di Fabio Dei
Pessimismo culturale
Ringrazio le colleghe e i colleghi che nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei hanno voluto commentare le mie note su “Antropologia e progresso”, uscite nel numero 69 del 1 settembre 2024 della rivista. Le mie considerazioni erano mosse dal disagio verso quello che si potrebbe ben chiamare un diffuso senso comune antropologico orientato verso il “pessimismo culturale”: termine che uso nel senso proposto da Bennett (2001), quello cioè di correnti culturali che vedono nella modernità (identificata con l’ “Occidente”) una minaccia all’autenticità della vita umana.
Sono correnti che nel corso del Novecento hanno oscillato tra poli politici estremi, dalla destra spengleriana o evoliana, che vedeva nella massificazione e nella democratizzazione elementi di decadenza culturale, di degenerazione dei valori spirituali e di tramonto della Tradizione, alla sinistra antagonista, che nella seconda metà del secolo ne ha fatto il perno delle sue critiche al sistema capitalistico e liberale, fondendo il marxismo con la denuncia della cultura di massa come fattore di “alienazione” e oppressione. Da entrambe le polarità dello spettro antimodernista, si è insistito sul fatto che l’apparente progresso è in realtà un regresso a condizioni di appena dissimulata barbarie e a forme di dipendenza più insidiose di quelle del passato.
Certo, l’antropologia non poteva essere immune dal fascino di questi argomenti, sia in virtù del suo mai esaurito retaggio romantico, sia perché prendere le distanze dal dogmatismo illuminista del progresso unilineare è stato da sempre il suo core businness. Per valorizzare la complessità e la raffinatezza delle culture altre o “primitive” era necessario svincolarsi da una filosofia della storia che collocava ogni diversità su una scala di valori assoluta e palesemente etnocentrica (dai Greci alla rivoluzione industriale); così come era necessaria una robusta dose di relativismo culturale per giungere al riconoscimento di un mondo suddiviso in tante “culture” piuttosto che legato a un’unica “civilizzazione”. Bene. Ma non si tratta affatto di rimpiangere l’ottimismo del progresso unilineare, o di sostenere che siamo nel migliore dei mondi possibili. Né di negare che la modernità ha portato con sé disastri e tragedie immani, come – fra l’altro – il colonialismo, le guerre mondiali, la Shoah e i genocidi, il terrore nucleare, il tendenziale esaurimento delle risorse energetiche e un alto grado di distruzione dell’ambiente naturale.
Ma riconoscere tutto questo non significa legarsi a una filosofia della storia inversa e simmetrica, secondo cui la modernità e i suoi strumenti – come la ragione, la scienza, la tecnologia, il benessere, la democrazia – sarebbero la fonte di tutti i mali; non significa predicare un ritorno all’origine, a quel momento in cui per la prima volta gli esseri umani hanno “oggettivato” la natura per dominarla. È proprio questa la visione, ad esempio, di un testo come Oltre natura e cultura di Descola (2021), rappresentativo di questa temperie culturale: ricostruisce il classico percorso dai cacciatori e raccoglitori a noi, con le solite tappe che passano dal pensiero greco ai filosofi razionalisti etc., dove però le cose vanno sempre peggio, la rottura dell’unità ontologica con l’universo dei non-umani si approfondisce sempre di più, e porta con sé anche il dominio intraspecifico rappresentato dal potere dello Stato e dalle conquiste coloniali (che riducono gli altri umani a “natura”). Una posizione primitivista (Amselle 2012, 2020), nostalgica di un mitico stato precategoriale – anche se l’autore vorrebbe negarlo e cerca, con poco successo, di distanziarsi dall’ontologismo più militante e immaginifico di un Viveiros de Castro.
