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Mò vene Natale. Paesi tra ansia, dolore e speranza

Gaza

Gaza

CIP

di Pietro Clemente 

Emergency

L’area di al-Mawasi, un tempo un’area costiera caratterizzata dalla presenza di locali e normale vita quotidiana, ora è una distesa immensa di campi profughi dove gli sfollati sono accampati in tendopoli. Qui la popolazione vive in condizioni difficili con bisogni che toccano tutti gli aspetti della vita. Da quello sanitario, a quello economico, a quello sociale [1].

La tragedia che da 14 mesi si sta consumando a Gaza riassunta nella storia più triste di questo Natale appena trascorso: una neonata di tre settimane appena che i genitori avevano chiamata Sila è morta di freddo nella notte fra 24 e 25 dicembre, proprio mentre nel mondo si festeggiava, scartando regali (La Repubblica, 26 dicembre)

 Nel campo profughi di Khan Yunis le temperature sono scese sotto i 9 gradi. Il padre della neonata: “Durante la notte piangeva, al mattino era priva di sensi, come un pezzo di legno”. È la terza bambina a morire di freddo qui in pochi giorni (Corriere della Sera, 24 dicembre)

Leggo sulla rivista/depliant di Emergency

Da novembre 2024, un team di EMERGENCY offre supporto medico e logistico a un Centro di salute primaria nella zona di al-Mawasi (Khan Younis), nel sud della Striscia, gestito dall’associazione CFTA (Culture & Free Thought Association), un’organizzazione non governativa e indipendente locale che lavora qui dal 1991 per fornire assistenza alla popolazione palestinese su vari fronti: da quello culturale e dell’educazione, a quello sociale e sanitario.

Stefano Sozza, capomissione di Emergency, così racconta quel che vive da vicino nella strettissima e sempre minacciata ‘zona umanitaria’, tra i sibili dei missili, i bombardamenti, i cieli pattugliati minacciosamente, le rovine che dominano ormai ogni fotografia da Gaza, dove migliaia di persone sono concentrate negli attendamenti. La situazione di Gaza, che dura dal 2007, è un cul de sac, quasi una detenzione all’aria aperta. In mezzo alla morte dominante e alla minaccia costante si intravede in quegli spazi che ancora sono in piedi un messaggio:

I gazawi lottano per rimanere vivi, per ricostruire la propria dignità. A dispetto di tutto, questo popolo continua a ‘fare’, a fare il proprio mestiere per sé e per gli altri. Lungo le strade ritrovo barbieri , falegnami, panettieri e le abilità di cui la guerra non può privarli. La guerra è paura, incertezza, ansia e mancanza di ossigeno. È impossibilità di proteggere i propri figli, le persone alle quali si tiene. In tempo di guerra provare a ritagliarsi un’occupazione non vuol dire solo sopravvivere. Vuol dire ricostruirsi, ricostruire dalle macerie.

Forse a Gaza qualche cosa può rinascere.

breve-futuro-lightCito spesso Jacques Attali che nella sua Breve storia del futuro [2] aveva previsto che dopo la terza e la quarta guerra mondiale, tragicamente gestite dalle multinazionali e dagli Stati imperialisti, ci sarebbe stata una nuova fase, l’iperdemocrazia, caratterizzata da transumanità e imprese relazionali (da pag. 208 alla fine) in cui le stesse imprese relazionali avrebbero gestito le condizioni per arrivare a una democrazia radicale. Tra queste imprese relazionali dominano Green Peace, Medici senza frontiere, WWF, Emergency.

Per non perdere la speranza, accogliendo così il messaggio di Papa Francesco, aiutiamoci immaginando che quando investiamo in grandi imprese umanitarie, stiamo preparando la speranza del futuro per i nostri nipoti o bisnipoti in vista di un’epoca transumana e iperdemocratica.

Natale plurale

Quando ero un giovane militante di sinistra, festeggiare il Natale era vietato, era una festa religiosa e bigotta. Avevo la certezza che la Chiesa fosse un luogo di conformismo e di compromesso col potere, una agenzia di clientelismo al soldo della Democrazia Cristiana. Ora invece mi accorgo di avere una qualche nostalgia della tombola a casa dei nonni, su una tavola piena di nocciole e mandorle, del Te Deum, e della messa di mezzanotte. È passato un bel po’ di tempo. La Chiesa non perde apparato ma guadagna credibilità attraverso il messaggio etico. Forse le cose sarebbero state diverse anche per me se nel 57-58 ci fosse stato Papa Francesco. 

