di Sara Raimondi
In questo articolo si vogliono esporre una serie di conclusioni raggiunte dopo un periodo di campo di due mesi all’interno di una casa funeraria nel modenese. In particolare, il focus di queste pagine sarà il ruolo che hanno nuove tecniche di preparazione dei cadaveri, importate dal mondo anglosassone, in relazione alla percezione della morte che si è sviluppata nel corso del Novecento e che continua tuttora. Le tecniche di trattamento delle salme che presenterò sono state acquisite sul campo attraverso l‘osservazione delle attività dell’agenzia funebre e seguendo un corso di tanatoestetica e tanatoprassi tenuto dalla Scuola Superiore per la Formazione Funeraria.
La morte è un fatto, una parte dell’esistenza di ogni essere vivente. Già dagli albori della specie umana gli individui hanno cercato una spiegazione, un senso, a quel momento in cui gli occhi di un membro della comunità si spegnevano per sempre, cessando ogni azione e pensiero che lo aveva accompagnato nel corso della sua vita. E, se questo accadimento spinge a riflettere sull’esistenza o meno di un altrove invisibile, se porta a immaginare uno spazio ideale in cui i defunti continuano a vivere, è anche vero che lascia sempre dietro di sé un corpo concreto, un cadavere che in breve tempo diventerà carne putrescente. Cosa fare di questo cadavere? E soprattutto cos’è davvero questo corpo inerte, una volta pieno di vita?
Ogni essere umano, dal momento del decesso, non diventa nell’immediato un oggetto, bruta carne da gettare, al contrario continua ad essere denso di significati e richiede quindi numerose attenzioni. I cadaveri sono «resti di umanità» (Favole, 2003: 22). È importante tenere presente che il corpo porta con sè tre livelli di significati imprescindibili. Innanzitutto, le membra di un individuo sono ancora sede di quell’insieme di esperienze uniche e irripetibili che hanno modellato il corpo nel corso della sua esistenza. Inoltre, non sono solo gli avvenimenti che passivamente viviamo a formarci, bensì – come afferma Le Breton – noi plasmiamo il nostro corpo attraverso scelte attive e personalissime come una determinata dieta o attraverso ore di allenamento in palestra e lo rendiamo il nostro alter-ego, perché quello che conta è che quella corporeità rappresenti proprio noi (Le Breton, 2007:179). Il corpo è trasformato quotidianamente dal legittimo proprietario in modo che possa rispecchiarlo: nei vestiti con cui lo copre, nel colore e nel taglio di capelli che sceglie, nelle pose che assume.
Secondariamente, va analizzato l’avvenuto decesso come anche improvviso collasso di una costruzione e produzione della realtà attraverso quel medesimo corpo. Per farlo è fondamentale lo straordinario lavoro di Csordas, che ha sviluppato il concetto di embodiment e che ha definito il corpo come «the existential ground of culture» (Csordas, 1990: 5). La realtà stessa, nella sua esistenza organizzata, è tale solo in funzione di un corpo che la percepisce: ognuno ordina il mondo circostante dopo averlo saggiato e identifica la sua esistenza proprio sulla base di ciò che vive concretamente attraverso i cinque sensi. Ma quando questi sensi cessano di costruire la realtà circostante, essa scompare nella misura in cui era specificatamente pensata da quell’individuo.
Infine il corpo è lo spazio fisico in cui la società lascia il segno. Come afferma Marcel Mauss ogni corpo è forgiato attraverso delle tecniche, ossia «i modi in cui gli uomini, nelle diverse società, si servono uniformandosi alla tradizione, del loro corpo» (Mauss, 1997:368). Sarebbe un errore pensare che la solo percezione sensoriale influenzi la costruzione della realtà, ignorando come anche la realtà modelli il corpo. Esso è appunto frutto della costante antropo-poiesi che ha subito nel corso della sua vita da parte della società che ne ha plasmato l’habitus, cioè – come afferma Bourdieu – una serie di strutture strutturanti che definiscono le attività sul e attraverso il corpo (Bourdieu, 2003:206-207).