Queste filosofie della storia “negative” non sono poi molto distanti da quelle “positive”, simmetricamente inverse ma accomunate da una sorta di totalitarismo ideologico: funzionano come schiacciasassi che, individuato un dispositivo irradiatore di senso (la civilizzazione e il dispiegamento progressivo dello Spirito da una parte, il “potere sovrano” o il dominio sulla natura e quello coloniale dall’altra), riconducono ad esso ogni fenomeno storico. Ma le cose sono più complesse e più “grigie”, l’intreccio fra il bene e il male costante e non facile da districare. Nelle magnifiche sorti e progressive non abbiamo più fiducia; ma anche l’idea di un “Occidente” o una “Modernità” tutta contaminata da un peccato originale (che per gli ontologi alla fine è nientemeno che la separazione di soggetto e oggetto!), e che potrebbe purificarsi solo autodistruggendosi, non è molto promettente. Mi ha molto colpito durante la pandemia vedere quanta intellettualità sia di destra che di sinistra ha evocato l’apocalisse in senso positivo, parlando con una sorta di entusiasmo religioso dell’estinzione dell’umanità come unica strada per la salvezza del pianeta (Rossi Monti 2021). E se non l’estinzione, almeno un ritorno indietro lontano dal progresso e dalla modernità, che causano solo guai.
Anche la nostra disciplina non è lontana da queste posizioni. Per valutare il suo punto di vista complessivo sul progresso, ho provato a chiederlo a Chat GPT (che ha la capacità di rappresentare, nei diversi campi della conoscenza, il senso comune diffuso o il conformismo dominante, un po’ come il flaubertiano Dizionario delle idee correnti e il Catalogo delle idee chic di Bouvard e Pécuchet). Mi ha dato una risposta cauta ma tutta in negativo, insistendo quasi esclusivamente sulle ragioni che sconsigliano di usare il concetto stesso. Eccone alcuni stralci: «Gli antropologi culturali sottolineano che l‘idea di progresso è spesso legata a valori eurocentrici e modernisti, che tendono a giudicare le società non occidentali in base a standard occidentali». Superate le dottrine ottocentesche sul progresso unilineare, che «implicavano un giudizio di superiorità culturale e giustificavano spesso pratiche coloniali», si è passati a «sfidare l’idea che il progresso sia un fenomeno universale e applicabile a tutte le culture. Boas e i suoi seguaci hanno sottolineato che ogni cultura deve essere compresa nei propri termini e che non esistono criteri universali per definire il progresso. […] L’antropologia contemporanea esamina anche le conseguenze negative del progresso, come l’impatto ambientale, la perdita di biodiversità culturale e l’alienazione sociale. Molti antropologi denunciano che il modello di progresso dominante, basato sul consumo e sul capitalismo, porta spesso alla marginalizzazione di popolazioni indigene e tradizionali, oltre che alla distruzione dei loro modi di vita». E ancora: «oggi il concetto di progresso è trattato con maggiore cautela in antropologia culturale […]. L’enfasi è posta sul rispetto delle specificità culturali e sull’importanza di evitare visioni etnocentriche». E così via. È significativa la rinuncia a ogni definizione in positivo del progresso e a ogni possibile generalizzazione.
Gli antropologi non credono che il superamento per miliardi di persone della fame e delle carestie sia una forma di progresso? Che lo sia l’allungamento della speranza di vita, l’accesso a servizi sanitari e educativi, la riduzione della violenza nella vita quotidiana, l’attenuazione delle discriminazioni di genere e così via? Non credono che si possa ritenere “migliore” una forma di società democratica, pacifica, egalitaria, solidale, che promuove la razionalità scientifica, rispetto a una dittatoriale e illiberale, violenta, discriminante, guerrafondaia, che inculca intoccabili dogmi ideologici? Si dirà che è un modo troppo ingenuo di porre le cose. D’accordo, complessifichiamo, come sempre cerchiamo di fare (e attenzione, non sto certo affermando che l’ “Occidente”, qualunque cosa sia, sta tutto dalla parte buona di queste alternative!); ma non ci rifugiamo nell’alibi relativistico per cui ogni società va valutata nei suoi propri termini. Del resto, come ho cercato di mostrare nel precedente articolo, la stessa postura relativistica non sarebbe possibile senza presupporre (seppure implicitamente) criteri molto chiari di progresso: la tolleranza e il rispetto per gli altri è meglio dell’intolleranza e della sopraffazione, il multiculturalismo preferibile all’etnocidio e così via.
