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Alla Conca d’oro: una poesia inedita di Pitrè alla sua Palermo

G. Pitrè da G. Vuillier, La Sicilia. Impressioni illustrate,  Milano, Treves, 1897.

G. Pitrè (da G. Vuillier, La Sicilia. Impressioni illustrate, Milano, Treves, 1897)

 di Luigi Lombardo 

Il 1916 fu un anno esiziale per la cultura siciliana. Tra il 17 marzo e il 16 aprile di quell’anno morivano in successione Salvatore Salomone Marino, Gioacchino Di Marzo e Giuseppe Pitrè. La scomparsa di questa gloriosa triade indusse negli animi degli intellettuali siciliani un senso di scoramento, che era vera angoscia se pensiamo che eravamo in piena Prima Guerra mondiale. Tale terribile coincidenza indusse il filosofo Giovanni Gentile a scrivere il Il tramonto della cultura siciliana. Morivano, ma non lasciavano quasi nulla, se non le loro preziose opere, ma, quanto ai contemporanei, sembravano ormai dei sopravvissuti. Scrive Gentile: «amati, venerati, come tutte le vecchie persone di famiglia, ancorché rimaste legate alle idee e ai sentimenti d’un tempo ormai oltrepassato; ma senza seguito, senza collaboratori, senza consensi».

Mezzo secolo dopo, nel 1966 il clima era cambiato. Gli studi di folklore erano ripresi nel dopoguerra. Si riscopriva in particolare il Pitrè, e nell’occasione del 50° anniversario della scomparsa si moltiplicarono le manifestazioni e i convegni. Nessuno volle perdere un’occasione così ghiotta quale quella di studiare Giuseppe Pitrè su basi nuove e inedite. Lo fece anche Antonino Uccello dalla lontana Palazzolo Acreide dove viveva con la famiglia, in attesa di fondare la Casa Museo. Lo fece da par suo, con originalità e sapienza: diede infatti notizia dell’esistenza di un epistolario tra lo studioso netino Mattia Di Martino e il folklorista palermitano, un denso carteggio conservato nella Biblioteca comunale di Noto.

Pagina manoscritta della lettera di Pitrè

Pagina manoscritta della lettera di Pitrè

In data 8 Aprile 1966 Uccello pubblicò sulle pagine de “L’Ora” di Palermo un articolo in cui non solo dava la notizia, ma pubblicava estratti di alcune lettere scritte dal Pitrè al Di Martino. Una in particolare colpiva per la durezza che Pitrè usava contro i suoi nemici palermitani: la lettera datata 22 novembre 1866 – la prima, forse, da lui scritta all’amico netino –    contiene una poesia assolutamente inedita che lo studioso indirizzò a Di Martino con la consegna del silenzio.

La poesia si intitola “Conca d’oro”:

«Non mi chiamate più la Conca d’oro
se non volete darmi la berlina,
poi che coprirmi volle di disdoro
gente affamata di sangue e di rapina
una gentaglia che, discesa in coro,
venne a portarmi il lutto e la ruina.
No ch’io non sono più d’oro la conca,
sono di ladri fatta una spelonca;
non sono più né conca né conchiglia,
sono un sepolcro pieno di mondiglia;
son diventata una vera baracca:
chiamatemi la conca della cacca». 

Perché tanta durezza? con chi l’aveva il grande studioso? nomi non ne fa, ma in una lettera del 1869 scrive all’amico Mattia:

«Io non ho voluto accettare nessun posto sotto un governo d’Iloti e di vandali come questo. N. [?] m’ha fatto promettere il posto che avevo, e una promozione vantaggiosissima in Palermo stesso a mio piacimento, testimoni l’Acri, il Di Giovanni e l’Amico. Io rifiuto il beneficio che mi venga da un brigante e da un assassino!».
Mattia Di Martino

Mattia Di Martino

Lettera davvero dura, che certamente poté avere diffusione solo in altro contesto ambientale, quale era la lontana Noto. Certo, siamo in un momento critico della storia dell’Isola appena “liberata”. Siamo nel 1866, l’anno della rivolta di Palermo, detta del “Sette e mezzo” (perché durò sette giorni e mezzo), scoppiata a settembre di quell’anno e che causò arresti e l’uccisione di 26 Carabinieri (non si conosce il numero di morti tra i rivoltosi). Il banditismo è all’apice e il governo mostra la incapacità tipica di chi guarda il mondo dall’alto del privilegio. Pitrè vedeva farsi strada individui mediocri, ruffiani, vecchi sostenitori del precedente regime. Aveva appena 24 anni e l’esuberanza e l’irruenza della sua giovane età trapelano nelle prime lettere all’amico. Uno sfogo continuo il suo, una valvola di scarico di tensioni accumulate, mentre cominciava a raccogliere freneticamente la voce del suo amato popolo siciliano.

Quando i rapporti col Di Martino da formali si faranno fraterni., i due si daranno del tu e il Pitrè chiamerà  “carissimo e dolcissimo” l’amico, al quale fa arrivare consigli, spesso severi, quasi a farlo uscire da quello stato col quale egli stesso si ritrovava pesantemente a convivere. Straordinaria la lettera del 19 febbraio 1867 con cui, consolando Mattia, amareggiato per la fatica che fa ad insegnare a causa della burocrazia e dei programmi scolastici, scrive:

  «Mi rincresce davvero degli studi disameni a’ quali la condannano i regolamenti universitari e liceali. Ella patirà al doppio nel passaggio di queste forche caudine; ed io compiango lei, che deve imbrattarsi,nolens volens, in questo untume enciclopedico, che è la peste peggiore che si possa immaginare. Questo prurito governativo di voler nel giovane la memoria del Mirandola, la sapienza del Borghesi, la dottrina del Leopardi, la erudizione del Visconti e via discorrendo è un’asinaggine che non ha limite    né nome nel vasto mare delle asinerie. Ella m’intende amico: e si persuada che queste cose non le dico solo in confidenza, ma le spiattellai pure e coraggiosamente e francamente ed apertamente nella “Civiltà” [Civiltà italiana]. Allora crederò al progresso, quando l’istruzione sia libera, com’è negli altri regni».