Ogni anno mi domando come mai festeggio il Natale. Al di là del consumismo che si scatena in questi giorni, percepisco l’atmosfera natalizia. Quest’anno ho passato la vigilia nella sede delle Stanze della Memoria di Siena (già caserma della milizia repubblichina diventata poi Museo storico del Fascismo e della Resistenza), dove il gruppo musicale Lost in folk (arpa, flauto, tamburo, chitarra, viola, voce) ha reinterpretato musiche tradizionali e popolari. Ho pensato che la musica è un linguaggio diverso che fa pensare, evocare, e ripassare aspetti della vita.

325-3Un saggio dell’antropologo Lèvi Strauss [3] legge il Natale e la figura di Babbo Natale come rito di passaggio dall’autunno all’inverno. Un tempo che ha al centro il rapporto tra i bambini e gli antenati. Ricordo che in Sicilia il 2 novembre erano i morti a tornare e a portare i regali ai bambini. Come dice Lévi-Strauss il Natale è una  festa di alleanza tra bambini (pochi ma nuovi al mondo) e nonni (tanti ed esperti), che si incontrano per togliere un po’ di potere agli adulti, che non sono tanti ma sono assai arroganti. Il Natale fa parte della tradizione cattolica ma è anche un rito di passaggio non necessariamente arcaico ma sicuramente parte attiva del nostro modo di essere al mondo. È un tempo di incontri e di trasmissioni generazionali.

In una novella di Grazia Deledda dal titolo Il dono di Natale, si narra di una cena di Natale in cui si lascia un piatto fuori dalla porta per gli antenati:

«E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi» [4].

Ma allo stesso tempo si aspetta una nuova nascita, si incontrano i nonni, e si festeggia un fidanzamento. Una sintesi di antropologia della famiglia.

81ducnxsbxl-_ac_uf10001000_ql80_Una novella di Federigo Tozzi, dal titolo Il porco del Natale [5] (che ho usato spesso per raccontare il mondo contadino mezzadrile), racconta il Natale come nodo del ciclo della vita. Si narra di Fiore, capoccia di una famiglia di mezzadri, che torna dalla Grande guerra ed è atteso a casa per il giorno di Natale. A casa c’è da ammazzare il maiale, sono venuti i vicini ad aiutare, ma Fiore tarda. Allora il fratello minore decide di avviare l’uccisione del maiale contro la volontà della moglie di Fiore che si rende conto che così viene violata l’autorità del capoccia. Ma non c’è tempo e si procede all’uccisione: il maiale è grasso, ricco di carni, promette bene per l’inverno e per l’estate. Quando Fiore finalmente arriva, tutti vedono con sbigottimento e disagio che ha perso una gamba in guerra e cammina con l’aiuto di una stampella ma lui assicura che lavorerà lo stesso e critica duramente il fratello che non lo ha atteso; ma di fronte all’abbondanza di carne si calma e rivolgendosi alla moglie: oggi cuoci una bragiola per uno. Quest’anno il Natale ci farà ingrassare. E pianse anche lui commosso.

È un formidabile racconto del ciclo  dell’anno contadino dove è il maiale a fare da soglia, da supporto del rito di passaggio. Unico elemento nella dieta carnea contadina, il maiale veniva consumato per un intero anno, fino all’uccisione dell’animale per l’anno successivo. Attraverso la sua buona morte inizia un’annata agraria, che è un investimento per la sopravvivenza familiare. L’uccisione del maiale suggella un rito che coinvolge la famiglia e i vicini di casa. Questo è un Natale laico, centrato sul cibo. Senza conoscere il regime alimentare della mezzadria, il racconto può apparire strano e così deve essere apparso spesso ai miei studenti. Per me fu una folgorazione, uno squarcio su un mondo di emozioni e sentimenti difficile da trovare nella ricerca.

Il Natale cristiano non aderisce al ciclo dell’anno, ma riformula il tempo, a partire da una nascita; il tempo che ne nasce è lineare e si oppone al tempo ciclico anche se lo comprende. La nascita di Gesù interrompe un tempo e ne fonda un altro. In questi giorni di festa Tommaso Montanari ha dato una lettura attuale e radicale di questa nascita, che connette alla strage degli innocenti, facendocela apparire vicina e dovuta a un potere assoluto e guerresco:

«È un ribaltamento inaudito: allora, e anche oggi. Nel mondo del successo, della competitività, del potere assoluto del denaro, il Natale va in direzione ostinata e contraria. Sappiamo come è andata: il primo tra i cristiani, il papa, ha rappresentato per millenni l’apice di un potere assoluto e arbitrario, e il titolo di “servo dei servi” (ispirato proprio a questa pagina del Vangelo) è stato quasi sempre vuota ipocrisia. Nonostante questo tradimento, nonostante una infinita serie di tradimenti (anche in ognuno di noi), il Natale continua a proclamare che non esistono poteri buoni. E lo fa con forza dirompente perché non rappresenta la nascita di una idea, ma di una persona: un bambino, un piccolo corpo caldo in comunione con altri corpi: quelli dei suoi genitori, degli animali della stalla, dei pastori. Non esistono poteri buoni, ma esistono persone che – cercando di restare ‘buone’ – possono contestare, spezzare, suddividere, controllare quei poteri, di cui non riusciamo a fare a meno. In tempi in cui la politica come impresa collettiva cede all’idea del potere di uomini così ricchi da poter comprare interi Stati; in cui la riforma che si vorrebbe è quella che attribuisce a un singolo capo ‘i pieni poteri’; in tempi in cui chi dissente e si oppone al potere viene colpito, sorvegliato, punito; in tempi in cui ‘buonismo’ è un’offesa; in cui le persone e i loro corpi sono carne da cannone sui campi di battaglia, nelle mani di un potere omicida come quello di Erode, ecco che il Natale torna a dirci di ricordarsi che hanno un cuore di carne, e un corpo come quello di tutti gli altri. Persone che si prendono cura del loro prossimo, cioè “dell’altro uomo, che ti è estraneo culturalmente, che ti è straniero linguisticamente e che – per volontà della provvidenza, o per puro caso – giace da qualche parte nell’erba sulla tua strada: e con esso creano la suprema forma di vicinanza, non già data dalla creazione, ma creata da te” (Ivan Illich). Al potere il Natale oppone la comprensione e la cura. Al governo, il servizio. Alle nazioni, le persone. La via stretta per avere un futuro collettivo passa da qui: da questa ‘incarnazione’». https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/12/24/natale-non-ci-sono-poteri-buoni/

C’è un certo – ancorché non preciso – legame tra l’iperdemocrazia nelle mani delle grandi agenzie umanitarie e la nascita del Cristo. Il modo di intendere la nascita è assai vicino a ogni nucleo che si proponga di lottare contro l’ingiustizia fondando un tempo nuovo, non ciclico ma lineare, contro il potere che è capace di dare solo la morte e non la pace. Il mio punto di vista è meno radicale di quello di Gesù raccontato da Montanari. Ma questi sono altri discorsi. E comunque si tratta di buone ragioni per festeggiare il Natale e per pensare il Natale. Anche perché è ancora Erode che vince.

Mi viene in mente che la nascita di Gesù, e la sua rappresentazione nel presepio, possono essere visti come una modalità del ‘porre il centro in periferia’.

Del rispetto e della sua mancanza

«È una parola che esprime attenzione, gusto dell’incontro, stima. Che anche quando introduce un attacco verbale, non alza i toni del discorso, anzi sembra voler prendere le distanze da quanto sarà detto subito dopo. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani ha scelto “rispetto” come parola del 2024. Una decisione che sembra un auspicio, che porta con sé il desiderio di costruire, di usare il dizionario non per demolire chi abbiamo di fronte ma per provare a capirne le ricchezze e le potenzialità. Perché se è vero che le parole possono essere pietre, è altrettanto giusto sottolineare come siano in grado di diventare il cemento necessario a edificare case solide e confortevoli, la colla capace di tenere insieme una relazione a rischio di rottura. “Il termine rispetto, continuazione del latino respectus – spiegano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, condirettori del Vocabolario Treccani – va oggi rivalutato e usato in tutte le sue sfumature, proprio perché la mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo animale» [6].

Dal latino respectŭs , ūs, m.

1 il guardare indietro
2 riguardo, rispetto, considerazione
3 rifugio, scampo, asilo [7]. 