Per cominciare a rispondere ai commenti, mi sarebbe piaciuta una reazione più diretta a questa domanda, se il benessere non è un progresso rispetto al morire di fame, se la scienza non è un progresso rispetto alla magia etc. È una domanda semplice. Per rispondere non c’è bisogno di mobilitare i gerghi intellettuali che ci avvolgono spesso come cortine fumogene e ci separano dal mondo reale che sta là fuori. In quel mondo reale, ci sono otto miliardi di persone che aspirano a maggior benessere, all’accesso a tecnologie, servizi medici e educativi, a libertà, dignità, relazioni sociali dense e pacifiche. E poi anche a cose culturalmente più specifiche, che possono essere la spiritualità, l’arte, il gioco e molto altro che interessa noi antropologi: ma non prima di quegli ingredienti fondamentali che sono elementarmente umani.
Poi è tutto vero quello che scrive Linda Armano nel suo lucido intervento sulle ambiguità del concetto di “sviluppo” e soprattutto sulla “cooperazione allo sviluppo” che rischia talvolta di assumere una connotazione neocoloniale. Ed è tutto vero quello che dice Letizia Bindi nel suo appassionato scritto, che ci ricorda come l’incontro tra l’Occidente “progredito” e il resto del mondo sia avvenuto sotto il segno della violenza coloniale, e che dunque – la cito – «al cuore del binomio antropologia e progresso incontriamo un atto violento di prevaricazione». Sì, certo, gli europei se ne sono andati in giro per il mondo non a offrire agli altri il loro progresso, ma a depredarli; e quando hanno voluto imporre quello che a loro sembrava progresso (ad esempio la “vera religione”), hanno prodotto disastrosi processi di deculturazione e etnocidio. La storia la conosciamo. Ma tutto questo dovrebbe portare ad abbracciare il “pessimismo culturale”? Cioè una narrazione in blocco della modernità, inversa e simmetrica – insisto – a quella del progressismo unilineare; accomunata a quest’ultima, come osserva Federico Scarpelli nel suo intervento, da una nozione essenzializzata di “Occidente” che non funziona né per capire la storia né per orientarsi nel presente?
Per capire la storia: per quanto il colonialismo sia stato un fenomeno cruciale nell’età moderna e contemporanea, non possiamo pensare che ne esaurisca il senso e che la sua ombra sinistra si proietti su ogni sua realizzazione. Si sono fatte cose terribili in nome del progresso, così come in nome della scienza, della tecnica, della religione, della stessa democrazia, persino dell’antropologia: ciò non significa che il male promani dalla scienza, dalla democrazia, dall’antropologia etc. in sé. L’idea che l’antropologia culturale sia in quanto tale complice del colonialismo e pervasa da una fondamentale violenza epistemologica mi sembra priva di senso e del tutto antistorica.
Per inciso, è proprio questo che rimprovero a Graeber e Wengrow e che Letizia dice di non capire. Credere che il razzismo sia l’essenza dell’Illuminismo; negare l’ovvio, cioè l’esistenza di un processo di modernizzazione che ha portato con sé mutamenti senza precedenti, almeno alcuni dei quali possiamo chiamare progressi (superando quella che Lévi-Strauss chiamava “la piattaforma neolitica”, ricordate? Qualcuno lo ha mai smentito?); giustificare tutto questo attraverso il classico giochetto del rovesciamento relativistico, versione intellettualistica del popolare “si stava meglio quando si stava peggio”. I cacciatori e raccoglitori, senza Stato e senza mercato, ancora non separati dall’Essere dal dualismo cartesiano, erano più felici di noi? Può darsi, ma chiedete a quegli otto miliardi là fuori (incluso il venditore ambulante della foto “Fardello”), chi vorrebbe fare a scambio.
Federico Scarpelli ci ricorda come questa strategia (“loro” sono più felici nel loro stato di abbondanza naturale, e possono dedicarsi a realizzare la propria personalità senza doversi dedicare a lavori inutili e faticosi) risalga a un celebre articolo del maestro di Graeber, Marshall Sahlins. Ma ci ricorda anche che un conto era enunciare la tesi dell’affluenza originaria in modo ironico e provocatorio negli anni Settanta, per sfondare porte ancora sbarrate, un conto è riproporla oggi come perno della sistematizzazione di una storia universale – perché questo è in realtà l’obiettivo di L’alba di tutto. Scarpelli coglie anche bene l’altra maggiore debolezza di questo testo (di cui vale la pena parlare non foss’altro per il successo che ha avuto, indice del fatto che evidentemente incontra ed esprime autorevolmente un filone dell’immaginario antropologico molto potente, con cui occorre fare i conti); debolezza che consiste nell’asimmetria dei modelli di soggettività che impiega per comprendere l’umanità arcaica e quella moderna. La prima è rappresentata come autoconsapevole, creativa, in grado di forgiare attivamente le soluzioni politiche capaci di preservare la libertà: la seconda è vittima passiva della propaganda delle istituzioni (dello Stato e del mercato), e rinuncia ottusamente alla propria libertà in cambio della promessa di consumo di cose inutili e di protezione da paure indotte (a meno che non riescano a risvegliarla le avanguardie rivoluzionarie). Date queste premesse, non sembra che Graeber riesca a sfuggire a quella “dark anthropology” cui pure vorrebbe costruire un’alternativa (per un dibattito italiano con voci molto diverse su L’alba di tutto rimando al recente numero della Rivista di Antropologia contemporanea curato da Matteo Aria [2024]).
