetta Scaltrito, oltre alla scheda d’identificazione dell’arrivo in America della stessa bisnonna, del certificato di matrimonio dei bisnonni del 1895, che dà inizio all’avventura americana della famiglia Giacoppo che presto diventerà Jacobs, per poi avere in dono il volume Di là del mare, dal villaggio Gesso ad Hammonton, una storia esemplare di emigrazione edito per la collana “Tracce” del Museo dei Peloritani, a firma di chi scrive, di Ermanno Corsi, cui si deve gran parte della puntuale ricerca della storia genealogica della famiglia Giacoppo/Jacobs, e di Marcello Saija , insigne storico dell’emigrazione siciliana in America.
Poi, un gesto rituale fortemente sentito, l’accensione di un cero all’altare di San Giuseppe, sul lato destro del transetto, fatto erigere negli anni cinquanta del Novecento, in segno di gratitudine e devozione dalla comunità di ibbisoti di Hammonton, a sancire un legame con il paese d’origine mai reciso. Infine la first lady si è immersa nella suggestione senza tempo del presepe tradizionale allestito in chiesa secondo la tradizione, in vista del Natale.
Un ritorno alle fonti esperienziali di vita davvero forti ed esemplari, quelli che ha scelto di fare la first lady, in un momento in cui peraltro si allarga sempre più il confronto e il dibattito a più voci sul turismo delle radici, regalando sul tema, grazie ad un vissuto americano che non ha mai reciso i legami con la terra degli avi, una vera “lectio magistralis”, a sua insaputa, libera da ogni orpello accademico o frasi di circostanza. Lasciata la chiesa, la first lady è stata accolta e salutata dal sindaco di Messina, Federico Basile, per poi incontrare la comunità di villaggio Gesso raccolta festosa in piazza, quasi incredula di avere avuto il privilegio di questo incontro ravvicinato con una donna orgogliosa e fiera della sua storia familiare, che prende le mosse dalla ‘spartenza’, ovvero dall’addio dei suoi bisnonni dal villaggio Gesso, per un futuro migliore da assicurare ai figli che verranno. E Jill Tracy Jacobs Biden lo fa dando voce a sentimenti veri e contagiosi.
E allora, lasciamoci ora avvolgere e coinvolgere dalle parole che Jill Tracy Jacobs Biden, dopo i saluti istituzionali di rito, con a fianco, con la fascia tricolore d’ordinanza, il sindaco di Messina Federico Basile, ha riservato alla piazza gioiosa addobbata con striscioni e bandiere italo-americane di benvenuta, da una piccola pedana posta sullo sfondo quanto mai simbolico di una casa rurale, una delle poche sopravvissute nel Casale peloritano, integra e dignitosa nel suo essenziale disegno di architettura rurale contadina.
«Voi siete la luce del mondo – ha esordito la first lady citando il Vangelo (5: 14 ) di Matteo – non può restare nascosta una città collocata sopra un monte». Un incipit luminoso come il sole che l’ha accolta, certamente inaspettato, che ha disvelato subito la verità di vita, alla quale ha attinto le sue parole, un vissuto donato nel suo ruolo di insegnante ai ragazzi, con particolare attenzione agli ultimi, con uno spirito di servizio innato, discreto e riservato.
«Questo è il mio ultimo viaggio all’estero come first lady… ho lasciato il meglio alla fine – aggiunge con un sorriso pieno di contentezza –. Venire qui è stato l’onore della mia vita», probabilmente un sogno, io credo, cullato da sempre. E poi ecco un ricordo nostalgico e struggente per i bisnonni, da cui tutto ha avuto inizio.
«Negli Stati Uniti la vita dei miei bisnonni è stata forgiata dai valori italiani. Come molti della loro generazione, forti di questi valori e tuttavia alla ricerca di opportunità di vita migliore, i miei bisnonni decisero di lasciare la loro madre patria, in Italia, verso la promessa di un posto sconosciuto con l’idea che a prescindere da dovunque uno venga, si può sempre trovare una casa e un futuro in Usa. I bisnonni lasciando con coraggio il villaggio di Gesso hanno attraversato l’Atlantico e certamente con le preghiere hanno invocato la protezione di Sant’Antonio Abate (patrono di Gesso), che continua ancora oggi a proteggere gli abitanti di Gesso. In America hanno subito scoperto che ad Hammonton c’erano tanti migranti compaesani e tanti altri italiani, che hanno portato la luce delle loro patrie. Passo dopo passo, i miei bisnonni si sono costruiti una nuova vita. Il loro cognome italiano Giacoppo divenne Jacobs, e uno dei loro figli, Dominick, mio nonno (nato nel 1898) crebbe e trovò da giovane lavoro in una ditta di traslochi. Suo figlio Donald, mio padre entro nelle forze armate a 17 anni, e poi continuò gli studi per lavorare successivamente in banca».