Solo dopo aver presentato questi tre importanti ruoli che il corpo svolge all’interno della vita di ogni persona si può immaginare il caos e l’inquietudine che genera la presenza di un cadavere. Esso è la fine di quella particolarissima vita individuale, la fine della costruzione di una realtà ed è anche la distruzione di ogni attività antropo-poietica che la società aveva impresso su quel corpo, giacché finirà col decomporsi. Ma parlare di inquietudine di fronte a un cadavere non è sufficiente. Ricordiamo infatti che, nonostante gli sforzi di numerosi intellettuali, questo è ancora un momento storico in cui, a livello popolare, prevale la proibizione della morte. Ossia – come ha affermato Philippe Ariès – «La morte, un tempo così presente, tanto era familiare, si cancella e scompare. Diventa oggetto di vergogna e di divieto» (Ariès, 1978: 68). Prima di lui, era stato Gorer a rilevare per primo questo fatto nel saggio The pornography of death del 1955. La morte, il morire e ogni riferimento a questo momento è quasi oggetto di tabù nella società occidentale: ammoniamo i nostri anziani quando solo tratteggiano la possibilità che ci lasceranno presto, zittiamo coloro che vogliono comunicare le ultime volontà in caso di incidente e fatichiamo a relazionarci con i moribondi. Questo ha – come vedremo – un notevole peso sulle pratiche contemporanee di gestione del cadavere.
Le pratiche sul cadavere: la tanatoprassi
Ma cosa accade fattivamente al momento del decesso di un individuo? Ebbene la società si trova ad affrontare un enorme trauma che deve essere obbligato- riamente gestito ritualmente. Infatti, le moderne scoperte scientifiche in campo medico non sono più utili a dare un senso alla morte, anzi. Tendiamo sempre più ad illuderci che la morte sia sempre lontana, che il nostro corpo possa reagire ad ogni malattia batterica, virus ed incidente. Tant’è che – come ricorda Bauman – tendiamo a chiedere «di che cosa è morto?» (Bauman, 1995:182), come se la morte non fosse parte della vita, ma un evento causato da fattori esterni. Troppo ingenuamente abbiamo sostituito, nel corso dei decenni, i costrutti culturali legati anche all’irrazionale con la scienza che spiega con precisione cosa accade al nostro corpo dalla nascita al trapasso. Così facendo, nel momento in cui la medicina afferma che nulla si può più fare, non sappiamo come affrontare la Morte che agisce come non mai nelle nostre viscere, ci prende dove siamo più emotivi, irrazionali, illogici. Per usare le parole del filosofo Jankélévitch (2009:38), «La morte è fuori dalle categorie», è difficile gestirla con la fredda logica. Ecco perché la forza di un rito funebre per iniziare a superare il lutto è fondamentale, poiché fa riferimento a quel mondo irrazionale che fino all’ultimo si è tenuto in disparte, soffocato, poiché si crede che solo la ragione possa gestire ogni fatto della vita.
Durante il mio campo ho prediletto un approccio più ampio al rito che comprendesse non soltanto la cerimonia funebre. Ho messo in pratica i suggerimenti analitici di Marc Augé e Daniel Fabre, i quali propongono un ampliamento della categoria rituale e obbligano ad allargare il raggio d’osservazione dell’antropologo. I due studiosi, all’interno del saggio Da un rito all’altro, definiscono due tipi di rito: uno è legato al suo senso più forte e fa quindi riferimento alle ritualità in senso stretto, alle cerimonie di matrimonio, alle messe funebri e così via. Ma essi affermano che è necessaria una definizione di rito che possa abbracciare anche quelle azioni della vita quotidiana che apparentemente non sono riti, ma che nella loro ripetitività e nel loro significato sono effettivamente azioni rituali. Ecco perché la mia attenzione si è posata sulle pratiche attorno alla salma che si verificano dalla prima constatazione di morte di morte fino alla chiusura del feretro, ho osservato ciò che accade alle salme negli spazi dei soli addetti ai lavori, quella preparazione che i familiari non vedono.
