di Michela Mercuri
Negli ultimi mesi il quadrante libico è interessato da importanti cambiamenti che potrebbero mutare le sorti del Paese, caduto in una spirale di crisi da più di cinque anni. L’indebolimento dello Stato islamico ad opera delle milizie di Misurata, fedeli al Governo di unità nazionale, farebbe pensare ad un nuovo possibile inizio per quello che oramai appariva sempre più un failed State. Le incognite però restano numerose, ad iniziare dal fatto che lo Stato islamico è parte integrante di una crisi più ampia, nell’ambito della quale ruotano numerosi attori, non solo locali. Da un lato, vi sono le forze libiche collocate su schieramenti contrapposti e, dall’altro, diversi attori regionali, spesso in totale disaccordo, che sostengono le varie fazioni in base ai propri interessi nazionali assieme alle potenze internazionali, le quali, a loro volta, hanno obiettivi non sempre in linea con l’appoggio formalmente dato alla soluzione politica proposta in sede Onu. A fare da sfondo, un Paese sprofondato in una grave crisi economica e istituzionale.
Da ciò è facile dedurre come non basterà certo “cacciare” le milizie dello Stato islamico dal territorio per poter cantar vittoria ma, anzi, l’uscita di Isis dal risiko libico potrebbe portare alla luce quei problemi fin qui sottaciuti, malcelati dal mantra della necessità del preliminare annientamento del Califfato. È giunto dunque il momento di provare a ricostruire concretamente la Libia a cominciare dalla società, dalle istituzione e dalla sua economia. Come farlo sarà non solo un problema dei libici ma anche di tutti gli attori esterni che, più o meno scientemente, hanno contribuito a causare o ad acuire il caos nel Paese.
Alla luce di quanto fin qui detto, si intende fare luce sulle attuali problematiche del contesto libico, al netto della presenza delle milizie legate all’Isis, anche al fine di ipotizzare possibili strategie per una sua ripresa.
La frammentazione socio-territoriale
Le rivolte del 2011, che hanno portato alla caduta del rais ed alla fine del suo orwelliano regime, hanno dato vita a profondi mutamenti nella società libica e all’emergere, o riemergere, di attori ed entità con un forte imprinting localistico. La mappa del potere in Libia è oggi il risultato della sovrapposizione di diverse dinamiche che segnano rivalità tra realtà territoriali diverse – poteri tribali, città-Stato, milizie locali– che l’insediamento del Governo di unità nazionale non è riuscito a scalfire. Vale la pena dunque capire quali sono questi attori, le loro aspirazioni e la loro rilevanza sul terreno.
Per quanto riguarda le tribù, va detto che l’ascendenza tribale è uno degli elementi fondanti della realtà libica. Se durante la debole monarchia idrissina il re non potè che concedere grande spazio ai poteri provinciali e locali, rafforzando il ruolo delle varie tribù del territorio (Pritchard 1963), durante il quarantennio gheddafiano queste, seppure indebolite, riuscirono, attraverso il power sharing tribale messo in atto dal rais, a conservare, in mancanza di istituzioni centrali, la loro influenza sulla popolazione, affermandosi come garanti della coesione sociale (Emiliani 2011). La dissoluzione della Jamahiriya ha rinvigorito il potere dei vari clan, tanto da farne aghi della bilancia dei vari focolai di conflitti. A Sirte, ad esempio, la tribù dei Qadhadfa – quella di appartenenza del colonnello e dunque esclusa nei giochi post rivolte – si è alleata, strumentalmente, con i gruppi radicali. Viceversa, a Bengasi sono state le tribù ad impedire la radicalizzazione di molti giovani.
Altro attore nevralgico del mosaico libico sono le città. Nell’assenza di una chiara leadership centrale, queste hanno assunto le sembianze di vere e proprie “città-Stato”, con una propria autonomia politica e militare, oltre che amministrativa. Durante il conflitto si sono schierate con i vari fronti contrapposti. E così, solo per citare gli esempi più noti, se la città di Zintan, con le sue milizie e affiliazioni sostiene il generale Haftar, Misurata è di fatto alleata con il Governo di unità nazionale di Fayez al Serraj.
