Stampa Articolo

Danilo Dolci e le formidabili reti di azione collettiva e cooperativa dal basso

Danilo Dolci

Danilo Dolci

di Salvatore Costantino 

In una delle belle definizioni di “classico”, che non mi stanco mai di citare, Italo Calvino afferma che «i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti» [1].  Rileggendo “davvero” – come dice Calvino – e criticamente l’opera di Danilo Dolci e riflettendo sulle sua azione, a me è capitato di riscoprirle, di trovarle “davvero” “nuove, e inaspettate. Ma un punto va chiarito: il pensiero e l’azione di Dolci vanno analizzati nel contesto complessivo dell’azione collettiva, per molti versi inedita, che nel tempo e tra difficoltà enormi, viene realizzata nella Sicilia Occidentale.

In primo piano balzano le grandi capacità organizzative di Dolci, di coinvolgimento e di attrazione: dall’umile contadino al pescatore, al maestro di scuola, fino a grandi scrittori, antropologi, scienziati, sociologi, urbanisti, economisti, politici. Norberto Bobbio nella Prefazione a Danilo Dolci, Banditi a Partitico [2], sottolinea come metodi e contenuti delle iniziative di Dolci suscitassero spirito di collaborazione, grande attenzione e rispetto: 

«Il modo dunque che Danilo ha scelto per intervenire è stato quello della partecipazione diretta, della presenza attiva, il modo meno libresco che si potesse immaginare; ed è stato appunto tra noi, che di queste cose discutevamo leggendo giornali, inchieste e interviste, un esempio singolarissimo, tale da meritare da parte di tutti – senza distinzione – di partiti o di ideologia – il più devoto rispetto» [3].  

Bobbio coglieva la specificità della sociologia dolciana quando osservava: 

«Per Danilo partecipare alla vita sociale di questi paesi, ignoti o conosciuti soltanto come luoghi di riprovazione o di dannazione, volle dire dividere dolori e speranze della gente più povera, dei disperati, dei messi al bando, e la loro invincibile miseria, e dividerla non per una voluttà di macerazione o di mortificazione, ma per giungere a comprenderla meglio, poterne parlare con quella serietà con cui si parla di cose non solo apprese ma sofferte e per avere la forza di eliminarla. Volle essere, nel senso più preciso della parola, un “vivere insieme”, un “mettersi a disposizione”, e “intervenire efficacemente” e “operare qui ed ora” e “essere fratello fra fratelli”. ΄Allura iddu voli fari chista comunità pi essiri fratellu cu tutti.  La gente non capìa tantu assai, ma a picca a picca iavanu sapennu΄» [4]. 

2570130110682_0_0_424_0_75Il pensiero e l’azione sociale pluri e inter interdisciplinare 

Bisogna evitare, dunque, l’attualizzazione di un Dolci ridotto in frammenti, di volta in volta sociologo, poeta. pedagogista, musicista, pacifista etc. È, invece, proprio nell’intervento pluri e interdisciplinare, fortemente legato all’azione sociale, alla costruzione del sociale e, quindi, della comunità, e della società civile che va individuata l’anima viva dell’esperienza di Dolci. Si sviluppa da qui la fitta rete di collaborazioni e di cooperazione locali, nazionali e internazionali.

Più in generale, si può dire che quello dell’interdisciplinarità del pensiero e dell’azione è un aspetto di grande importanza che riguarda, a tutt’oggi, il rapporto tra le scienze sociali, le scienze naturali e le tecnologie. La cooperazione tra le scienze è tanto più necessaria quanto più è in grado di agire non solo sulla qualità e sull’uso delle tecnologie ma anche sulla politica, sull’economia, sulla cultura, sui processi educativi e sulla ricerca, nonché sulla qualità della formazione delle classi dirigenti e delle politiche pubbliche. Questa cooperazione è ancora fondamentale per affrontare adeguatamente e tempestivamente i problemi e le contraddizioni della cosiddetta società digitale.

Già Edgar Morin, per contrastare l’inadeguatezza sempre più ampia e grave del rapporto tra i nostri saperi »disgiunti, frazionati, suddivisi» [5] e realtà  o problemi «sempre più polidisciplinari, trasversali, globali, planetari» [6], per ritrovare nuove possibilità comunicative e relazionali nella «Babele rumoreggiante dei linguaggi discordanti» [7] e una via praticabile nell’espansione incontrollata del sapere,  propone una concezione  della  cultura come “organizzazione”, come «messa in relazione e in contesto delle informazioni».

L’intreccio pluridisciplinare di aspetti sociologici, etici, conoscitivi, poetici, non costituisce – va precisato – un profilo identitario monolitico quanto la base di un’apertura costante ad un territorio da conoscere e analizzare con quanti ci vivono, al sociale, alla comprensione di mondi vitali. In questo processo, si verificavano anche trasformazioni personali nel Dolci (studente di architettura con l’esperienza della comunità di Nomadelfia per vivere nello spirito di quella fraternità) e che si trasferisce in Sicilia interrompendo un’esperienza che rischiava di diventare una sorta di «rifugio fin troppo rassicurante».

71gi0qrfvl-_ac_uf10001000_ql80_La creazione di reti era necessaria per contrastare soprattutto quel processo per il quale «il territorio locale rimane isolato, non è più conosciuto, interpretato, agito dagli abitanti come produttore degli elementi di riproduzione della vita biologica (acqua, sorgenti, fiumi, aria, terra, cibo, fuoco, energia) o sociale (relazioni di vicinato, conviviali, comunitarie, simboliche)» [8].  Quello dell’azione sociale per la formazione delle reti e per la costruzione della comunità, della società civile e della democrazia, è un tema centrale dell’esperienza di Dolci. «È appunto in questa dimensione di rete che l’esperienza di Dolci assume un nuovo senso, facendo emergere una trama i cui nodi (e snodi) sono ambienti culturali politici minoritari ma non certo irrilevanti»[9].  

Nelle conclusioni del suo documentatissimo libro, «Grifo sintetizza l’esperienza dolciana nella costruzione ventennale di “laboratori di partecipazione dal basso”, “caratterizzati da un’innovativa pratica d’inchiesta, dall’autoanalisi della popolazione attraverso la discussione maieutica e dall’attivazione di progetti partecipati di sviluppo umano e di comunità» [10]. In questo processo emergono le capacità di Dolci e di quanti collaboravano con lui, di organizzare reti di relazioni sul piano locale, nazionale e internazionale e di costruire società civile.