Nello specifico ora descriverò le attività di tanatometamorfosi che vengono esercitate sul cadavere. Prima sono però necessarie delle premesse teoriche: tanatometamorfosi è un termine coniato da Francesco Remotti (2006:12), al fine di definire tutte quelle pratiche con cui viene trattato il cadavere per organizzare, addomesticare o ostacolare i naturali processi di decomposizione del corpo. Secondo l’usanza italiana, in particolare nel modenese dove si è svolta la mia ricerca, il corpo viene vestito con abiti più o meno nuovi, e posto nella cassa dove i familiari potranno darvi l’ultimo saluto. La maggioranza delle agenzie funebri ancora si limita a queste poche azioni, che non prevedono un reale e concreto miglioramento delle condizioni estetiche del defunto. Specialmente nei casi in cui il corpo si è irrigidito non in posizione supina o magari con la bocca spalancata, diventa molto complesso riuscire a inserirli nella bara dignitosamente.
Ecco perché negli ultimi decenni sono pervenute dal mondo anglosassone alcune tecniche adottate nella presentazione definitiva della salma. La prima tecnica è certamente quella più invasiva e per questo motivo ancora illegale in Italia, benché si stiano diffondendo corsi specifici anche qui, poiché alcune agenzie vogliono essere preparate nel caso di un futura modificazione legislativa. Si tratta della tanatoprassi, detta anche imbalsamazione. Ma attenzione, non si tratta di un’imbalsamazione definitiva, durevole nei decenni; al contrario è un trattamento conservativo che sarà efficace sul corpo per circa qualche settimana. L’imbalsamazione a scopo funebre, più vicina a quella odierna, fu brevettata dal francese Jean Nicolas Gannal il quale nel 1837 propose l’iniezione via arteriosa, attraverso la carotide, di liquidi di conservazione. Se in Francia questa sua idea non trovò molta diffusione egli riuscì comunque a portare la sua tecnica oltremare (Larribe, 2004: 7). A riprendere l’imbalsamazione per via arteriosa fu Thomas Holmes, medico dell’esercito durante la guerra di Secessione, che imbalsamava i soldati affinché potessero ricevere un degno saluto una volta tornati alle proprie case.
Nel corso dei decenni fu necessario regolamentare il mestiere di tanatoprattore che si diffuse ampiamente e la tanatoprassi venne praticata sempre più spesso anche alle salme che non dovevano essere trasportate. Se all’inizio, proprio per necessità dovute a guerre e difficoltà nei trasporti, l’abbondanza di liquido di conservazione permetteva di mantenere il corpo intatto per molto mesi, oggi si predilige usare prodotti meno concentrati. Di conseguenza la salma mantiene il medesimo aspetto solo per il tempo necessario: dalla morte alla cerimonia. La tanatoprassi si è poi diffusa anche in Europa e attualmente è molto praticata in Inghilterra, dove circa il 60% dei cadaveri subisce questa moderna imbalsamazione, ed anche in Francia quasi la metà della popolazione opta per questo trattamento (Larribe, 2004: 18). In Italia, la tanatoprassi è prevista solo in casi particolari, cioè nel casi dei papi o di importanti esponenti politici, per i quali viene stabilito un’imbalsamazione sotto la guida di esperti. Altrimenti per legge, se un corpo deve essere trasportato in un luogo che verrà raggiunto dopo le 24 ore dal decesso, o nel caso in cui il trasporto avvenga dopo 48 ore, allora la salma subirà soltanto un’iniezione anti-putrefattiva, cioè l’iniezione di formalina [1].