Infine le milizie. La disgregazione delle forze militari del regime di Gheddafi ha avuto come diretto corollario l’occupazione del territorio libico e delle città liberate da parte delle milizie ribelli. Queste, nel tempo, lungi dal depore le armi o confluire in un unico esercito nazionale, così come auspicato dal Consiglio nazionale di transizione (CNT), si sono costituite come micro‐gruppi di potere con un limitato controllo territoriale. Nel corso di questi ultimi cinque anni, le fazioni armate hanno svolto, e ancora svolgono, il ruolo di mantenimento dell’ordine nelle aree da loro controllate, finendo così per acquisire una sorta di preminenza sulla stessa classe politica.
La frammentazione politica
Nonostante dallo scorso marzo si sia insediato nella capitale il Consiglio presidenziale di Serraj, pemane nel Paese il dualismo istituzionale tra Tripoli e Tobruk. Dualismo che nasce fin dai mesi immediatamente successivi alla morte del rais, quando nel CNT iniziano le prime fratture tra laici e islamisti ma anche tra coloro che intendevano reintegrare le milizie anti-gheddafiane nell’apparato statuale (i cosiddetti “conservatori”), e coloro che volevano ricostruire da zero l’esercito che Gheddafi aveva quasi annullato (i “rivoluzionari”). Nel febbraio 2014, gruppi laici, milizie tribali e soldati del vecchio regime lanciano l’Operazione Dignità guidata dal generale Khalifa Haftar con il precipuo scopo di eliminare tutte le forze islamiste dal Paese. Dall’altra parte, le brigate islamiste rispondono con l’operazione Alba Libica. Con il sostegno delle potenti milizie di Misurata, costringono il neo-eletto Parlamento [1], a cercare rifugio nella città di Tobruk, sotto la protezione delle truppe del generale. Poco dopo le milizie di Alba Libica occupano Tripoli e vi stabiliscono il Governo di salvezza nazionale. Dall’estate del 2014, dunque, la Libia è paralizzata dalla una guerra civile tra queste due fazioni contrapposte, ognuna delle quali sostiene un Parlamento e un Governo diversi. Il bicefalismo delle istituzioni libiche resiste tuttora, nonostante l’insediamento del Governo unitario voluto dall’Onu, e il quadro politico è oggi diviso tra sostenitori e oppositori del Governo di unità nazionale.
La crisi economica
La rivoluzione libica del 1969, grazie alla fortunosa coincidenza del boom petrolifero, ha al suo attivo dei risultati non comuni tra i Paesi in via di sviluppo dell’area mediterranea ed africana [2]. La presenza di grandi giacimenti di idrocarburi ha permesso alla Libia di operare, nell’ultimo quarantennio, un take off impensabile negli anni precedenti, con un impetuoso sviluppo dell’economia, divenuta esportatrice di capitale e importatrice di manodopera. Così, con un sistema che si regge per circa il 95% sulle esportazioni di greggio, la Libia può essere considerata a tutti gli effetti un rentier State e, come tutti i rentier mediorientali, si è trovata a disporre di una ricchezza sterminata la cui redistribuzione è stata fondamentale per garantire la stabilità del regime. Nonostante le numerose crisi, come quella degli anni Ottanta acuita dal deteriorarsi delle relazioni con gli Stati Uniti e quella degli anni Novanta, conseguente all’impatto delle sanzioni, le copiose risorse del sottosuolo [3] hanno permesso alla Libia di avere indicatori nettamente migliori degli altri Paesi, con un reddito pro capite di gran lunga più elevato di quello dei vicini del nord Africa. Tutto ciò a discapito dello sviluppo democratico.