Nostalgia per il passato e convergenze verso il futuro
Fulvio Cozza approfondisce un altro aspetto dei dubbi contemporanei nei confronti del progresso: non sul piano della teoria sociale ma su quello del senso comune, o dell’immaginario diffuso. Ne fornisce degli esempi, di natura però molto diversa e non facilmente assimilabili. Da un lato un’attrazione o un rimpianto per il passato, che porta a vedere il presente (e a maggior ragione il futuro) come inautentico. È un atteggiamento ben noto, che si può vedere nelle mode vintage o nella “retromania” (Reynolds 2017) nel consumo culturale, in svariate forme della patrimonializzazione o dell’invenzione della tradizione, nonché nel fenomeno della “nostalgia strutturale” per il mondo contadino, oppure per gli anni del boom economico (Scarpelli 2020, Meloni 2023 ). Potrei aggiungere, per citare un tema su cui sto ragionando da parecchi anni, la moda delle rievocazioni storiche – che legano comunità locali attorno a una immagine più o meno mitica del passato piuttosto che attorno a rappresentazioni di un futuro migliore (come avveniva invece nelle manifestazioni politiche del Novecento). Non sono però sicuro che tali tendenze possano esser lette come sfiducia nel progresso o come un ritrarsi dalla modernità.
Per certi versi, la nostalgia culturale e la celebrazione delle tradizioni, almeno dal Romanticismo in poi, è al contrario un contrassegno della modernità stessa: come ha mostrato fra gli altri Hermann Bausinger (2020), è un fenomeno che diviene possibile e anzi probabile proprio nel momento in cui si opera una rottura radicale col passato. Dall’altro lato, Cozza si riferisce a fenomeni più vicini a quello che ho chiamato “pessimismo culturale”, che caratterizzano sia la cultura pop (ad esempio un immaginario prevalentemente distopico sul futuro), sia il mondo intellettuale e la cultura di sinistra. Quest’ultima sembrerebbe aver abbandonato gli obiettivi progressisti, per non parlare dell’immaginazione utopica, per concentrarsi su una più cinica e smaliziata critica del presente. Per quali ragioni? Cozza ne suggerisce due: la prima è la possibilità che un tale atteggiamento rappresenti una rielaborazione della sconfitta, o della sfiducia nella possibilità di incidere concretamente sulla storia (si tratterebbe di una dinamica non dissimile da quella individuata da Lorenzo d’Orsi (2020) nelle strategie memoriali della sinistra turca. La seconda ragione per il ritrarsi della sinistra intellettuale dal progressismo potrebbe avere, per Cozza, una natura per così dire bourdesiana: si tratterebbe dell’attrazione distintiva che l’antagonismo esercita su gruppi sociali di middle class. Si tratta di spunti da approfondire, che potrebbero comunque aprire piste di ricerca empirica di sicuro interesse.