1080_parola-rispetto“Il guardare indietro” è un’espressione che mi piace particolarmente, tanto che la ho usata in un mio lavoro che porta il titolo ‘la postura del ricordante’. Espressione che per me significa avere memoria, memoria che va verso il futuro [8]. Ma anche  l’espressione ‘rispetto come rifugio, asilo’ è interessante. Mi piace accostare questo termine a un brano di un discorso. tenuto ad Atreiu, da Giorgia Meloni nella sua veste di leader politico, in cui giustifica la sua azione di Presidente del Consiglio. Lo ho sentito alla televisione e sono rimasto scioccato, ne riporto un brano secondo la trascrizione pubblicata di giornali:

«Il punto centrale dei centri in Albania è la deterrenza, se chi sbarca in Italia ha l’unico obiettivo di restare in Europa, sbarcare fuori dai confini cambia tutto. Per questo il protocollo in Albania è in assoluto “lo strumento” più temuto dai trafficanti: fermare l’iniziativa sarebbe il più grande favore ai trafficanti.  I centri per migranti in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano. Perché io voglio combattere la mafia e chiedo a tutto lo Stato italiano, alle persone perbene, di aiutarmi a combattere la mafia. Non sono io il nemico, io sono una persona perbene. E ancora: Abbiamo buttato fuori la camorra dalla gestione delle domande per i nullaosta dei migranti regolari così come abbiamo buttato fuori i camorristi che occupavano le case popolari a Caivano, e anche qui i complimenti dei guru dell’antimafia alla Roberto Saviano li aspettiamo domani».

Non credevo alle mie orecchie e ai miei occhi. Secondo la Meloni, la collocazione dei richiedenti asilo in Albania farebbe desistere i trafficanti e i loro “clienti” dall’intraprendere viaggi verso l’Europa (ma l’Albania non è in Europa?).  Sempre la Meloni opera una strana connessione tra gli sbarchi e la mafia quando si sa che tutto il sistema si basa su accordi presi tra Paesi europei e la Libia, accordi che ora si cerca di riprodurre anche in Tunisia. In questo modo non si combattono i trafficanti ma si è costituita, come sostiene Don Mattia Ferrari,  una vera e propria mafia libica [9].  E ancora offende un protagonista storico della lotta contro la camorra come Saviano per vantarsi di aver fatto ben poca cosa in un piccolo paese del napoletano. Mi domando se questo è rispetto di chi ascolta, delle persone coinvolte, della verità. Lo chiamerei disprezzo.

Biffe, 2024

Biffe, 2024

Lo stesso disprezzo della verità viene da Matteo Salvini che nell’occasione di un processo per avere lungamente impedito lo sbarco di migranti stanchi, malati, fragili in un porto italiano, dichiara di averlo fatto per difendere i confini della patria [10]. Che contrasto tra Salvini e il messaggio di Papa Francesco che apre la Porta Santa nelle carceri e invita ad avere speranza. Ma Salvini non aveva il rosario? Non giocava la parte del credente? Che disprezzo dell’umanità, che mancanza di rispetto! Il nostro governo è in controtendenza rispetto alla parola scelta dalla Treccani per il 2024. Il fatto che sia stata scelta ci aiuta a tenere il timone diritto nel percorso che va in direzione diversa da quella di chi oggi gestisce il potere.

Siamo in una fase della storia dell’Europa per cui possiamo vergognarci di farne parte, e dove la nostra grande tradizione illuminista, umanistica e relativistica viene completamente calpestata. E all’Europa resta l’egoismo di mettere al centro i propri interessi immediati, quelli che possono portare voti, non quelli che possono aprire ad una prospettiva adeguata. Vivo questo tempo con grande disorientamento e dolore.

11 testi

Questo numero è ricco di testi particolari, belli e vari. Ho pensato di rendere omaggio alla loro qualità e varietà non dando ad essi un ordine di lettura ma un ordine alfabetico per autore. Salvo per il caso dei tre ultimi scritti su arte e antropologia legati tutti e tre alla presentazione di uno stesso libro.

1. Il primo testo (Adriani-Santarelli) racconta la storia di una proloco che si sforza  di pubblicare una rivista locale per dare voce e valore al territorio. Negli anni passati la proloco ha dato vita ad una rivista locale per ben tre volte, questa sarebbe la quarta. Quello che qui viene presentato è il primo numero della nuova rivista. Può sembrare audace o fuori moda, ma l’attività di questa proloco dimostra che pubblicare una rivista significa costruire una soggettività plurale, una comunità culturale. E cosa c’è di meglio per porre il centro in periferia?

406367437_6972568049433317_5456870229142537197_n2. Il testo di Paola Atzeni è necessariamente ampio per riuscire a raccontare la storia lunga e minuziosa di un territorio che diventa miniera e poi paese e che nel tempo si trasforma e si rinnova lasciando tracce documentarie che talora suppliscono la memoria collettiva. La miniera di Bacu Abis di cui si parla è situata nella zona carbonifera del Sulcis e rappresenta un modo ‘maligno’ di porre il centro in periferia perché  la miniera è allo stesso tempo una forma di vita e di morte. Paola ne racconta la complessità e la biografia corale; un chiaro esempio di scrittura pubblica per dare senso ai luoghi.