Oggi, dopo cinque anni di instabilità, l’economia libica è in pezzi. Basta osservare alcuni dati. Il Prodotto interno lordo, nel 2010, era pari a circa 75 miliardi di dollari. Oggi è più che dimezzato. Tale calo è conseguente alla diminuzione della produzione del greggio – oggi quasi un quinto rispetto al 2010 – cui il Pil libico è legato quasi totalmente. Il tutto è aggravato dal vistoso calo dei prezzi sul mercato mondiale e dalla cattiva gestione dei proventi della vendita degli idrocarburi. Questi, infatti, vengono versati sul conto della Banca Centrale che ha sede a Tripoli ed è questa ad erogare gli stipendi degli statali che sono circa l’80% della forza lavoro del Paese. Con il calo dei proventi, gli introiti non sono più sufficienti a pagare le spese correnti. Inoltre, gli esborsi per gli stipendi sono saliti del 24-40% sulla spesa pubblica totale, tra il 2012 e il 2013, quando la maggior parte delle milizie sono state messe sul libro paga dei vari governi. Per questo la Banca Centrale ha dovuto prelevare denaro dalle sue riserve. Le conseguenze sulla popolazione sono drammatiche. L’inflazione è salita al 9,2 % nel 2015, aumento principalmente guidato da quello dei prezzi alimentari (13,7%). I prezzi di farina e pane sono quintuplicati. Il reddito pro capite è sceso a meno di 4.500 dollari rispetto ai quasi 13.000 dollari del 2012 [4]. Molti lavoratori non percepiscono da mesi gli stipendi. A tutto questo fa da sfondo una gravissima crisi di liquidità che causa tensioni e proteste tra i cittadini che, anche qualora riuscissero a percepire un salario, non potrebbero ritirare i soldi dalle banche perché le casseforti sono vuote.Oggi, su una popolazione di 6,3 milioni di abitanti, 3 milioni di persone stanno soffrendo in modo più o meno rilevante le conseguenze negative della crisi politico-istituzionale e di sicurezza del Paese e 2,44 milioni (tra cui 1,35 milioni sono donne e bambini) hanno bisogno di assistenza umanitaria [5].
L’emergenza sicurezza
Oggi migliaia di persone catturate dalle varie milizie sono ancora detenute in maniera arbitraria e senza alcun procedimento legale. Pochissimi processi si svolgono davanti a tribunali regolari. La sicurezza delle prigioni controllate dal Governo fa acqua da tutte le parti e le evasioni aumentano. I giudici e i pubblici ministeri vengono sovente minacciati. La corruzione permea tutti i livelli del sistema giudiziario con costi ancor più elevati di quelli precedenti la rivolta. A questo si aggiunga, come già ricordato, l’assenza di un esercito regolare a vantaggio di milizie ben armate sparse sul territorio. Lo stato di confusione che regna nel sistema giudiziario dimostra quanto le sue mancate riforme possano costituire il detonatore della lotta armata.
Ambiguità internazionali
La crisi libica, a differenza di quelle di altri Paesi, ha avuto, sin dal suo nascere, una dimensione internazionale. Il 17 marzo 2011, a pochi mesi dall’inizio delle rivolte, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1973, che sanciva di fatto l’intervento delle potenze straniere nel teatro libico. Tralasciando ogni considerazione sull’opportunità dell’intervento e sulle sue modalità, qui si vuole rimarcare come ancora oggi la presenza di attori esterni sia nevralgica per il futuro della stabilità in Libia.
Dopo anni di colpevole silenzio, nel luglio del 2014, con l’irrompere della guerra civile, la situazione libica è stata oggetto di un processo di mediazione da parte delle Nazioni Unite con l’obiettivo di dare vita ad un Governo di unità nazionale capace di adoperarsi per la pacificazione del Paese. I vari negoziati hanno visto, nel dicembre 2015, la designazione di un Consiglio presidenziale, guidato da Fayez al Serraj. Nonostante l’apparente unità di intenti, però, le varie potenze regionali e internazionali, che via via hanno preso parte ai vari tavoli negoziali, una volta “sul terreno” non sembrano perseguire gli stessi obiettivi a tutto detrimento della stabilità della Libia.
A livello regionale, va ricordato in primo luogo il ruolo dell’Egitto. Da quando il regime di al Sisi con un colpo di Stato militare si è impossessato del potere, ha assurto al ruolo di baluardo contro l’islamismo, ergendosi a guardiano della regione. La diretta conseguenza è stata il sostegno alle forze laiche del generale Haftar, a discapito della linea unitaria proposta dall’Onu.