Nulla di paragonabile alla tanatoprassi, la quale consiste nell’aspirazione del sangue e poi nell’aspirazione delle viscere dall’addome. Questo procedimento è possibile grazie a una pompa elettrica collegata a un tubo, il quale termina con un ago cannula inserito all’altezza della vena giugulare, recisa e connessa al tubo di aspirazione; in questo modo viene raccolta la maggior parte del sangue nel sistema circolatorio. La soluzione a base di formalina verrà immessa nel corpo utilizzando l’arteria corrispondente, cioè dalla carotide. Infatti, affinché il procedimento di tanatoprassi possa avvenire correttamente, è necessario seguire il medesimo percorso del sangue.
Una volta che il sangue del sistema circolatorio è stato completamente sostituito dalla soluzione conservativa è il momento di occuparsi delle viscere interne. Per farlo, si utilizza sempre la pompa di aspirazione collegata ad un tubo, alla cui estremità non ci sarà però un semplice ago cannula ma un tubo metallico chiamato trequarti o trocar. È uno strumento chirurgico con una punta triangolare all’estremità e con esso viene forato il ventre: il punto d’accesso può essere l’ombelico o il punto appena sotto lo sterno. Una volta inserito il trocar esso viene indirizzato verso lo stomaco e gli intestini e viene accesa la pompa d’aspirazione: la punta di metallo forerà gli organi e ne aspirerà il contenuto. In questo modo viene rimosso ciò che si trova all’interno dello stomaco, dei reni, della vescica e dell’intestino. Eliminando questi liquidi e gas si rimuovono alcune delle caratteristiche che rendono il corpo un ambiente perfetto per i microrganismi che velocizzano la decomposizione. Il trocar viene poi estratto e reinserito nel senso opposto, vale a dire verso il cuore: rompendo questo organo si aspira anche il sangue in esso contenuto. Una volta che gli organi sono stati trattati è possibile iniettare anche nelle cavità il liquido di conservazione utilizzando sempre il trocar e la pompa elettrica. Con la chiusura dei fori e la cucitura dei tagli all’altezza delle vene utilizzate si chiude il procedimento di tanatoprassi, che, ancora non legale in Italia, di norma viene effettuato solo successivamente a una completa disinfezione del corpo. Ad esso segue poi una la fase finale della preparazione che comprende la vestizione e il trucco.
Le pratiche sul cadavere: la tanatoestetica
Sono proprio queste due fasi che si stanno diffondendo in sempre più numerose agenzie funebri, anche se non sono ancora sufficientemente estese per rientrare nella normale pratica di preparazione dei defunti. La prima fase inizia con una sorta di massaggio e di stretching esercitato sul corpo per rallentare il rigor mortis e facilitare le operazioni successive di vestizione e posizionamento della salma. Si comincerà massaggiando e stirando i muscoli e le articolazioni, iniziando dal collo: lo si farà ruotare in senso orario e antiorario molto delicatamente. Lo stesso si farà alle articolazioni delle spalle, dei gomiti e dei polsi. Poi si procede alla disinfezione che ha come scopo eliminare il più possibile i batteri e gli agenti patogeni presenti sul cadavere. La salma viene totalmente spogliata e con uno spray disinfettante vengono immediatamente trattate le cavità, dove la flora batterica è più presente: cavità orale, le narici, ano, vagina, zona uro-genitale ed eventuali piaghe o ferite. Anche gli occhi vengono lavati passando un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante: sia sotto le palpebre, sia sul bulbo oculare. Affinché la bocca rimanga chiusa, la mascella e la mandibola sono avvicinate e chiuse in vari modi; in alcuni casi le labbra stesse sono avvicinate e chiuse con due punti di filo o colla. Poi, per evitare la fuoriuscita di liquidi (che ricordiamo non sono stati aspirati poiché la legge non lo consente) dallo stomaco e dall’intestino viene inserito del cotone nell’ano, nella vagina, in gola e nel naso tutto, utilizzando apposite pinze. Successivamente si procede al lavaggio completo della salma con salviette apposite. Ogni parte del corpo viene trattata, compresi i capelli che vengono lavati con uno shampoo secco e pettinati, e la barba che viene tagliata. Queste attività di pulizia di norma precedono la tanatoprassi.