3. Il testo a due firme di Nicolò Atzori e Francesca Uleri è la presentazione pubblica – avvenuta nel novembre del 2024 – alla gente del paese di un progetto di sviluppo locale [11] di Meana Sardo. Attraverso linguaggi di tradizioni conoscitive diverse, quello dell’antropologia (Atzori) e quello della sociologia (Uleri), viene in evidenza la ricchezza di possibilità che le discipline di ricerca possono offrire al territorio per una lettura propositiva e confluente verso un fine comune. Un dialogo con la comunità e tra discipline. In questo scenario si collocava già un contributo del CIP n.70 (vedi anche https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/tra-declino-e-rinascita-i-vigneti-eroici-a-meana-sardo/)

4. Michela Buonvino e Luciana Petrocelli affrontano in modo teorico ma sulla base della loro esperienza il tema della partecipazione, nel paese molisano di Castel del Giudice, come processo di rigenerazione delle aree interne. Le autrici cercano di definirne le condizioni e i livelli per sottrarre questo concetto alla genericità e delinearne i delicati processi della creazione di comunità e di sviluppo sostenibile come momenti in cui è necessario «mettersi in ascolto della memoria …del mondo, ripristinare, senza fretta, come artigiani che tessono nuovi inizi con i fili della saggezza e della cura, per ricucire lo strappo tra ciò che creiamo e ciò che ereditiamo».

5. Il contributo di Fulvio Cozza, consapevole di osare pratiche conoscitive assai poco usate in ambito antropologico, propone un interessante esperimento on line. Si tratta di un sondaggio basato su statistiche qualitative fatto attraverso questionari anonimi. L’autore racconta punti di vista e orientamenti della comunità di San Casciano dei Bagni, che si è trovata coinvolta nelle recenti ed importanti scoperte archeologiche. La comunità si trova sospesa tra una memoria contadina mezzadrile degli anziani e una condizione giovanile che ne è fuori e che, nel disorientamento, cerca una diversa interpretazione del futuro. I dati evidenziano una comunità impegnata in una trasformazione in corso, sospesa tra la valorizzazione delle proprie radici e la costruzione di un’identità contemporanea più in linea con le tematiche stimolate dall’archeologia. La maggioranza dei commenti mette al centro le aspettative e gli auspici riguardanti il museo di San Casciano dei Bagni che ospiterà i Bronzi.

M. Crotti, A. De Rossi, M. P. Forsans, Studio Associato GSP, Centro culturale Lou Pourtoun a Miribrart, 201115. Foto L. Cantarella

Ostana da M. Crotti, A. De Rossi, M. P. Forsans, Studio Associato GSP, Centro culturale Lou Pourtoun a Miribrart, 2011-15 (ph. L. Cantarella)

6. Il testo su Ostana di Antonio De Rossi è un po’ speciale. È il racconto di una importante esperienza di sviluppo alpino, che abbiamo già segnalato [12],  ma è anche una storia di persone, di incontri, di occasioni non perdute, che si configura come un racconto polifonico bello come una fiaba: racconto nel quale anche chi ha scritto fa parte della storia, è una voce della polifonia.

7. Lo scritto di Gianpiero Lupatelli, collaboratore sistematico del CIP, ha qualcosa di particolare. Si tratta della seconda parte di una trilogia il cui obiettivo è fare il punto sulla storia recente della aree interne, mostrando cosa è effettivamente successo, cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale in questi anni. Ci aiuta a non ricominciare sempre da capo e a sentire questo campo come assestato e non inventato. È il suo un lavoro davvero utile, che ha giustamente come forte riferimento la SNAI e la sua esperienza altalenante e precaria, ma comunque capace di costituire una piattaforma nell’ambito delle istituzioni e delle possibili scelte di governo.

8. Giulia Panfili  presenta una recensione del libro Il risveglio del drago (Donzelli 2024) di Vito Teti su Cavallerizzo (comune di Cerzeto, alle pendici del Monte Sant’Elia). Si tratta di un paese semimontano calabrese franato, abbandonato e non più riabitato. La conseguenza è stata la nascita a valle di una nuova Cavallerizzo. L’autrice segnala alcuni passaggi particolarmente significativi come la cronistoria della notte della frana la cui descrizione meticolosa, piena di elementi mitici, religiosi, onirici,  ha qualcosa che si avvicina al realismo magico. 