Non va meglio sul piano internazionale in cui gli Stati che più si sono adoperati per la negoziazione delle soluzione politica – Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti – hanno percorso una direttrice comune nei vari vertici internazionali ma al contempo hanno fatto prevalere le proprie politiche individuali,non sempre coincidenti con quelli del “gruppo”. E così, ad esempio, la Francia sostiene ed arma le milizie di Haftar contravvenendo di fatto alla linea di supporto al Governo unitario. In altre parole alla frammentazione istituzionale del Paese corrisponde, tuttora, una polarizzazione delle alleanze regionali e internazionali.
Quali possibili soluzioni?
Al di là dello Stato islamico, per altro ancora presente, il quadro che emerge da quanto fin qui detto non appare molto roseo per la Libia “di domani”. Il Paese è ancora diviso almeno tra due governi, è frammentato in una serie di centri di potere a base localistica in contrasto tra loro, versa in una crisi economica e istituzionale e gli attori esterni continuano ad adottare una linea politica incoerente. In questo caos, per tentare di supportare un reale processo di State building libico sarà necessario per l’Europa, ma anche per il gruppo di lavoro internazionale, operare su più direzioni.
Processo politico inclusivo
In primo luogo è necessario operare ogni sforzo per supportare il Governo di unità nazionale allargandone quanto più possibile la base di consenso. In questo contesto, l’ipotesi di un Governo guidato da tendenze non-islamiste, ma aperto agli islamisti moderati, sarebbe importante per realizzare una “ricompattamento” delle forze politiche. Al contempo, sarà necessario allargare il consenso alla Camera dei rappresentanti di Tobruk, tutelando coloro che hanno fin qui dimostrato apertura alle istanze unitarie ed isolando le fazioni separatiste.
È evidente che una scelta di questo genere incontrerebbe l’opposizione di importanti attori regionali, Egitto in primis, a loro volta spalleggiati da attori internazionali come la Francia. Sarà pertanto necessario puntare sui player regionali come Tunisia, Algeria e Marocco, che fin dall’inizio hanno sostenuto la linea unitaria. Si dovrà lavorare su due livelli. Un livello regionale, rafforzando il dialogo con gli attori fin qui favorevoli, anche al fine di isolare quelli che non lo sono, e un livello internazionale che necessiterà di una linea più assertiva e muscolare – e non più di sottaciuta acquiescenza – nei confronti delle “istanze separatiste”, anche e soprattutto nelle sedi internazionali. Parallelamente, però, sarà necessario rafforzare la legittimazione di Serraj e del suo Consiglio presidenziale che, seppure sia insediato a Tripoli, è ancora sotto il gioco di molte delle fazioni locali. Neppure nella capitale si è creata una inclusività del potere militare e ciò contribuisce a limitare la capacità di decision making del nuovo Governo.
Maggiore coinvolgimento delle istanze locali
Come si è avuto modo di vedere, la Libia è ormai strutturata in una serie di poteri territoriali, città-Stato, milizie e tribù. Difficilmente, dunque, sarà possibile creare unità nel Paese senza una visione inclusiva nei riguardi della componente locale. I sindaci ed i comuni, ad esempio, sono tra le poche istituzioni ancora funzionanti perché dotati di una relativa legittimità politica. Tali istanze non sempre si riconoscono nei due governi e sarà pertanto necessario dialogare con questi attori, parallelamente al dialogo tra Tripoli e Tobruk. Martin Kobler ha già percorso questa strada, coinvolgendo le municipalità e parte dei rappresentanti tribali e delle milizie nel dialogo preliminare alla creazione del Governo unitario. L’inviato delle Nazioni Unite per la Libia, infatti, con una certa lungimiranza, ha compreso che solo con processo “bottom up” è possibile tentare un dialogo reale e per questo ha raccolto un centinaio di firme tra cui quelle dei rappresentanti locali, in qualche modo legittimandoli. Se tale “indirizzo” venisse utilizzato per coinvolgere in maniera più incisiva anche le istanze dell’est si potrebbe rafforzare una “rete” capace di bypassare – o isolare – Haftar. Un esempio virtuoso in questo senso giunge proprio dall’Italia. Pochi giorni fa a Sant’Egidio è stato siglato un accordo umanitario fra tutti i gruppi politici ed etnici del sud del Paese [6]. Un segnale che lascia ben sperare anche per il ruolo che l’Italia potrebbe svolgere in questo senso. È importante dialogare e conoscere meglio le istanze delle varie fazioni e l’Italia, che da sempre ha un legame con la popolazione libica e un buon “capitale di fiducia” nei suoi confronti, potrebbe essere un attore indispensabile.