Poiché quest’ultima non viene effettuata si passa direttamente alla vestizione. Non ci si limita solamente agli abiti “esterni” ma si veste ogni salma anche della sua biancheria e di quegli indumenti che non sono visibili. Nulla deve mancare e si metteranno al defunto anche le scarpe, le collane e gli orecchini a seconda delle richieste della famiglia. La vestizione e le cure estetiche si completeranno all’interno della casa per non tralasciare alcun dettaglio: la linea della cravatta o della camicia deve essere perfettamente centrata, la piega dei pantaloni dritta e l’eventuale gonna non deve presentare increspature. Il defunto viene pettinato dopo aver posizionato la testa al centro del cuscino. Sul viso viene applicata della crema idratante e poi del fondotinta affinché si possa eliminare una parte del grigiore caratteristico dei cadaveri. Alle donne in alcuni casi viene anche applicato un leggero fard e il rossetto. Le mani vengono posizionate l’una sull’altra, a volte con in mano un rosario. Per evitare che perdano la loro posizione vengono fissate con una goccia di colla. Con il fondotinta verranno coperte anche eventuali ferite che possono esservi sui dorsi delle mani. Nel caso in cui la morte sia avvenuta in un incidente e vi siano parti del viso molto lesionate, è possibile attraverso appositi materiali e strumenti ricostruire parti del volto per renderlo il più simile possibile alla persona ancora in vita. L’ultimo gesto è quello di versare alcune gocce di essenza nella fodera della bara per coprire l’odore causato dal cadavere. FOTO4
Ma quali sono le necessità antropologiche che stanno portando alla diffusione di queste pratiche di preparazione del cadavere anche in Italia? Innanzitutto è innegabile che esse hanno lo scopo di ritardare o nascondere i principali segni di tanatomorfosi dei corpi, cioè tutti «i processi di ordine naturale che aggrediscono il corpo dopo la morte» (Remotti, 2006: 5).Cioè si cerca di combattere la lividezza, ossia il colore grigiastro che assumono i volti in cui non circola più il sangue. Il massaggio che viene effettuato in fase iniziale ha esplicitamente il compito di limitare le conseguenze del rigor mortis. Le creme e il fondotinta liquido attenuano gli effetti della disidratazione. Inoltre il lavaggio limita gli odori caratteristici della decomposizione che possono turbare i parenti.
Ciononostante sarebbe riduttivo interpretare la diffusione della tanatoestetica e i primi insegnamenti di tanatoprassi in Italia come una reazione tout court alla morte come fatto inaccettabile. Le teorie di Gorer e Ariès sono un utile spunto di partenza ma è necessario fare un passo ulteriore. Essi hanno correttamente descritto la paradossale situazione in cui ora si trova il mondo occidentale. Infatti, sebbene la morte sia un dato oggettivo, limitato e circoscritto con precisione grazie alle innovazioni tecniche e teoriche (mi riferisco in primis alla definizione di Brain Death Syndrome prodotta dal comitato medico di Harvard nel 1968) [2], essa è ancora tenuta debitamente a distanza. Si preferisce non parlare del fatto che prima o poi il nostro corpo cederà, non ci si rassegna all’idea che siamo destinati a finire in niente, chiusi in loculi in cimiteri che nessuno visiterà. Si preferisce non raccontare se si sta vivendo un lutto poiché è ritenuto di cattivo gusto; al contrario la comunità si aspetta una reazione rapida, un ritorno alla vita quotidiana il prima possibile. Peggio ancora sono visti i casi in cui qualcuno cade in depressione a causa di una morte improvvisa nel proprio nucleo familiare o per effetto di una diagnosi di malattia terminale. In queste occasioni è più opportuno rivolgersi a degli specialisti, fare uso di medicinali e il gruppo in ben pochi casi si dimostrerà essere un valido appoggio a cui confidare la propria paura e la propria disperazione.