Il testo di Nicola Martellozzo si focalizza su un problema generale che l’uso della nozione di progresso implica: come è compatibile con il relativismo culturale che è in qualche modo sempre implicito nello sguardo antropologico? Non è sempre necessariamente etnocentrica l’assunzione di criteri di progresso che si pretendono universali? Al centro della riflessione di Martellozzo sta il possibile uso del concetto di “convergenza” al fine di riconoscere tratti in comune nello sviluppo delle culture, senza per questo imporre loro valutazioni dall’esterno. Studiare i mutamenti culturali, in altre parole, cercando di far emergere non “una linearità netta” ma “istanze culturali rassomiglianti”. Un metodo politetico, se capisco bene, anche se non mi è del tutto chiaro in che modo, essendo basato sulla comparazione di dati già osservati, possa essere “orientato al futuro”. Individuando linee di tendenza, immagino: ma gli esempi che l’autore propone non implicano comunque l’assunzione precedente di criteri universali (ad esempio il rispetto dei diritti civili e della volontà popolare)? La mia obiezione di fondo è comunque un’altra. Il limite del relativismo non consiste nella necessità di assumere a priori criteri universali, come nelle vecchie discussioni sulla “testa di ponte interculturale”, indispensabile perché la traduzione tra lingue e la comprensione fra culture diverse sia possibile. L’argomento della “testa di ponte” presuppone di considerare le “culture” come sistemi formali, universi incommensurabili di significato, “treni in corsa verso direzioni diverse”, come nella celebre immagine lévistraussiana.
Ma le “culture” non sono niente di tutto questo: sono varianti dell’esistenza di una umanità che vive in un’unica storia e in un unico mondo (come dice Scarpelli [2016] riprendendo John Searle). Il rapporto tra di loro è pratico, non logico o giuridico, e si svolge tutto dentro una storia. Quando parlo della possibilità di una valutazione qualitativa non mi riferisco a un giudizio sulla corrispondenza rispetto a un criterio formalizzato, a uno statuto o qualcosa del genere. Se dico che il perseguimento del benessere, della libertà e dell’eguaglianza per tutti, e la promozione della razionalità scientifica sono elementi di progresso, non lo faccio pretendendo di pormi al di fuori delle differenze culturali ed enunciando criteri “terzi” e neutrali. No, lo dico dall’interno di una tradizione storica precisa, cercando di convincere chi mi ascolta sulla base delle esperienze di vita e delle conoscenze che abbiamo in comune, che ci uniscono in una medesima comunità morale (per inciso, per riferirmi ancora a un passaggio del testo di Martellozzo, mi sembra sia questo il punto non compreso da coloro che accusano l’etnocentrismo critico di de Martino di essere comunque e soltanto etnocentrismo). Non pretendo di convincere chi sta fuori da questa comunità – che so, un nazista dell’Illinois o un membro della polizia morale iraniana – anche se argomenti basati sulla nostra comune umanità potrebbero essere avanzati. Ma non è che il nazista o il fondamentalista commettano errori logici, o infrazioni formali a un decalogo dettato agli abitanti del pianeta Terra da una Confederazione Galattica. È in definitiva una questione di forme di vita diverse: affermazione che non è per niente relativistica, dal momento che non siamo incommensurabili sul piano pratico, e abbiamo alle spalle una stessa “storia naturale del genere umano”, per dirla con le parole di Della certezza. A sentire il suo autore, anche la conoscenza scientifica non sarebbe giustificabile dall’esterno del gioco linguistico che pratica (la sequela delle giustificazioni incontra alla fine un letto di roccia).
Noi antropologi siamo quelli che hanno mostrato come le visioni del mondo pre- o non scientifiche rispondono comunque a criteri di razionalità. Tuttavia la verità del sapere scientifico e l’efficacia delle sue applicazioni tecniche sono più difficili da relativizzare rispetto ai criteri morali o alle scelte politiche, poiché si confrontano con una realtà che non è un prodotto soggettivo o culturale. Qui troviamo un alto grado di “convergenza”: ad esempio, restare fedeli alle terapie magiche quando è disponibile la biomedicina è altamente improbabile (malgrado gli sforzi dell’antropologia medica per chiarire il senso e persino talvolta l’efficacia simbolica delle prime, e malgrado le fortune del “pluralismo medico”, la gente in tutto il mondo quando può scegliere consapevolmente non ha dubbi). Così come è improbabile che qualcuno decida di continuare a lavorare i campi con strumenti artigianali quando sono disponibili i mezzi meccanici, a fare lunghi viaggi a piedi quando è disponibile il treno, e così via. Ovvio, certo: ma la teoria antropologica non si costruisce proprio portando alla luce l’ovvio?