Che la costruzione della rete preceda – come afferma Johan Galtung, il grande sociologo e matematico norvegese, fondatore dei moderni studi sulla pace e sui conflitti, che collaborò attivamente con il Centro Studi fondato da Dolci – l’organizzazione non significa che venivano trascurati gli aspetti organizzativi che erano centrali, o che in ogni caso andavano di pari passo con costruzione di relazioni locali, nazionali e internazionali. Anzi, si può dire che Danilo era un maestro nel dare spessore imprenditoriale [11] all’organizzazione degli eventi e della visibilità.

Galtung

Johan Galtung

L’importanza della rete organizzativa è ben sottolineata da Galtung, scomparso nel febbraio del 2024, quando ha osservato: «Non vi sono molti nel mondo che combinano la conoscenza, la sapienza, la compassione, la visione, l’analisi, la poesia e l’energia delle 4 di mattina» [12]. Il pensiero e l’azione non violenta costituiscono momenti centrali nell’iniziativa di Dolci che fu, tuttavia, soprattutto un innovatore, un artefice della possibile modernizzazione della Sicilia. Modernizzare la Sicilia significava in primo luogo contrastare quei processi negativi evidenziati dallo storico Giuseppe Giarrizzo quando metteva in evidenza paradossi e contraddizioni di una storia siciliana «difficile, persino paradossale, tesa tra contraddizioni epocali, di somma civiltà e di crudeltà primitiva, di civile arretratezza e di raffinata cultura» [13]. Giarrizzo, di fronte ai mutamenti degli anni ’60 che lasciavano intravedere una possibile Sicilia “normale”, criticava la Sicilia dei miti e delle metafore. Anche da questo punto di vista la sociologia come azione sociale di Dolci è una sociologia “atipica”

Parlo di “atipicità” della sociologia dolciana nel senso del rigetto di metodologie astratte, libresche, avulse dalla pratica sociale e dalla verifica sul campo, fondate su un sapere parcellizzato. Era straordinario interrogarsi sui metodi delle scienze sociali e delle pratiche di intervento sociale nel crogiolo delle iniziative che tenevano ben lontani da ogni indulgenza – come diceva in The sociological Imagination, Charles Wright Mills – verso forme di “inibizione metodologica” e di “feticismo del metodo”. Dolci, non era un sociologo in senso stretto anche se conosceva il pragmatismo americano e in particolare l’opera di Wright Mills: 

«Il principale compito politico e intellettuale del sociologo – (in questo caso i due aspetti coincidono) – scriveva Wright Mills nella premessa all’edizione italiana di The sociological Imagination – è oggi individuare e definire gli elementi del disagio e dell’indifferenza dell’uomo contemporaneo. È l’impegno principale che gli impongono altri lavoratori della mente, dai fisici agli artisti, la comunità intellettuale in genere. Appunto questo compito e questo impegno stanno facendo, io credo, delle scienze sociologiche la più necessaria delle nostre facoltà mentali» [14].

Immaginazione e sogno ricorreranno spesso nelle opere e nelle iniziative di Dolci intrecciandosi con una straordinaria capacità di azione sociale. Per questo preferisco parlare della “atipicità” della sociologia di Dolci. La categoria dell’ “atipicità” mi pare sfugga a improbabili scorciatoie definitorie.

 La sottovalutazione dell’esperienza di Dolci e dei Centri che hanno operato nella Sicilia occidentale, come preciserò più avanti, da parte di classi dirigenti locali e nazionali miopi ha influito non poco, sulle concezioni dello sviluppo, della partecipazione, della qualità della democrazia. Si è andata sviluppando così una sempre più accentuata opacità nell’analisi dei processi sociali, nell’economia, nella politica, nella cultura, nelle stesse scienze. Questa opacità ha reso via via più fragile la democrazia, accentuato la crisi della politica e la sfiducia nelle istituzioni. 

eef98d5cover29588Il dialogo con Jürgen Habermas. Il tema della democrazia deliberativa, partecipativa e associativa 

Il rapporto tra costruzione delle reti e processi comunicativi avvicina l’esperienza di Dolci alla Teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas [15]. Nella teoria e nella pratica dolciana era presente un rapporto diverso, inedito, col nostro territorio, con l’esigenza di pensarlo ed esprimerlo con occhi nuovi, di scoprirlo, di valorizzarlo anche attraverso una nuova capacità di sapere collegare l’ambito locale a quello globale. Ciò contribuiva ad arricchire i “mondi vitali” di cui parla Jürgen Habermas riferendosi a «mondi della vita permeabili l’uno nei confronti dell’altro che si compenetrano e si collegano come in una rete»[16].

Frutto dell’iniziativa e della cooperazione internazionale di Dolci è, fra l’altro, il volume curato da Danilo Dolci, Comunicare, legge della vita. Bozza di manifesto e contributi. Dolci intrattiene col filosofo e sociologo tedesco un dialogo intenso e dimostra grande attenzione ai temi habermasiani riguardanti in particolare il rapporto tra comunicazione e democrazia, i problemi del linguaggio, della narrazione [17] e di quanto Habermas comprende con l’espressione “mondi vitali”. In primo piano sono le esperienze reali delle persone con la loro sofferenza e il loro desiderio, con le loro paure e le loro passioni nelle situazioni quotidiane, anche attraverso l’ascolto delle “storie di vita” divenuto, in anni successivi, un metodo di ricerca sociale incentrato sulla comprensione del cambiamento e, soprattutto, della rappresentazione fenomenologica del cambiamento. Quello di agire comunicativamente non è un mero desiderio ma un obbligo che si esplica in tanti momenti della vita: dalla famiglia al rapporto col sapere, dalle funzioni elementari della società alla ricerca della cooperazione per evitare l’uso della forza, della violenza. Nei “mondi vitali” condivisi intersoggettivamente e comunicanti tra di loro si può fare, dunque, riferimento ad uno sfondo comune di consenso, che richiede una prassi basata sull’agire comunicativo.

s-l400Più concretamente Habermas introduce il concetto di quotidianità del mondo vitale come quella sfera in cui «gli agenti comunicativi localizzano e datano se stessi e le proprie espressioni in spazi sociali e in tempi storici»[18]. Nello spazio della prassi comunicativa quotidiana le persone non si incontrano reciprocamente solo come partecipanti, «esse offrono altresì esposizioni narrative di avvenimenti che succedono nel contesto del loro mondo vitale» [19]. Queste esposizioni si intrecciano nel racconto che è «una forma specializzata del parlare constatativo che serve a descrivere eventi ed oggetti socioculturali. Alla base delle proprie esposizioni narrative gli attori pongono un concetto profano di “mondo”, nel senso del mondo quotidiano o del mondo vitale, che definisce la totalità degli stati di fatto che possono essere riprodotte nelle storie vere» [20]. 