Questo clima culturale ha come conseguenza una repressione e una elusione della morte a livello individuale, così che cerchiamo di dimenticare che prima o poi moriremo e nascondiamo a noi stessi che i nostri genitori e nonni prima o poi ci lasceranno. Di conseguenza, ci risulta difficile dare conforto e aiuto a chi ha scoperto di essere vicino alla fine come un anziano o un malato di cancro. Il dilemma è dato dal fatto che la sua consapevolezza della morte ci rende consapevoli della nostra stessa finitudine e questo ci lascia straniti e terrorizzati. Ma per comprendere a pieno il contesto in cui si stanno evolvendo queste nuove pratiche di trattamento del corpo, è importante riflettere su un aspetto ben descritto da Norbert Elias. All’interno di The loneliness of the dying l’autore descrive minuziosamente come il profondo significato che si dà a una vita abbia una notevole influenza sul significato che si dà alla morte. Con la parola meaning Elias (1983: 55) intende un significato relazionale, legato al gruppo che lo condivide, lo approva e lo mette in pratica. Ne consegue che una vita ancora piena di significato è una vita ricca di legami umani, con relazioni familiari e comunitarie solide. Al contrario, soprattutto nei casi in cui si ha a che fare con un anziano malato, con una persona sofferente a causa di un male incurabile, per amici e parenti diventa difficile dimostrare empatia giacché si preferisce evitare chi inevitabilmente è una testimonianza della futura fine che toccherà a tutti noi. Quindi, come afferma Elias (1983: 64): «If this happens, if a person must feel while dying that, though still alive, he or she has scarcely any significance for other people, that person is truly alone». È quindi una solitudine legata al fatto che moribondi ed anziani vengono emarginati negli ultimi istanti, lasciati alle cure di estranei dentro ospedali e case di cura. Essi smettono di essere per chi gli sta intorno poiché, come afferma Bauman (1995:53): «il mio essere con continuità “ha senso” solo fino a quando ci sono altri che continuano ad avere bisogno di me».
Questo allontanamento dagli strati vivi e vitali della società è anche provocato dal fatto che chi è preda dell’invalidità a causa della vecchiaia e/o della malattia non riesce ad inserirsi al meglio nella società occidentale, che richiede ad ogni suo membro un notevole grado di performance e attraverso politiche salutistiche impone un’ideologia di costante ben-essere (Le Breton, 2007: 5). Chi ha superato una certa soglia d’età nella maggioranza dei casi è, invece, infermo, il suo corpo mano a mano cede così come anche la lucidità mentale. Ancora di più è possibile affermare che la morte influenza il corpo privandolo di quei tre nuclei di significato ancor prima che il cuore smetta di battere, ma esattamente quando l’età o la malattia sono troppo avanzate e spezzano uno ad uno i legami di significato con il proprio gruppo di appartenenza. Perciò, spesso, si verifica un allontanamento di questi individui che non sono più considerati membri a pieno della comunità.
Quindi come garantire anche ad essi un rito rispettoso del decoro e della dignità? Come è possibile offrire una cerimonia funebre a un individuo precedentemente esiliato dal gruppo? Attraverso la tanatoestetica così come essa inizia ad essere praticata in Italia, la società si riappropria di quello che era un membro del gruppo, cercando di rendere di nuovo il suo corpo bello, apparentemente non toccato dalla durezza della morte, come se fosse di nuovo la sede della sua completa personalità, della totalità del suo essere di cui la malattia e la vecchiaia l’avevano privato. Durante la ricerca sul campo, molti sono stati i casi in cui i familiari, vedendo il cadavere nella cassa, hanno commentato sottolineando come il loro congiunto fosse di nuovo lui, con qualche anno in meno, e come questo li riportasse alla mente i ricordi di quando l’anziano era ancora attivo, pieno di vita.