E ancora:

«Codesti maledetti esami sono la piaga della povera gioventù; mentre non decidono mai del suo   merito intrinseco: si sfasciano, si masturbano gl’intelletti più belli per l’infamia de’ programmi e di chi li fa: si misurano le cervella più immensurabili colle teste di chi difetta di due dita di battesimo, e poi si pretende che tutti diventassimo enciclopedici, poliglotti. Ho visto asini calzati e vestiti subire la prova degli esami in modo invidiabile, ed ingegni felicissimi rimandati alle prossimiori sessioni: solite conferme che gli esami non possono costituire base di fermo giudizio».

É un momentaccio nella vita del Pitrè: la frenesia della raccolta del materiale etnografico, la passione per gli studi e la cultura popolare siciliana, si scontrano col duro lavoro di medico, messo a dura prova dal colera scoppiato nel 1865 e che nel 1867 aveva ripreso vigore:

«Di siffatta vita – scrive all’amico io sono stanco davvero; e se Dio non me la manderà buona non so come andrà a finire. Possibile che all’età mia debba essere uno schiavo da catena!».

La pagina di sfogo sul colera e il modo di approcciarlo da parte delle autorità sembra scritta oggi:

«La è come la dici: e nessuna terra d’Italia è tanto sciagurata quanto questa nostra, dove l’ira di Dio  pare siasi scatenata tremenda [...]. E vedi mentre nelle altre parti peninsulari il colera si affaccia    appena, qui rimane ospite molesto e ci danneggia [...]. Meglio morire che continuare così pieni di   miserie, di afflizioni, di dolori, di affanni!».

Un fuoco sacro lo divora, in questo periodo, un senso di dovere civico lo spinge alla pubblicazione di un materiale immenso e sconosciuto, un fuoco che lo consuma e dal quale risorge come Fenice. L’amicizia con Mattia Di Martino è ormai forte e lo studioso si può permettere di redarguire l’amico netino che, preso da manie letterarie da perfetto provinciale, vuole pubblicare la versione di novelle popolari svedesi, e non sa cosa fare:

«Vuoi il mio parere intorno alla versione delle novelle svedesi; ed io te la dico: se non hai altri lavori da fare, continuala pure, tanto qualche cosa sarà. Ma io, per te, ho sempre una fissazione: che tu consumi il tuo tempo più per le cose di fuori che per le cose di dentro, più per cenci altrui che per le ricchezze tue, più per dar a conoscere le credenze e le superstizioni da altri pubblicate (lavoro abbastanza modesto, in vero) che per mettere primo in evidenza cose originali, curiose, bizzarre, importanti tutte per la psicologia etnica e l’antropologia. Se io fossi stato te, in 10 anni avrei messo sottosopra tutta Noto, e cavatone tesori che tu conosci, ma che non hai avuto mai (perdonami la crudele franchezza) l’abnegazione di tirar fuori, di mostrare a un pubblico di dotti [...]. Tu hai lavorato e speso pel Natale di Danimarca, pel S. Giovanni di Barcellona, pel Giovanni Villani ecc. riportandone più o meno ingratitudine [...]. Credi tu che in Europa (bada in Europa!) sarebbe meglio apprezzata una tua versione che non una raccolta originale di fatti nuovi per il folklore? Certe lingue i dotti devono conoscerle, ma certi fatti, se non si pubblicano, non c’è verso di conoscerli: ecco tutto» [lettera del 22 luglio 1884].

Concludiamo con le parole di Uccello, nel citato articolo del 1966:

«Lo scienziato ha certo dei limiti, che furono soprattutto anche dei tempi in cui operò, ma la sua istanza è fondamentale. Passione civile e coscienza critica, sorretti da scienza e da alto senso morale, illuminarono la sua opera e guidano oggi la nostra. É questo il solo modo di ricordare un uomo costituzionalmente semplice, antiaccademico, alieno da ogni pompa e da ogni vuota celebrazione».
 Antonino Uccello

Antonino Uccello

Gli intellettuali, gli uomini di cultura siciliani cinquanta anni fa ricordarono Giuseppe Pitrè ciascuno a suo modo. Uccello lo fece così, quasi vedesse nel Maestro proiettata la sua stessa vita. Ma quell’anno gli intellettuali palermitani, e persino il compassato mondo accademico, non se ne stettero con le mani in mano. Proprio nel 1966 fu indetto il Simposio di Studio sulle figure e le opere di Salomone Marino e Giuseppe Pitrè, convegno indetto dall’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, nata l’anno prima: nessuna celebrazione, ma studi seri che produrranno i loro frutti negli anni successivi. Dal centro alla periferia l’opera di Pitrè fu consultata e utilizzata da una schiera di valenti ricercatori, che in solitario o organicamente legati al mondo universitario rilessero (e continuano a rileggere) la Biblioteca delle tradizioni popolari, come si fa con un testo sacro, la cui sola presenza in uno scaffale di libreria infonde certezze e sicurezza, come un talismano magico. A fronte di quell’anniversario di cinquant’anni fa, stride e si fa ancora più amaro il silenzio in cui sta passando il centenario della morte del grande maestro palermitano, padre dell’antropologia italiana.

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee.

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