«Il drago ha lanciato il suo urlo terrificante, la terra si è sollevata, l’acqua ha cercato una via d’uscita. Il drago, però, non ha vinto del tutto. San Giorgio e il suo cavallo, la talpa che era di guardia e i suoi aiutanti non hanno potuto salvare il paese, ma hanno messo in salvo gli abitanti. Non ci sono stati morti, nemmeno feriti». 

Quasi una mitologia. Viene sottolineata la tesi che Vito Teti sostiene e cioè che «un paese che muore, in un ambito locale e senza incidere in ampi contesti, abbia qualcosa da dirci anche sull’Antropocene, sullo spopolamento, sulla possibile fine di luoghi, possa insegnarci qualcosa su come affrontare il rischio, anche sul piano emotivo, cognitivo, pratico della morte del nostro mondo».

È questo un tema che sento quasi sempre presente nella riflessione sulle piccole comunità in bilico, dove solo il metodo della ricerca sulla storia orale e locale mostra possibilità e risposte inedite quasi senza fine. Esperienze attive e forti come quelle di Ostana, storie plurali, profonde e imprevedibili come quelle di Bacu Abis, sono ‘repertori’ che aiutano a comprendere pluralità e diversità di orizzonti ma sono anche esempi del possibile modo di orientarsi nell’Antropocene, e di affrontare ‘il rischio della morte’.

9. Claudio Rosati è autore di una recensione al volume Fare nuove le cose (Mimesis, 2024). Il libro è dedicato a una museografia della narrazione e dell’ascolto. Una modalità che può essere connessa alla idea del pensare il museo come fattore e agente di sviluppo locale. Scrive Rosati:

«La narrazione è il portato di quella trasformazione del museo che possiamo far risalire agli anni ’70 del Novecento….. “Stare sul bordo”, non invadere, implica la disposizione a un’attenzione complice; l’ascolto verso l’altro si fa generativo, fibrillazione di quel sentire profondo che elimina ogni tratto di indifferenza e superficialità».

In effetti narrazione e ascolto sono  fattori preziosi per un museo che può diventare esperienza di partecipazione e di costruzione di comunità oltre che possibilità di riabitare e di restare.

10. Mario Spiganti condivide un frammento della sua lunga ricerca su Carda, una piccola frazione del comune di Castel Focognano nell’Appennino casentinese. Qui l’autore ha compiuto un lavoro sistematico sulla storia, sulla memoria e sull’identità attuale di questa piccola comunità.

Sono «due soldati Paolo Italiani e Mosè Bianchi, entrambi di Carda in Casentino, che combatterono nella guerra coloniale Italo Turca finalizzata alla conquista di Cirenaica e Tripolitania, detta guerra di Libia»  che raccontano a Spiganti, i fatti storici da loro vissuti visti dall’interno della memoria di una comunità. Questi racconti non somigliano a quel che si trova nei libri di storia e in un certo senso mostrano che il passato può essere imprevedibile [13] .

Cavallerizzo

Cavallerizzo

Come dicevo per Cavallerizzo, per Bacu Abis e Ostana, e così Carda, i piccoli paesi sono una prova epistemologica che dimostra l’inefficacia delle grandi teorie che arrogantemente credono di poter definire il mondo dentro concetti generali. Lo studio dei piccoli paesi rende evidente la centralità dello sguardo da vicino con la straordinaria capacità di mostrare tutte le variazioni. La visione del bosco nel suo insieme non è certo la conoscenza di ogni singolo albero che lo compone: la centralità di ogni singolo albero è fondamentale per conoscere il bosco attraverso una conoscenza minuziosa quasi infinita. È su questi piccoli mondi che si impiantano e si sperimentano teorie adeguate.

11. ACQUA, SASSI E GELSI di Angela Zolli è – già dal titolo – un testo che racconta il paesaggio e ne coglie la densità umana, naturalistica e poetica. La frazione di cui parla, Carpacco, comune di Dignano , è da tempo oggetto di  ricerche, pubblicazioni, battaglie ambientali. In tempi recenti  ha avuto un leggero recupero demografico  e  tende a caratterizzarsi come luogo dinamico, attivo, periferia che si fa centro. Il  movimento in cui confluiscono vari fattori, dalla archeologia industriale alla tutela fluviale, dalle mappe di comunità al  turismo ‘lento’, ha costruito una Associazione in cui con le varie attività e esperienze intende  collocarsi nello spazio che la Convenzione di Faro ha definito come comunità di eredità. Appare come un caso virtuoso di attività integrate tra settori diversi del patrimonio. Nel testo di Angela Zolli un gran rilievo hanno i toponimi  e le denominazioni locali del paesaggio. Una grande varietà: ricordare i nomi dei luoghi è un segno reale di memoria collettiva. Oggi molti paesaggi hanno perso il nome e sono diventati spazi senza memoria.