Il percorso del corpo del morente e del cadavere è quindi descrivibile attraverso le tre categorie remottiane: «ciò che scompare; ciò che rimane; ciò che riemerge» (Remotti, 1993: 76). Il corpo troppo segnato dalla vecchiaia, preda delle sofferenze della malattia, evidentemente corrotto dalla morte che si avvicina viene fatto scomparire, quasi nascosto negli ospedali o nelle stanze più private delle abitazioni. Dopo la morte ciò che rimane è invece un corpo trattato, igienizzato, reso più bello grazie a creme e cosmetici, ben vestito come probabilmente l’anziano in vita non faceva da tempo. Ciò che riemerge è quell’insieme di caratteristiche che si erano perse a causa dell’invecchiamento e del sopraggiungere della morte: torna quella parvenza di salute e di giovinezza così fondamentale per la società occidentale spaventata dall’inesorabile scorrere del tempo. E, quindi, non si tratta solo della riemersione dell’individuo nelle sue particolarità ma è anche la riemersione dell’individuo come membro del gruppo con cui si riunisce per l’ultima volta, perché è di nuovo parte della comunità. Dopo la morte la cura del cadavere rompe l’esilio. Se per un periodo la vita di questa persona è stata priva di significato, perché priva di relazioni con il gruppo, con questo ultimo atto si dà significato alla sua morte ristabilendo concretamente, nel corpo, i suoi legami e la sua appartenenza al gruppo.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] Regolamento di Polizia mortuaria, Decreto del Presidente della Repubblica, 10 settembre 1990, n. 285, da http://www.gazzettaufficiale.it/, art. 32.
[2] La Brain Death Syndrome è stata definita nel 1968 da un comitato istituito appositamente dall’Harvard Medical School e definisce lo stato di coma irreversibile, quindi la morte cerebrale, sulla base di quattro caratteristiche: assenza di ricettività e risposta, mancanza di respirazione autonoma, mancanza di riflessi come il restringimento della pupilla, encefalogramma piatto.
Riferimenti bibliografici
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Augé M. e Fabre D., Da un rito all’altro. Colloquio tra Marc Augé e Daniel Fabre, in Antropologia dell’Europa, a cura di Sbardella F., 2007, Bologna, Patròn editore; ed or. D’un rite à l’autre. Entretien entre Marc Augé et Daniel Fabre, Terrain, 8, 1987
Bauman Z., Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e strategie di vita, Bologna, Il Mulino, 1995, ed. or. Mortality, immortality and other life strategies, Cambridge, Polity Press, 1992
Bourdieu P., Per una teoria della pratica con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina, 2003; ed. or. Esquisse d’une théorie de la pratique précédé de Trois études d’ethnologie kabyle, Genève, Droz, 1972
Csordas T., Embodiment as a paradigm for anthropology, Ethos, Vol. 18, No. 1., Mar., 1990: 5-47
Elias N., The loneliness of dying, New-york London, Continuum, 2001; ed. or. Uber die Einsamkeit Sterbenden, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, 1982
Favole A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Roma, Laterza, 2003
Gorer G., The pornography of death, in Encounter, October, 1955: 49-52
Larribe P., a cura di Rovina L., La tanatoprassi. Manuale descrittivo della pratica di tanatoprassi secondo la tradizione francese, Torino, 2004
Le Breton D., Antropologia del corpo e modernità, Milano Giuffé Editore, 2007
Jankélévitch V., La morte, Torino, Einaudi, 2009; ed. or. La Mort, Paris, ed. Flammarion, 1966
Mauss M., Le tecniche del corpo, in Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1997, ed. or., techinques du corps, in «Journal de psychologie», 1936, XXXII, nn. 3-4, 15 marzo-5 aprile
Remotti F., Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Torino, Bollati Boringhieri, 1993
Remotti F., a cura di, Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Milano, Mondadori, 2006.
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Sara Raimondi, giovane laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna, prosegue i suoi studi concentrandosi sui riti funebri nel mondo contemporaneo. Ha partecipato all’annuale conferenza SANT (Swedish Anthropological Association) con il paper A new way of dying: hard science and soft science applied in the study of funeral rites.
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Articolo molto interessante che fa diminuire la distanza tra i vivi e i morti dandone una lettura chiara e comprensibile per tutti e mette a conoscenza tecniche che spesso sono ignare a molte persone.