Conversando con Danilo Dolci, a proposito di una Bozza per un manifesto internazionale sulla comunicazione  proposta dal sociologo triestino, osserva Habermas: 

«La struttura della nostra personalità, del nostro io, si può evolvere solo nell’insieme dell’agire comunicativo. Il nostro io interiore più profondo è il prodotto di strutture comunicative. Il nostro io si mantiene e sviluppa attraverso il riconoscimento: si mantiene e sviluppa se la rete del riconoscimento è sana. L’io, se tentiamo un’immagine, è come un nodo in una rete di comunicazioni interpersonali: il nodo può esistere solo se esiste la rete. Anch’io penso che la persona si può mantenere e sviluppare solo se ci sono le condizioni del comunicare, solo se queste condizioni non degenerano. Siamo noi stessi nella misura in cui siamo gli altri» [21]. 

Riferendosi al libro di Dolci, Dal trasmettere al comunicare [22]. Jürgen Habermas sostiene che nel trasmettere si può individuare un’azione strategica tesa ad influenzare l’altro anche con il linguaggio. Nel convincere e nel persuadere, per Habermas con riferimento all’analisi benjiaminiana, ci sono elementi – anche minimi – di violenza.  Nel comunicare Habermas individua un’azione comunicante (si agisce anche parlando) nella quale è possibile che ognuno dica no, non sia costretto ad assentire. 

Ma è possibile in generale il regolamento non violento dei conflitti? La risposta di Walter Benjamin è senz’altro positiva e individua nell’“intesa umana”, nella lingua, la sfera per eccellenza “inaccessibile alla violenza”: 

«L’accordo non violento ha luogo ovunque la cultura dei sentimenti ha messo a disposizione degli uomini mezzi puri d’intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i mezzi non violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora, sono la loro premessa soggettiva. Ma la loro manifestazione oggettiva è determinata dalla legge [...] che mezzi puri non sono mai mezzi di soluzioni immediate, ma sempre di soluzioni mediate. Essi non si riferiscono quindi mai direttamente alla risoluzione di conflitti fra uomo e uomo ma solo attraverso l’intermediario delle cose. Nel riferimento più concreto dei conflitti umani a beni oggettivi si dischiude la sfera dei mezzi puri. Perciò la tecnica, nel senso più ampio della parola, è il loro campo proprio e adeguato. Il loro esempio più calzante è forse la conversazione, considerata come una tecnica di civile intesa»[23]. 

Il tema  della costruzione delle reti per la formazione  credibile della società civile e della democrazia che è stato al centro del seminario internazionale su “L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile”, da me organizzato nel 2001 con Joan Galtung e l’Istituto Gramsci. Questo tema centrale dell’esperienza di Dolci, è stato più recentemente sviluppato in alcune analisi come quella di Marica Tolomelli, per la quale «Dolci fu … uno snodo cruciale per la circolazione di idee e pratiche di ‘vita associata democratica’, che per vie e reti relazionali multidirezionali attraversarono l’intero Paese» [24] e, più recentemente, da Marco Grifo per il quale: «È appunto in questa dimensione di rete che l’esperienza di Dolci assume un nuovo senso, facendo emergere una trama i cui nodi (e snodi) sono ambienti culturali politici minoritari ma non certo irrilevanti» [25].   

Danilo era un maestro nel dare spessore imprenditoriale all’organizzazione degli eventi e della visibilità. A tal proposito opportunamente si è parlato di Dolci come “imprenditore civile” (La Spina). L’importanza della rete organizzativa è ben sottolineata da Galtung quando osserva: «Non vi sono molti nel mondo che combinano la conoscenza, la sapienza, la compassione, la visione, l’analisi, la poesia e l’energia delle 4 di mattina» .

81rpn7hvyzl-_ac_uf10001000_ql80_Il pensiero e l’azione non violenta costituiscono momenti centrali nell’iniziativa di Dolci che fu, tuttavia, soprattutto un innovatore, un artefice della possibile modernizzazione della Sicilia.  Anche da questo punto di vista la sociologia come azione sociale di Dolci è una sociologia “atipica”. Parlo di “atipicità” della sociologia dolciana nel senso del rigetto di metodologie astratte, libresche, avulse dalla pratica sociale e dalla verifica sul campo, fondate su un sapere parcellizzato. Era straordinario interrogarsi sui metodi delle scienze sociali e delle pratiche di intervento sociale nel crogiolo delle iniziative che tenevano ben lontani da ogni indulgenza – come diceva in The sociological Imagination, Charles Wright Mills – verso forme di “inibizione metodologica” e di “feticismo del metodo”. 

Ma c’è un altro importante elemento di grande attualità nelle pratiche dei Centri creati da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera che richiama, per molti versi, ancora Habermas. È il tema della democrazia deliberativa, partecipativa e associativa molto bene evidenziato da Marco Grifo quando osserva: 

«Danilo Dolci promosse di fatto pratiche di democrazia deliberativa, partecipativa e associativa offrendo alla popolazione locale la possibilità di prendere parte attiva non soltanto in consultazioni pubbliche, incontri e laboratori in cui esercitare l’interazione paritaria tra individui, associazioni e poteri pubblici, ma anche in progetti che avevano come obiettivo la crescita del territorio e delle opportunità per i soggetti svantaggiati. La ricostruzione della rete… offre così una mappa che servirà a comprendere meglio il tessuto di iniziative educative, sociali e associative per una storia della società civile organizzata nel secondo Novecento, seguendo tracce alternative alla narrazione consolidata sugli anni Cinquanta e Sessanta come fase del “collateralismo”. Osservati da un angolo “periferico”, come i luoghi della Sicilia Occidentale in cui operava Dolci, quegli anni appaiono caratterizzati da una vivacità civile inedita fatta di associazioni, comunità e progetti di sviluppo democratico, che andrebbero affiancati e intrecciati alle più consolidate ricerche sulla storia politica dell’Italia repubblicana» [26] . 