Vincenzo Padiglione

Vincenzo Padiglione

Il Padiglione barocco

A fine novembre è stato presentato all’Università Milano-Bicocca il libro che porta il titolo Il Padiglione del barocco povero. Si tratta di un volume che raccoglie, in disordine alfabetico, scritti di omaggio per Vincenzo Padiglione (Palermo, Ed. Museo Pasqualino, 2023). Fin dal titolo si presenta come un libro ironico e particolare. Da quella presentazione abbiamo tratto tre interventi con forte sintesi di sguardo sul lavoro antropologico-comunicativo di Vincenzo Padiglione. I temi trattati riguardano gli oggetti e il rapporto di comunicazione con essi ed attraverso di essi. Ma anche le installazioni come strumento di conoscenza etnografica, i musei come luoghi aperti alla comunicazione innovativa, il collezionismo come forma di resistenza. Il primo intervento è di Ivan Bargna: 

«Padiglione non si limita a mutuare una tecnica artistica portandola sul terreno antropologico ma la torce e la stressa alla ricerca costante e mai conclusa di un equilibrio a geometria variabile fra risonanza e meraviglia (Greenblatt 1995), fra lo stupore che ci fa restare senza parole, assorbendoci nel microcosmo dell’opera e l’effetto eco che genera interconnessioni imprevedibili che ci portano fuori e lontano. Assemblando in modi situazionali e provvisori l’eterogeneo e il molteplice l’installazione pratica c incontra sul terreno della materialità molte delle nozioni con cui gli antropologi hanno cercato di pensare contemporaneo come quelle di ‘bricolage’, ‘meticciato’, ‘creolizzazione’, ‘connessione’, ‘culturale’, ‘panorama’. E contribuisce a spostare la conversazione un po’ più in là».

Silvia Mascheroni:

«Gli oggetti raccontano …Raccontano di luoghi non più abitati e di nuovi spazi, di paesaggi interiori che pensavamo smarriti e che, grazie a loro, risuonano. Sono oggetti-orma, che accompagnano le nostre migrazioni esistenziali, esprimono quel sapere antropologico che è la loro essenza. Manifestano una forza evocativa, offrono un’infinità di combinazioni e soluzioni. Diventano portatori di senso, innescando un susseguirsi di rimandi, segnalibri della vita di ognuno, multicolore e complessa, instabile e sfaccettata».

Paolo Caviglione:

«Gli oggetti scartati non smettono di parlare. Diventano parte del nostro paesaggio materiale e spesso, con un cambio di prospettiva, riacquistano valore. Nella società postmoderna, caratterizzata da un surplus di beni, il gesto di riscoprire un oggetto dimenticato e attribuirgli una nuova vita è un atto di resistenza al consumo superficiale e alla perdita di memoria». 

hqdefaultUn insieme 

La filosofia del Centro in periferia, è accogliere cose molto disparate e nel farlo metterle in contatto. Ci sono molti tracciati negli scritti cui ho fatto riferimento che legano testi apparentemente senza connessione. Uno di questi tracciati riguarda il collegamento tra le generazioni. Più della metà di coloro che hanno scritto sono giovani, una buona parte sono anziani ma non pensionati, e una minoranza sono i pensionati. Mi sembra uno spettro promettente per il CIP e mi sento appagato dal fatto che la maggior parte dei giovani sia legata a temi antropologici.

Un altro ‘fil rouge’ che traversa quasi tutti gli scritti è il tema della ‘patrimonializzazione’ e della ‘musealizzazione’. Un altro tema, che pone problemi gnoseologici, riguarda la natura della riflessione sui luoghi, sui territori, sulla coscienza di luogo. Più ci si addentra nella memoria, nei documenti, nelle vicende di piccole comunità e più l’Italia dei censimenti, del senso comune, delle statistiche che i politici usano a seconda della loro convenienza, si scolora, quasi scompare. Le storie locali non sono deducibili attraverso generalizzazioni grossolane. Riaprono costantemente alla storia di un ‘passato imprevedibile’ . Testi complessi come quello di Atzeni su Bacu Abis (che potrebbe diventare un libro) e quello di Teti su Cavallerizzo, così come gli scritti di Spiganti su Carda si somigliano proprio perché la loro ‘verità’ ha bisogno di essere raccontata attraverso tante minute storie di persone e di eventi circostanziali. Storie che hanno senso localmente e la cui diversità  è molto lontana dallo stereotipo nazionale. Faccio riferimento all’ immagine degli alberi di cui dicevo prima per ribadire che il bosco nel suo insieme non può farci dedurre l’identità di ogni singolo albero.