Questa è in parte una risposta anche al commento di Giuseppe Sorce, che pone l’accento sul fatto che ogni definizione di progresso è legata alla necessità di “scegliere” e “schierarsi”, parlando di una scelta “militante”. Sì, come ho cercato di dire anche a me sembra che i giudizi sul progresso siano inevitabilmente legati alla collocazione in una storia e in una comunità morale. Ma non chiamerei “militante” questa postura. Militanza è un concetto diverso: evoca l’immediato impegno politico, un’azione sociale che parte da fermissime convinzioni e non si concede il lusso del dubbio. Ma noi qui stiamo parlando dal punto di vista di una comunità di studi. Certo, siamo consapevoli di quanto la dimensione politica abbia plasmato la nostra storia intellettuale e influenzi oggi le nostre ricerche e le nostre riflessioni etc. Anzi, siamo stati così preoccupati di sfatare il mito della neutralità della scienza che ci siamo fatti prendere fin troppo la mano: dimenticandoci spesso che le regole della scienza sono diverse da quelle della militanza. La scienza si fonda su una autonomia conoscitiva e al tempo stesso sociale, che la libera dal controllo politico e in parte anche da quello economico sui risultati della ricerca, costruendo un clima di confronto e dibattito che non è lo stesso della militanza (il che non significa che gli studiosi, in quanto cittadini, non possano essere anche militanti).
Vengo infine al complesso e profondo contributo di Piero Vereni. Con Piero abbiamo condiviso negli ultimi anni un certo disagio per la bolla di radicalismo antimodernista, antioccidentale, antistatale etc. in cui la nostra disciplina sembra essersi asserragliata a fronte di un mondo che si muove rapidamente in direzioni contraddittorie e preoccupanti e nel quale il tradizionale oggetto degli studi antropologici, le “culture” compatte e tradizionali, sembra essere scomparso. Mi fa quindi piacere il suo accordo sul fatto che ripensare il concetto di progresso sia d’aiuto nel tentativo di riportare la nostra disciplina verso un maggiore equilibrio, sia sul piano della elaborazione teorica che su quello del posizionamento pubblico. Le obiezioni che mi pone sono soprattutto due. La prima riguarda il fatto che non trarrei fino in fondo le conseguenze della mia proposta di togliere il veto dalla riflessione sul progresso. Se può esserci una valutazione qualitativa delle diverse forme di organizzazione della vita umana, argomenta Piero, essa non può che poggiare su criteri esterni a quelle forme stesse (alle “culture”, diciamo). Quindi sarei incoerente quando scrivo che «né Dio né l’epistemologia possono offrire soluzioni esterne o neutrali rispetto a specifiche tradizioni culturali o morali».
Ma non posso che ribadire quanto detto sopra: il limite del relativismo non sta nell’assunzione a priori di criteri assoluti (dettati da chi?), ma nella consapevolezza della storia culturale di cui siamo partecipi – quella senza la quale non esisterebbe la nostra disciplina di studi e la stessa discorsività, lo stile di dibattito etc. nel quale ci stiamo confrontando. Quindi, introdurre giudizi di valore (la parità di genere è meglio della discriminazione, una vita sociale non violenta è meglio di una basata sulla costante aggressione e necessità di difendersi, etc.) non significa assumere unità di misura assolute, ma riflettere su quello che ci tiene insieme, e che ci potrebbe anche tenere insieme ad altri che pure questa nostra storia in parte non condividono (ma non è mai possibile, finché siamo umani, non condividere “del tutto” la storia di altri). Non abbiamo rating di culture da costruire e formalizzare, ma non possiamo neppure fingere che “tutto va bene”: anche perché i giudizi di valore sono sempre implicitamente presenti, e lo sono proprio in quelle forme di pessimismo culturale, di antimodernismo o antioccidentalismo da cui la riflessione sia mia che di Piero prende le mosse. Dunque, esplicitarli (ma in modo sempre provvisorio e contrattato, per tentativi, non dotandoci di un immutabile Statuto del Progresso) è un modo per mostrare le ambiguità e gli squilibri di quel tipo di teoria.