Vengono qui evidenziate pratiche di azione sociale che continuano ad avere grandissima attualità. Il riferimento,  dell’ esperienza dolciana, alla democrazia deliberativa è di grande importanza in quanto richiede lo sviluppo della sperimentazione e delle pratiche che ad essa si richiamano nelle istituzioni, nelle politiche pubbliche, nei processi che riguardano la partecipazione, i processi decisionali, la solidarietà e il mutamento sociale, la mediazione e il terzo settore, l’associazionismo e la cooperazione, l’ambiente, la bioetica. 

Danilo Dolci

Danilo Dolci

Danilo Dolci visto da Johan Galtung, fondatore dei moderni studi sulla pace e sui conflitti 

Recentemente, ricordando la figura di Johan Galtung, ricordavo come egli sia stato uno degli artefici fondamentali dell’azione di Danilo Dolci e del Centro Studi e iniziative per la piena occupazione. Lo invitai nel febbraio del 2001 a tenere una relazione al seminario internazionale su “L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile. Ricordando Danilo Dolci, ripensando la Sicilia” organizzato dall’Università di Palermo e dall’Istituto Gramsci Siciliano. Galtung in quell’intervento individua dieci elementi importanti nella “atipica” sociologia e nella poliedrica personalità di Danilo.

Centrale è per Galtug la costruzione di reti di relazioni sul piano locale, nazionale e internazionale, la costruzione della società civile e della democrazia. Si può dire che i punti indicati da Galtung ruotino tutti attorno alla costruzione delle reti: 

«1.“Conoscere bene i fatti”, 2.“Il dialogo come metodo”, 3.“Il processo maieutico”, 4. “La parola come co-costruzione”, 5. “Partire dai bisogni essenziali: soddisfarli non avviene automaticamente, senza forze nuove”, 6. “Riferimento ad una sociologia umanista, olistica come bisogno di stare insieme e costruire una società civile che nasca dal basso attraverso una pedagogia non violenta, partecipante, 7. “La rete sociale è più importante dell’organizzazione”, 8. “La lingua non violenta”, 9. “L’azione non violenta”, 10. “Una sociologia dell’azione”» .

Galtung conosceva bene Danilo, le sue qualità e, al tempo stesso, i suoi limiti ma ne parla come di un “inventore sociale” [27] e insiste su alcuni aspetti della sua azione che possono essere assunti come punti di riferimento dell’intera azione del Centro: Il primo è “la formazione della coscienza»: e qui vi è Danilo maestro maieutico. Colui che lancia il dialogo, un dialogo intorno al quale egli ha naturalmente delle idee, un po’ di conclusione personale, ma nel quale egli è pure molto preparato a lasciare che essa non condizioni ed entri invece con naturalezza nelle conclusioni degli altri, nel metodo-dialogo che impone di non predicare ma piuttosto di ascoltare. 

Il secondo è “l’organizzazione”: Danilo era maestro d’organizzazione e di strategie operative. Straordinaria era la già ricordata capacità di suscitare i conflitti, di risolvere i problemi e di tessere dal punto di vista organizzativo una rete internazionale. Il terzo aspetto sottolineato da Galtung è quello del “confronto”.  Analizzare, selezionare i conflitti e scegliere le strategie d’azione. La ricerca di forme efficaci di organizzazione attraverso processi orizzontali di influenza, mediante la valorizzazione di voci di dissenso creativo, hanno permesso all’esperienza di Dolci di coniugare in modo originale il problema ecologico come costruzione conflittuale di spazi per vivere. Da qui nasce lo “sciopero alla rovescia” con il quale Dolci conquista un ruolo importante nella storia della non-violenza. Per questo non si trattava solo di marciare in duemila persone, bandiere al vento – dice Galtung –: questo è forse bello, ma non porta a cambiamenti reali. Si tratta invece di costruire, utilizzando lotte che costruiscono, come protesta.

9788835119647_0_536_0_75Il quarto aspetto è quello che valorizza «la lotta non violenta per la costruzione della società civile». L’azione non violenta, anche come scandalo, è stata da Dolci concepita come ricerca-azione mirata a cogliere gli spazi di possibilità all’interno di situazioni anche anguste ed estreme. Ricerca e azione sono state però, per Dolci, non soltanto un espediente strumentale e metodologico, ma un modo per praticare esperienze di vita ricche e improntate al dialogo, all’agire comunicativo. La costruzione della società civile e della democrazia, l’arricchimento dei mondi vitali e l’organizzazione di reali circuiti e relazioni comunicative si lega in questo modo a quella che Charles Taylor aveva definito come «promozione di una politica del potenziamento della democrazia».

Negli altri punti evidenziati Galtung chiarisce l’impianto pluridisciplinare della “sociologia dell’azione di Dolci per la quale per partire dai bisogni essenziali, per soddisfarli occorrevano forze nuove e processi realmente innovativi, e parla di «una sociologia umanista, olistica come bisogno di stare insieme e costruire una società civile che nasca dal basso. In ciò fondamentale diventava una pedagogianonviolenta, partecipante che fa diventare la costruzione della “rete sociale” come il prius rispetto all’organizzazione. La “sociologia dell’azione” si sviluppa così attraverso l’uso della “lingua non violenta”. Ciò soprattutto alla svolta degli anni Sessanta, poneva agli scienziati sociali e ai politici la necessità di una rifondazione delle categorie tradizionali con le quali si interpretavano lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della democrazia.

Galtung non imbalsama Dolci in un cliché incapace di cogliere anche i limiti, gli errori e anche, a volte, le contraddizioni. Per Galtung era difficile “amare” Danilo per la sua forte personalità e il suo carisma tracimante. 