E poi ecco altre parole che hanno emozionato e coinvolto, equando ha evidenziato che
«la memoria, il ricordo è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità. Non ci sarebbe Io se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosce come suoi azioni, vissuti, pensieri e sentimenti non ci sarebbe mondo. E quando il cuore oscilla tra il passato e il presente, tra il vicino e il lontano, a rapire l’anima per ristorarla, come credo abbia dimostrato delicatamente Jill Jacobs, è la fonte autoriale, ovvero il lontano che riaffiora nei suoi contorni di vita vissuta e di affetti familiari, come spazio e tempo della quiete. Ben oltre cento anni fa – ha proseguito la first lady – i miei nonni (Gaetano Giacoppo, nato nel 1855 e Concetta Scaltrito nata nel 1865), camminavano sulle stesse strade che oggi ho percorso io, e pregavano nella stessa chiesa, che ho visitato poco fa, parlavano con i loro vicini, guardavano questo stesso cielo, che io oggi posso ammirare. Poi, i miei bisnonni dissero addio per sempre a Gesso, e s’imbarcarono per gli Stati Uniti con la speranza di una nuova e migliore vita nei loro cuori».
Un esempio mirabile questo di riflessione sulle fitte e complesse relazioni fra radici, memoria, tradizione, contemporaneità, identità, che prende forma in una tensione tra la ricerca di un’origine certa, un punto zero della nostra cultura, quella in definitiva a cui attribuiamo la forse illusoria ma ineludibile identità, dando ordine e fronteggiando se possibile la convulsa ed estraniante contemporaneità. E su questo versante la first lady ha proseguito con accenti timidi di legittimo orgoglio, che emoziona:
«Certamente non potevano certo immaginare che nell’arco di tre generazioni la loro bisnipote sarebbe tornata a Gesso come prima first lady americana di origine italiana! Mia figlia Ashley e io siamo stati poco fa nella chiesa Madre, dove abbiamo visto l’atto di nascita e il registro parrocchiale su cui è stato trascritto il giorno del battesimo della mia bisnonna Concetta. Oggi sono qui perché le luci delle colline di Gesso possano continuare a risplendere in tutto il mondo, così come brillano ora dentro di me».
Un richiamo sfavillante di luci, dunque, che molto ci dice del bisogno di ogni uomo di ritrovare se stesso e le proprie origini, come condizione necessaria per dare senso e compiutezza alla nostra esistenza, che non può fare a meno di fare i conti sempre e comunque con la memoria e il passato individuale e collettivo. Distruggere la memoria, d’altra parte, equivale a distruggere le basi della propria identità e della propria continuità nel tempo. Il passato è sempre con noi, e dipende solo da noi accettarlo o rifiutarlo, accettando il rischio di una deriva incontrollabile. L’identità dunque si nutre di passato e presente, dell’io e degli altri, in perenne e mutevole divenire. E a legare per sempre le radici del passato al presente e al futuro della comunità peloritana di villaggio Gesso, ecco l’ultimo gesto simbolico della first lady, il dono di un alberello di agrifoglio (nella specie vegetale europea), simbolo nella varietà americana del Deleware, lo stato dove vive la famiglia Biden/Jacobs, che per il suo essere sempre verde con le bacche rosse, porta nelle sue radici storiche e culturali significati profondi di rinascita, richiamando la carica simbolica di albero rituale sempre verde, oggetto di culto, espressione di rinascita e luce, fin dall’epoche più remote, per fronteggiare e vincere le tenebre angosciose del solstizio d’inverno, prima dell’Avvento della Natività rivelatrice cristiana che cambia il destino e il corso della storia dell’umanità.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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