La seconda obiezione di Piero Vereni riguarda il ruolo che la religione, e il Cristianesimo in particolare, gioca nella nostra definizione di progresso; e la compatibilità del momento religioso con quel razionalismo umanistico che, come Piero dice giustamente, sta alla base della mia proposta. La risposta, per un demartiniano ortodosso come me, potrebbe essere facile. Non c’è dubbio che il Cristianesimo abbia giocato un ruolo cruciale nella plasmazione della cultura moderna, e quindi anche della razionalità scientifica e del concetto moderno di tempo storico (ragion per cui “non possiamo non dirci cristiani” etc.). Non c’è ugualmente dubbio che l’antropologia debba sbarazzarsi delle letture riduzioniste della religione, letta come frutto di un modo di pensare errato e illusorio, o come trucco del potere e oppio dei popoli (o anche come “utile” sottoprodotto dell’adattamento ambientale, come in alcune più recenti letture neoevoluzioniste); e che occorre invece comprendere la sua “relazione dialettica con la ragione e con la politica”. Al tempo stesso, però, il de Martino che è in me ricorda anche che la comprensione della religione – nel quadro delle scienze umane – non può avvenire solo con il linguaggio religioso. Non ci può bastare dire che si crede in Dio perché Dio esiste. Possiamo essere credenti, ma all’interno del discorso antropologico partiamo dal presupposto dell’origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali, religione inclusa.
E c’è di più. Il Cristianesimo apre sì la strada al riconoscimento della condizione storica dell’umanità (in un modo che non consentono ad esempio le religioni basate su una concezione circolare del tempo); e tuttavia l’orizzonte super-umano, divino o numinoso, che pure consente di superare il “terrore” della storia e di pensare e agire al suo interno, diventa a un certo punto incompatibile con la coscienza della propria integrale storicità che l’umanesimo viene maturando. La conquista di questa coscienza è per de Martino irreversibile: non si torna indietro. Quindi anche il suo è un pensiero che porta all’inevitabile secolarizzazione (anche se non amava questo termine): e porta al problema che lo aveva tormentato nei suoi ultimi anni, cioè come potrebbe funzionare l’apparato simbolico-rituale di cui il nostro ancoramento esistenziale ha bisogno senza presupporre un orizzonte metastorico. Apparentemente de Martino aveva torto, se è vero che ci troviamo oggi – a sessant’anni dalla sua morte – in una società post-secolare (e forse persino neo-magica). La consapevolezza della integrale storicità umana è oggi caratteristica solo di alcuni ceti sociali all’interno dell’Occidente secolarizzato (qualcosa di distintivo come il politicamente corretto, insomma)? O si potrebbe forse dire che il Cristianesimo si è trasformato in buona parte in un atteggiamento morale, che mantiene forte il senso di comunità organizzandolo però non più in un orizzonte di trascendenza bensì attorno a una religione dei diritti umani – trasformazione che il papato di Francesco ha reso in massimo grado evidente?
Se è così, dopo tutto forse de Martino non aveva tutti i torti, e prima di lui Durkheim che prevedeva la costituzione di una “religione dell’uomo”. In ogni caso, non mi pare si possa liquidare facilmente l’idea di secolarizzazione, come fa ad esempio Talal Asad (2003), come fosse un tassello della strategia imperialista per costruire la superiorità occidentale. L’intento di Piero è, all’opposto, quello di contrapporsi proprio a questa prospettiva – alle visioni decoloniali che considerano il Cristianesimo, in quanto “occidentale”, poco più che uno strumento del dominio. Visioni che magari invece si esaltano per le religioni “prospettiviste”, per le foreste che pensano, per Pachamama o per il neosciamanismo, che non ricadono nel malefico “dualismo cartesiano” e ci aiutano a salvare il mondo. Come se per salvare l’ambiente occorresse tornare all’animismo e all’incantamento del mondo – visto che la sua distruzione sembra provocata dalla ragione e dalla scienza (che avrebbero avuto nel Cristianesimo un loro alleato, se non “complice”). Ma c’è qualcosa che non funziona in questo ragionamento, che sta alla base dei primitivismi e degli ontologismi contemporanei. Contrapporsi alla rappresentazione caricaturale del Cristianesimo (come peraltro a quella dell’Islam che viene da parti politiche opposte) è ovviamente un compito importante per l’antropologia contemporanea; così come capire del Cristianesimo l’attuale natura e i meccanismi delle trasformazioni in corso, nonché il rapporto che può oggi intrattenere con quella consapevolezza di stare integralmente nella storia che caratterizza la condizione moderna.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017), James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (Carocci 2021). Dirige la Rivista di antropologia contemporanea e dal 2017 Lares, Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici.
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