Danilo Dolci

Danilo Dolci

Rotture e Dissensi 

L’esperienza dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, non essendo priva infatti di difficoltà e, a volte, persino di rotture traumatiche o di frizioni relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli anni Sessanta, poneva agli scienziati sociali e ai politici la necessità di una rifondazione delle categorie tradizionali con le quali si interpretavano lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della democrazia

Intervenendo nel merito dei dissensi che si verificarono con Dolci, Goffredo Fofi ha sostenuto che   alla fine degli anni ’60 ci fu un contrasto, «una rottura che durò fino a un mese e mezzo fa, quando lo incontrai di nuovo. E parlammo, tanto». Sulle ragioni del contrasto afferma che riguardavano «su come affrontare le grandi trasformazioni dell’Italia di allora, lo sviluppo repentino, l’emigrazione. Io andai a Torino, a lavorare con gli operai del Sud, lui restò in Sicilia, come prima». Quanto a chi avesse ragione: «Non si può dire: i cambiamenti furono un turbine che ci travolse tutti. E la società mutò così rapidamente che adesso è impossibile dire di chi fu il merito, o la colpa». 

Le scelte di Dolci si ponevano, sottolinea Galtung, come atto di rottura sia sul piano etico- culturale, sia sul piano stesso del metodo sociologico. Ad una società che si oppone alle identità individuali, che sovrastano l’individuo, tipiche delle ideologie degli anni Cinquanta (il mondo diviso in blocchi), Dolci contrapponeva una società di individui, di soggettività che producono eventi, ed interpretazioni di eventi, di storie ed interpretazioni di storie, di “mondi” e di interpretazioni del mondo, produzioni di senso “uniche” e irripetibili, ma anche di grande intensità emotiva. Così Dolci riprende e sviluppa la migliore tradizione del movimento contadino siciliano per cui la mafia cessa di essere entità metafisica e astratta e viene riscoperta, studiata e resa visibile come fatta da mafiosi in carne ed ossa, come oggetto di studio e di analisi scientifica; la guerra è fatta da generali sulla base di determinati interessi; lo spreco è imputabile ad alcune classi sociali e a determinati gruppi politici etc. 

Così era inevitabile che Dolci insieme a Leonardo Sciascia e ad altri studiosi fosse attivo collaboratore del giornale “L’ORA” che, con la direzione di Vittorio Nisticò, era diventato «l’avanguardia del contrasto alla mafia e il punto di aggregazione politica e culturale dell’opposizione di sinistra in Sicilia» [28]. 

81lxv0ilael-_ac_uf10001000_ql80_Spreco 

Così tornano a prendere corpo le lotte del movimento contadino con gli scioperi alla rovescia, contro mafiosi in carne ed ossa, la promozione di movimenti internazionali per la pace. etc. Così la lotta contro lo spreco si traduce anche in iniziative modernizzanti fondati sulla partecipazione e una pratica della non violenza e della disobbedienza civile che diventano “scioperi alla rovescia”, momenti importanti di elaborazione politico-culturale, cioè momenti di elaborazione e di indicazione politica, esempi concreti di come si possono fare le cose.

La categoria dolciana di spreco a me pare, per diversi aspetti, intrecciarsi con la categoria hirschmaniana di risorse latenti”. Su questa base, in pratica, la Sicilia andava considerata non tanto come un’area caratterizzata da risorse carenti, quanto piuttosto da risorse latenti, quindi non utilizzate e, dunque, sprecate. Ciò soprattutto alla svolta degli anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle categorie tradizionali di intendere lo sviluppo, la partecipazione e la costruzione della democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà collettive significava costruire processi innovativi fondati su relazioni comunicative, e sulla reciprocità, sull’organizzazione e auto-organizzazione delle comunità. Ciò implicava la necessità, anche per la Sicilia, del superamento dei «blocchi concettuali, tra loro fortemente interdipendenti», di cui parla Albert Hirschman per spiegarsi la “combinazione” di fattori di sviluppo di un sistema economico, e gli eventuali “blocchi” che ritardano, occultano o impediscono il raggiungimento di determinati obiettivi [29].

Nel Convegno di Palma Montechiaro (27-29 aprile 1960) Dolci indica i contenuti fondamentali della sua iniziativa in Sicilia che saranno definiti nel volume Spreco  (1960) consistenti, in sintesi: 1) nella critica della politica «paternalistica» dello Stato italiano verso il Meridione, mai indirizzata ad aiutare effettivamente la crescita economica, sociale e culturale puntando sullo sviluppo delle «risorse potenziali»; 2) nella possibilità di iniziare uno sviluppo “dal basso” fondato sulla piena utilizzazione delle risorse locali, mal utilizzate per ignoranza e per disorganizzazione; 3) nell’attuare questo progetto attraverso l’unione degli interessati nell’ambito locale (comuni), i quali prendano collettivamente coscienza dei problemi e assieme elaborino soluzioni utilizzando anche le competenze degli esperti e dei tecnici; 4) nell’attuare forme di pressione e di azione non violenta che potessero stimolare la partecipazione, la formazione dell’opinione pubblica, la mobilitazione collettiva per condizionare «dal basso» le politiche e l’attività legislativa dello Stato. Nella sua relazione al convegno Dolci metteva l’accento sullo “spreco”, sull’immane spreco di risorse umane innanzitutto, e quindi sulla mafia e sulla violenza. 

619jn1rd3wlTra locale e globale e la costruzione della comunità 

Nel vocabolario dolciano entrano così espressioni come “umanità mondiale”, “Sud del mondo”, “le povertà” “l’ambiente” ecc… Per questo l’organizzazione di una partecipazione capace di guardare insieme al territorio e al mondo si collegava alle iniziative dirette a delineare una “visibilità” nazionale e internazionale. Locale e globale diventano aspetti fondamentali di inediti processi conoscitivi legati al territorio mettendo assieme un sapere territorializzato e un sapere globale aperto ai mercati più vasti e alle culture diverse.

