di Giacomo Cuttone
Nella luce io colgo il movimento; ed è lì che tento una sintesi.
Carmelo Cappello
Ho conosciuto Filippo Scimeca negli anni ’70, lui era il giovane assistente di Carmelo Cappello, titolare della cattedra di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, io frequentavo il Corso di Pittura diretto da Michele Dixitdomino (il suo assistente era Totò Bonanno). Il Corso di Scultura si trovava al piano terra del Palazzo Fernandez, gli altri corsi nel Palazzo Molinelli di S. Rosalia, via Papireto praticamente separava – e separa ancora – in due l’Accademia (oggi vengono utilizzati anche gli spazi dei Cantieri Culturali della Zisa, della chiesa di Sant’Alessandro e dell’ex mulino in Corso dei Mille); erano continue le incursioni, spesso andavamo a trovare i colleghi dall’altra parte e viceversa e, sovente, ci veniva a trovare il magrissimo e con il baffo “saraceno” (difficile immaginarlo senza) Scimeca, il quale s’intratteneva a dialogare con tutti con l’ironia frammista alla saggezza tipicamente siciliana che lo ha sempre contraddistinto.
Ho rincontrato Filippo da Baucina nel 2010, in occasione dell’organizzazione della mostra “Santo Vassallo e i suoi amici di Brera” a Mazara del Vallo, ormai Docente di Scultura presso la più prestigiosa Accademia d’Italia, quella di Brera, prossimo al congedo; non più magrissimo ma con lo stesso baffo “saraceno”, ironia e saggezza siciliane e, da quel momento fino ad oggi, grazie a tradizionali e nuovi mezzi d’incontro e/o comunicazione, i nostri contatti non si sono più interrotti.
Lungo e significativo il suo excursus artistico, “appesantito” da presenze in mostre e rassegne importanti (Palazzo della Permanente di Milano) e dalla esecuzione di notevoli monumenti pubblici.
Dalle realizzazioni fortemente iconiche del “Monumento ai Caduti“di Milena (1981)e a “Santa Fortunata”di Baucina (1990) e dei “Bassorilievi della Chiesa del Calvario”di Baucina (1993), si passa alle “forme solidamente costruite che dialogano con lo spazio tramite straordinarie quanto inattese aperture” (Giusi Diana) de “La famiglia” e del “Monumento Mater Semper”di Borgetto (1988); “misteriose ieratichefigure , tra arcaico e moderno” legate ai “temi della coppia e della maternità” (Toni Toniato). Il “vuoto”, qui, ma anche in “Lo spazio oltre la forma” e “Forma e spazio” (1975 e 1976), raggiunge lo stesso peso del “pieno” che, a sua volta, diventa più leggero del “vuoto” stesso.
Come non ricordare, anche nei temi, la lezione di uno dei più grandi scultori del ‘900, Henry Moore?
Moore, infatti, “scavava” nella materia delle cavità che prendevano la stessa importanza delle masse e via via si allargavano fino a separare di netto i corpi, fino a giungere, nella sua fase più matura, alla complementarità tra forma e spazio.
Da queste solide e, al contempo, leggere forme giungiamo alle ricerche “spazialiste” e “costruttiviste”delle opere, sia scultoree che grafico-pittoriche, dello Scimeca di fine secolo scorso e dell’inizio del Terzo Millennio; ricerche, queste, che ci rimandano all’esperienza della cosiddetta “Avanguardia Russa” ma, anche, alla poetica dello scultore ragusano, suo maestro, Carmelo Cappello (eclissi, linee dinamiche, sfere e strutture lunari protese verso una nuova realtà fondata sulla forma – linea – spazio- luce) o, ancora, alle ricerche sul colore dello svizzero Johannes Itten che, chiamato da Walter Gropius al Bauhaus, insegnava a liberare l’energia creativa e a indirizzarla verso la meta di una forma energetica e simbolica da esprimere in un’immagine o in un oggetto.
Le sue non sono altro che “fluttuazioni luminose” generate dal “dinamismo aereo della linea”(rimandi al Futurismo) “dentro”uno spazio cosmico (“Da uno spazio all’altro” del 1988, “E la luce fu” del 1990). Lo spazio“scimechiano” è diviso, avvolto, accarezzato, modellato; l’artista inventa spazi e curve, blocca il tempo in ellissi, linee dinamiche, svuota i volumi; cerca, in tutti i modi, di possedere lo spazio modellandolo, cogliendone scatti, guizzi, magie e dando forme geometriche ai suoi sogni.
Un’altra costante della sua ricerca è il tempo (“Il tempo”, “Il divenire del tempo” e “Il respiro del tempo” del 2002); non è un caso che fra le sue ultime monografie, ben tre (“Il divenire del tempo” del 1994, “Forma-Spazio-Tempo” del 2007 e “Niente è per sempre/Il mio tempo” del 2012) ne fanno più che un semplice riferimento.
“Il tempo” – ci dice Scimeca – “altro non è che la determinazione del movimento” e “la percezione modifica i valori di riferimento a seconda dello spazio e del tempo, che la forma dipende dallo spazio e lo spazio è schiavo del tempo”. Già nel 1989, Francesco Carbone, parlando della ricerca di Scimeca, ebbe a scrivere che la sua “diversa concezione dello spazio, tende conseguentemente ad assumere un altrettanto originale rapporto con gli altri elementi che costituiscono il tessuto connettivo del suo lavoro, cioè quelli che si riferiscono al tempo, alla geometria, alla percezione, al movimento, alla luce, al colore, alla struttura”.
Scimeca è un uomo e un artista solare e questa sua solarità– nonostante viva a Milano da tanti anni – testimonia il suo mai reciso rapporto con la sua terra (“La mia Conca d’oro e “Il mio mare di Kartibubbo” del 2005, “La luce della mia Trinacria” del 2006); le forme ed i colori delle sue opere continuano a nutrirsi della cultura mediterranea.