4097244Leggendo il libro di Teti su Cavallerizzo ho pensato a un altro libro che mi ha particolarmente colpito. Il titolo è Zortéa. Biografia di una comunità di Testimoni di Geova trentini. Valle del Vanoi, 1919-1945 di Diego Leoni [14].  Si tratta della lunga e travagliata storia di un gruppo di testimoni di Geova la cui vicenda coincide con la storia di un piccolo paese montuoso del Trentino. Il gruppo viene perseguitato perché sentito diverso pur condividendo con i paesi vicini il dramma dell’emigrazione, della povertà, della malattia, della distanza. Visti da Zortea il fascismo, la guerra, il passaggio del fronte, è tutta un’altra cosa e dimostra che la storia non può essere vista con criteri politici generali. Questo libro di lunga consuetudine con i testimoni, di ricerca di tutte le fonti possibili, di passione di scoperta di cose densamente umane anche se minuscole, costruisce un biografia della comunità, come è anche nelle esplicite finalità dei testi di Teti, di Atzeni e di Spiganti.

Un nuovo anno

Natale è passato. E siamo già nel nuovo anno. Sono così tanti i desideri per il 2025 che non mi riesce nemmeno di elencarli.

Il buio della democrazia è visibile.

La destra è ampiamente popolare, la sinistra è impopolare.

Cosa impareremo?

Chi si assumerà le proprie responsabilità?

Chi dirà le parole indispensabili?

Chi farà le cose necessarie?

Chi tesserà tessuti resistenti di democrazia?

Avevo annotato questo messaggio whatsapp di Paola Atzeni, arrivatomi dopo l’elezione di Trump, volevo farlo oggetto di una riflessione in questo editoriale, ma mi rendo conto che a molte di queste domande non ho una risposta. Ma cercherò di trovarla. Per ora l’implicazione che sento più forte e rivolta al lettore leggendo questi quesiti è: “E tu cosa stai facendo? dove è il confine tra indifferenza e pensiero critico esercitato da dietro la finestra? È una delle mie autointerrogazioni costanti.

Questo numero di Dialoghi Mediterranei non è uscito regolarmente il 1° gennaio puntuale come sempre a causa del gravissimo lutto che ha colpito il suo Direttore Antonino Cusumano. Ci uniamo con stima e amicizia al suo cordoglio. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] Gaza: assistenza sanitaria di base alla popolazione della Striscia | EMERGENCY
[2] Roma, Fazi, 2007
[3] Claude Lévi Strausss, Babbo Natale giustiziato, Palermo, Sellerio, 2002 (prima uscita 1952)
[4] Il dono di Natale – Pagina 4 – Liber Liber
[5] Novelle, Firenze, Vallecchi, 1976
[6] https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/rispetto-parola-treccani#:
[7] Dizionario Latino Olivetti- Latino-Italiano
[8] Pietro Clemente, La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta , in L’ospite ingrato, II, 1999, poi ripubblicato in Id. 11Agosto 2022  link La postura del ricordanteMemorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta Pietro Clemente – L’ospite ingrato
[9] Da Mattia Ferrari , Salvato dai migranti, Edizioni EDB, Bologna,  2024
[10] La vignetta è gentilmente concessa dall’autore, Biffe, nome d’arte di Vitaliano Fantoni, grafico, illustratore e vignettista
[11] Realizzato da Associazione Culturale Terras. Laboratorio per lo sviluppo locale
[12] La rinascita del villaeggio di Ostana, un caso di rigenerazione impossibile, in “Dialoghi Mediterranei”  n.39, settembre 2019
[13] P. Clemente, Il passato imprevedibile. In Prima persona, n.2, 1999.
[14] Ed. La Grafica, Trento, 2024, Diego Leoni è uno storico col quale ho condiviso diversi anni fa l’impegno nella rivista Quaderni di lavoro, e nell’Archivio della scrittura popolare di Rovereto:https://900trentino.museostorico.it/Archivio-della-Scrittura-Popolare.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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