Anche su questo aspetto era inevitabile che l’“atipica sociologia” di Danilo Dolci si incontrasse con il grande giornalismo d’inchiesta e con l’azione modernizzatrice portata avanti dal giornale L’Ora che lanciava quotidianamente la sua sfida al sistema di potere siciliano. L’esperienza dolciana va pure inserita nel quadro dell’evoluzione economico-sociale sul piano nazionale e internazionale, e nel rapporto di collaborazione con figure importanti che furono punti di riferimento dell’esperienza di Danilo Dolci e contribuirono alla costruzione delle reti: Sibilla Aleramo, Aldo Capitini, Adriano Olivetti, Don Zeno Saltini, Umberto Zanotti Bianco, Margherita Zoebeli. Oltre ai tanti i collaboratori locali  vanno ancora ricordanti: Lorenzo Barbera, Goffredo Fofi, Ernesto Treccani, Cesare Zavattini, Norberto Bobbio, Bruno Zevi, Lamberto Borghi, Ernst Bloch, Piero Calamandrei, Aldo Capitini, Luigi Ciotti, Erich Fromm, Johan Galtung, Paolo Sylos Labini, Eyvind Hytten, Marco Marchioni, Carlo Levi, Mario Luzi, Rita Levi Montalcini, Alberto Moravia, Jean Piaget, Bertrand Russell, Ignazio Silone, Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia, Enzo Sellerio, Luigi M. Lombardi Satriani, Lucio Lombardo Radice, Carlo Rubbia, Elio Vittorini, René Dumont, René Rochefort .

A queste relazioni vanno aggiunti anche i contatti con il movimento italiano di “Comunità” di Adriano Olivetti, la collaborazione con Carlo Doglio e Giancarlo De Carlo per ricercare ed esperire quella prassi del territorio come proposta di intervento “ecologico” riproponendolo come casa dell’uomo che avrebbe caratterizzato la straordinaria vicenda de “La fionda sicula”. Per questo l’esperienza dolciana va inserita nel quadro dell’evoluzione del sociale, aspetto questo spesso ignorato sul piano nazionale.

Importante, da questo punto di vista è il recente volume di Goffredo Fofi, Quante storie. Il sociale dall’unità a oggi, ritratti e ricordi [30],  dove si parla approfonditamente di figure importanti che furono punti di riferimento di Danilo Dolci e in particolare: Sibilla Aleramo, Aldo Capitini, Adriano Olivetti, e l’esperienza di Comunità, Don Zeno Saltini, Umberto Zanotti Bianco, Margherita Zoebeli.

Le pratiche dolciane e di collaboratori autorevolissimi come Johan Galtung travalicano presto i confini nazionali proponendo, già allora la dimensione internazionale come quella più idonea ad affrontare i problemi del sottosviluppo e della pace. Si può dire, da questo punto di vista, che i metodi e le tecniche di Dolci hanno avuto un respiro internazionale. Nei metodi e nelle tecniche vanno lette pure le trame dell’innovazione politica che si esprimono non solo con una tensione ideale verso la realizzazione degli obiettivi, ma anche con una grande capacità pratica e con efficacia politica di organizzare la visibilità, la società civile. Per questo le esperienze di partecipazione capaci di guardare insieme al territorio e al mondo si collegavano alle iniziative dirette a delineare una “visibilità” internazionale. Nella teoria e nella pratica dolciana era presente un rapporto diverso, inedito, col nostro territorio, con l’esigenza di pensarlo ed esprimerlo con occhi nuovi, di scoprirlo, di valorizzarlo anche attraverso una nuova capacità di sapere collegare l’ambito locale a quello globale. Ciò contribuiva ad arricchire i “mondi vitali” di cui parla Jürgen Habermas riferendosi a «mondi della vita permeabili l’uno nei confronti dell’altro che si compenetrano e si collegano come in una rete». 

industrializzazioneIl caso di Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale 

In apertura dicevo di non guardare all’esperienza di un Dolci ridotto in frammenti. Qui voglio sottolineare soprattutto quanto di quell’esperienza è stato non valorizzato, ignorato e sottovalutato dalle classi dirigenti miopi come purtroppo è avvenuto e continua ad avvenire. Di quanto sia stato grave l’aver ignorato e sottovalutato l’esperienza dolciana con gravi conseguenze c’è un caso emblematico che riguarda la Sicilia degli anni Settanta. 

 Proprio nel 1970 appare una importante ricerca commissionata dall’Eni in un volume dal titolo significativo: Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale. Il volume pubblicato da Franco Angeli, nel bel mezzo dello svolgimento della gravissima vicenda del petrolchimico gelese, sviluppa un’analisi critica, rigorosamente scientifica, ricca di indicazioni per il futuro e di spessore progettuale. Il titolo inaugura la lunga serie delle “incompletezze”, delle “mancanze”, dei fallimenti, dei “senza”, appunto, attribuiti ora all’intero Paese, ora al Mezzogiorno, ora alla Sicilia. (Del 1980 è il noto libro di Alberto Arbasino Un paese senza).

Nel 1987 Augusto Graziani userà l’espressione “benessere senza sviluppo”. Del 1992 è Sviluppo senza autonomia di Carlo Trigilia; e dello stesso anno Mezzogiorno senza meridionalismo di Giuseppe Giarrizzo. La preposizione privativa “senza” ritorna in Classi sociali, economia e politica in Sicilia del 1989 degli antropologi Jane e Peter Schneider, questa volta si parlerà di «processo di modernizzazione in assenza di un reale sviluppo».

Lo scopo dichiarato e perseguito sistematicamente di Industrializzazione senza sviluppo è quello di «misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di trasformazione che investe tanto le aree sottosviluppate quanto quelle opulente, la società italiana nel suo complesso». Un obiettivo squisitamente scientifico, dunque. Non si parla soltanto di Gela, ma la storia del paese mediterraneo è inserita nel quadro, molto più ampio, che riguarda il processo di sviluppo (e della sua qualità) dell’intera società.

Autori del volume sono Eyvind Hytten, docente all’Università di Stoccolma, che fino al 1964 aveva  diretto il Centro Studi e iniziative per la piena occupazione presieduto da Danilo Dolci, e Marco Marchioni, studioso dei problemi dello sviluppo e collaboratore del Centro Studi. Gli autori hanno il merito di esibire concretamente i dati di un processo di sviluppo distorto, per diversi aspetti violento, nei confronti della natura e della società. L’analisi critica dei due studiosi non si ferma solo al livello dell’individuazione degli effetti perversi, nella misura in cui sa individuare i punti che avrebbero potuto trasformare l’industrializzazione senza, in industrializzazione con, cioè non scorporata dal sociale e integrata nel territorio. 

Hytten e Marchioni sostengono che non si è verificato alcuno sviluppo economico-sociale di rilievo nel “polo” di Gela nonostante il massiccio intervento dello Stato. Il libro mostra, con dovizia di approfondimenti e ricchezza di indicazioni positive di grandissima attualità, le ragioni del fallimento dell’industrializzazione e del mancato sviluppo integrato nel territorio. Ma di quale sviluppo parlano i due autori all’inizio degli anni ’70? 

«Lo sviluppo basato sull’accumulazione – scrivono Hytten e Marchioni – anziché sulla distribuzione dei beni, sul concentramento del potere e delle opportunità, sull’ulteriore emarginazione della collettività anziché sulla maggiore partecipazione di questa alla vita pubblica, è un pericolo che investe tanto la società opulenta quanto le comunità in via di trasformazione. A Gela abbiamo potuto vedere una delle manifestazioni più crude di questo pericolo e allo steso tempo l’unica soluzione possibile che quella di saper coinvolgere tutti nei processi che determinano il loro futuro» [31]. 

Dal libro di Hytten e Marchioni venivano importanti indicazioni che avrebbero potuto determinare una inversione di tendenza nelle politiche per l’industrializzazione e lo sviluppo, mettere in moto una progettualità programmata valorizzando le esperienze di comunità, coinvolgendo rappresentanti del capitalismo italiano, dei grandi complessi pubblici e privati, le forze politiche, sindacali, sociali, le classi dirigenti. È una storia che ormai si trascina tragicamente riducendo il nostro Paese alla sferzante espressione di Arbasino: una Sicilia e un Mezzogiorno “senza”. 

La sottovalutazione dell’analisi e dello spessore rigorosamente e concretamente progettuale saranno devastanti [32] anche perché, come è stato fatto osservare, la cittadina affacciata sul Mediterraneo è diventata simbolo di una vicenda storica molto più ampia: Il libro di Hytten e Marchioni sparì subito dalle librerie come ha spiegato Sergio Nigrelli su la Repubblica in un articolo significativamente intitolato [33]. L’Eni lo tolse dagli scaffali. Il Comune lo ristampa:  

«Il tempo è galantuomo. Ne sa qualcosa Marco Marchioni, un sociologo romano che alla fine degli anni Sessanta venne a Gela assieme ad un collega svedese, Evydin Hytten, per approntare uno studio per conto dell’Eni che affrontasse le problematiche legate allo sviluppo industriale ed al territorio. Doveva essere, in buona sostanza, uno studio per fare sapere ovunque che l’azienda di Stato lavorava in perfetta sintonia con la gente e con l’ambiente. A certificare tutto dovevano essere proprio i due sociologi. Ma le cose non andarono così. I due professionisti lavorarono a Gela per due anni. Considerata la lunghezza dell’incarico portarono con loro le famiglie. Fu un lavoro paziente e difficile alla fine del quale i professionisti si trovarono dinanzi ad un bivio: le loro conclusioni erano del tutto opposte rispetto al lavoro che gli era stato commissionato. Il quadro che si erano trovati di fronte era quello di una industrializzazione senza sviluppo. Da qui il titolo di un libro pubblicato da Angeli in aperta polemica con l’Eni e con la sua collegata Anic. Lo studio fu pubblicato in 2000 copie ma nessuna di queste raggiunse i lettori, perché l’Eni le acquistò tutte in blocco. Lo ha raccontato uno degli autori in questi giorni a Gela per ritirare un premio. 
“A Gela il libro non si trovava – racconta Marco Marchioni – e andai a Palermo alla libreria Flaccovio per ritirare qualche copia per gli amici. Lì mi dissero che erano finite tutte. Un signore era passato a ritirarle in blocco”. Marchioni e la vedova di Hytten sono tornati nei giorni scorsi a Gela non solo per ritirare un premio patrocinato dall’amministrazione comunale ma anche perché la giunta presieduta dal sindaco Franco Gallo ha deciso di ristampare a proprie spese quello studio che allora venne censurato silenziosamente. Una sorta di risarcimento tardivo che fa il paio con il fatto che l’amministrazione comunale proprio l’altro ieri si è costituita parte civile in un processo contro l’Eni per inquinamento ambientale». 
Danilo Dolci e Carlo Levi

Danilo Dolci e Carlo Levi

Vorrei concludere queste note, sottolineando la forza che viene dal pensare ancora testardamente, oggi più che mai, una Sicilia svincolata dallo stereotipo dell’arretratezza, del sottosviluppo, della miseria, una Sicilia liberata da immagini sclerotizzanti di terra rassegnata alla paralisi, immune alla modernità e al cambiamento.

Sull’importanza della costruzione di reti relazionali e della democrazia dal basso vorrei citare ancora le parole semplici, ma efficaci, di Goffredo Fofi che, riferendosi in particolare all’esperienza del Belice e al bel libro di Lorenzo Barbera I ministri dal cielo, ci parla in realtà dell’intera esperienza di Dolci, di un passato che sorprendentemente continua a parlare del nostro presente: 

«Nel Belice grazie alla presenza di pochi ma determinati “operatori sociali” o “volontari” o, come forse sarebbe più giusto definirli, sollecitatori dal basso di forme di democrazia diretta e di responsabilizzazione di tutti nei confronti della “cosa pubblica”, di educatori nel senso di saper contribuire a far esprimere dai singoli e da una comunità le loro migliori energie, si è assistito a suo tempo a uno straordinario esperimento di democrazia dal basso, di lotte di popolo che, per la persuasione e la determinazione di tanti, portarono a notevoli vittorie» [34]. 
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991: 15
[2] Norberto Bobbio, Prefazione” a Danilo Dolci, Banditi a Partitico, Laterza, Bari,1955.
[3] Ivi: 5-6.
[4] ibidem.
[5] Edgar Morin, (1999), trad .it. La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano,.2000: 5.
[6] Ibid.
[7] Ivi: 9.
[8] Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri Torino: 208.
[9] Marco Grifo, Le reti di Danilo Dolci. Sviluppo di comunità e non violenza in Sicilia occidentale”, Franco Angeli, Milano:13.
[10] Ibidem. Sul libro di Grifo ha scritto Goffredo Fofi: «Di quel periodo di grandi speranze e di grandi cambiamenti economici, sociali e culturali, un periodo di riforme le ultime delle quali sollecitate proprio dal 1968, ha parlato in questi mesi un importante saggio di Marco Grifo, Le reti di Danilo Dolci (Franco Angeli, 2021). Ma se il perno di questo studio sta negli incontri che Dolci ebbe, tra il 1952 della sua discesa a Trappeto e la fine degli anni Settanta (Danilo morì nel 1997), con i migliori, i più attivi, i più conseguenti e socialmente e democraticamente determinati degli intellettuali, dei politici e sindacalisti, dei poeti e letterati italiani di anni in cui tutto rapidamente cambiava, in Italia e nel mondo, dalla Guerra fredda alla “coesistenza pacifica” e alle nuove contraddizioni portate dai “miracoli” economici e dalla fine – a Est e a Sud del mondo – delle forme tradizionali del colonialismo ma con la nascita di sue nuove forme, “aggiornate”» ( Goffredo Fofi, Le reti di Danilo Dolci, in “Confronti. Religioni-Politica-Società”, 2/marzo/2022). 
[11] Sul punto si vedano i saggi apparsi in, Salvatore Costantino (a cura di) Raccontare Danilo Dolci e in particolare il saggio di Antonio La Spina, Danilo Dolci “imprenditore civile”.
[12] Johan Galtung  in Salvatore Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma 2003:49. 
[13]  Giuseppe Giarrizzo (1987), “Sicilia oggi 1950-86”, in G. Giarrizzo, M. Aymard (a cura di), Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità ad oggi, La Sicilia, Torino, Einaudi 1997:  669.
[14] Charles Wright Mills (1959), trad. it. L’immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano 1962: 23. 
[15]Jürgen Habermas (1981) trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., il Mulino, Bologna, 1986. I vol.: 727-728.
[16] Jürgen Habermas  in Danilo Dolci (a cura di), Comunicare, legge della vita. Bozza di manifesto e contributi, Lacaita, Roma, 1993:22.
[17]  Da questo punto di vista la buona narrazione può essere compagna affidabile della buona ricerca scientifica e delle buone pratiche di intervento sociale. La narrazione, così come si sviluppa nelle opere di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori, non solo aiuta a pensare e ripensare il territorio, ad utilizzare al meglio le risorse, ad evitare lo “spreco” ma anche per cercare di spiegare, per meglio spiegarsi, il vero motivo per il quale esse restano, per dirla con Hirschman, «nascoste, disperse o malamente impiegate». La narrazione possiede il potere straordinario di allontanarci o di avvicinarci agli eventi, di creare un campo emotivo di immensa fertilità che ci spinge ad organizzare il pensiero, a mettere in forma elaborazioni di informazioni, a categorizzare, ad operare scelte, a stabilire gerarchie, a selezionare, a ridurre la complessità del mondo
[18] Jürgen Habermas (1981) trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., il Mulino, Bologna, 1986. I vol: 727-728.
[19] Ibidem. 
[20] Ibidem.
[21] Jürgen Habermas, in Danilo Dolci (1993), Comunicare, legge della vita. Bozza di manifesto e contributi, Lacaita, Roma 1993: Corsivi miei.
[22] Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare. Non esiste comunicazione senza reciproco adattamento creativo,  Sonda, 1988
[23] Walter Benjamin, trad. it. Angelus novus, Einaudi, Torino 1962: 18.
[24] Marica Tolomelli, Dolci Danilo, in Dizionario  biografico degli italiani, 1960- 2020.
[25] Marco Grifo, Le reti di Danilo Dolci. Sviluppo di comunità e non violenza in Sicilia occidentale”, Franco Angeli, Milano 2021: 13.
[26] Ivi:.329.
[27] Johan Galtung, I gradini della nonviolenza, in «Critica liberale», 46 dicembre 1998. 
[28] Ciro Dovizio, L’alba dell’antimafia.Palermo, “L’ORA” e le prime inchieste sull’”onorata società in Sicilia, Donzelli, Roma 2O24:5. 
[29] In merito, Albert O. Hirschman (1958), trad. it. La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze 1968, e Albert O. Hirschman, trad. it. Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino, Bologna 1991 
[30] Goffredo Fofi, Quante storie. Il sociale dall’unità a oggi, ritratti e ricordi, Altra economia, Le talpe, 2024
[31] Eyvind Hytten, Marco Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano 1970.  
[33] Sergio Nigrelli, L’Eni lo tolse dagli scaffali. Il Comune lo ristampa, in la Repubblica, 15 dicembre 2000. 
[34] Goffredo Fofi, Prefazione alla seconda edizione del 2011 de I ministri dal cielo di Lorenzo Barbera: Istituto Poligrafico Europeo: 7-8). 
 ___________________________________________________________________________
Salvatore Costantino, professore di Sociologia dell’Università di Palermo, ha svolto ricerche di livello nazionale ed europeo. Ha pubblicato e curato saggi e monografie sulla mafia e sull’antimafia, la burocrazia regionale siciliana e la corruzione. Si è occupato del Mezzogiorno e dell’immagine della Sicilia, e di autori e momenti significativi dello sviluppo del pensiero sociologico. Ha pubblicato, fra l’altro, due manuali di sociologia: Azione sociale e potere. Diritto e società tra moderno e postmoderno (2012) e Sociologi: tra moderno e postmoderno, (con Aldo Zanca) (Franco Angeli, 2014). Con Giovanni Fiandaca ha curato il volume La mafia, le mafie (Laterza, 1994) che, promosso da diversi Istituti (fra i quali l’Istituto Gramsci siciliano), all’indomani delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, raccoglieva i risultati del primo seminario internazionale pluridisciplinare sulle mafie tenutosi a Palermo. Per l’Istituto Gramsci ha curato il volume Ragionamenti su Elias Canetti. Un colloquio palermitano, (Franco Angeli, 1998) e Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003).  Dal 1994 al 2002 ha fatto parte del Comitato regionale radiotelevisivo e, dal 2000 al 2006, è stato componente del consiglio di amministrazione del Teatro Biondo stabile di Palermo. Del 2021 è il volume Il mondo senza testa. Rileggendo Elias Canetti (Franco Angeli).  Dirige la collana della casa editrice Franco Angeli “Comunicazione, istituzioni e mutamento sociale”.  Fa parte del Comitato scientifico internazionale della rivista “Sicurezza e Scienze sociali” e dell’Istituto Gramsci Siciliano. Collabora con la rivista “Segno”.

_____________________________________________________________

 
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Politica. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>