Sostegno alla legalità
Una volta creata una base di accordo quanto più inclusiva possibile sarà opportuno supportare la Libia in quel processo di State building di cui si parla dal 2011, ma che mai è stato realizzato. Detta in altri termini, sarà necessario ricreare da zero tutte quelle istituzioni che Gheddafi aveva scientemente decimato e, in primo luogo, l’esercito e il sistema giudiziario. La Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) – ma anche l’Europa – attraverso gli strumenti della propria politica estera e di sicurezza comune dovrebbero sostenere concretamente il nuovo Governo nella ricostruzione della magistratura e nella riapertura dei tribunali, supportando misure di sicurezza per la protezione dei giudici, degli avvocati e dei testimoni. L’Italia potrebbe giocare un ruolo significativo vista l’influenza che il codice penale italiano ha avuto nella creazione di quello libico. Stesso discorso varrebbe per l’esercito, la cui formazione e addestramento dovrebbero essere una priorità delle azioni della coalizione.
Sostegno alla ripresa economica
Il benessere economico è una della chiavi di volta per la stabilità di un Paese. Non è un caso che le rivolte arabe siano nate anche dal malessere dei giovani davanti ai crescenti tassi di disoccupazione e all’assenza di prospettive lavorative.
Alla luce della drammatica situazione economica sopra delineata, le misure da intraprendere sono molte, da attuarsi nel breve e nel medio periodo. Tra quelle più urgenti vi è la necessità di aumentare la circolazione del denaro, supportando in primo luogo il sistema bancario del Paese. Di recente, la Banca centrale libica di Beida (quella che fa riferimento al Parlamento non riconosciuto di Tobruk), per far fronte alla crisi, ha immesso nel mercato quantità di denaro al di fuori dei circuiti bancari tradizionali, con il conseguente pericolo di minare la fiducia nella valuta libica e la capacità della Banca Centrale di Tripoli di gestire la politica monetaria. A tal fine, potrebbero essere utili misure finalizzate ad aumentare la circolazione di denaro, ma sotto il controllo della Banca Centrale, scongelando alcuni dei beni libici all’estero, o attuando altre misure per incentivare i depositi. Le istituzioni europee dovrebbero, però, poter fornire supporto tecnico e supervisione. In secondo luogo sarà necessario limitare il pagamento degli stipendi alle milizie, problema scottante sia perché contribuisce alla penuria di liquidità, sia perché va a supportare attori spesso “fumosi”.
Altre misure, poi, andranno prese nel medio periodo. In primo luogo, si dovrà aumentare la produzione del petrolio assieme, tuttavia, ad una maggiore diversificazione dell’economia libica. Tutto questo potrà essere realizzato solo in un contesto di maggiore stabilità e sicurezza che richiederà non solo la sottrazione allo Stato islamico del controllo di alcuni pozzi, ma presuppone soprattutto un accordo tra i principali gruppi e milizie che di fatto controllano i giacimenti.
Infine, sarà necessario pensare a come far fronte alla dilagante disoccupazione del Paese attraverso misure che coinvolgano e valorizzino soprattutto la classe giovanile. In un interessante rapporto della Banca Mondiale [7], vengono rilevate alcune misure degne di nota. In particolare, si sottolinea la necessità di riassorbire nel mercato del lavoro libico i molti giovani combattenti attraverso la creazione di posti di lavoro. Si tratterà in primo luogo di riformare il mercato libico assuefatto, proprio per la natura di Rentier State, ad un sistema totalmente assistenziale, fondato sull’importazione di manodopera, qualificata e non. La ricetta potrebbe essere quella di incentivare le partnership pubblico-privato, puntando sulla riqualificazione dei giovani libici, mediante incentivi alla formazione specialistica e qualificata soprattutto in alcuni settori “nuovi” quali commercio, servizi, turismo e agroalimentare. Non è una utopia. A Tripoli, per esempio, già nel 2014, il Consiglio municipale e una organizzazione non governativa hanno aperto un centro per l’impiego per i giovani e un “forum di investimento” creato per aiutare gli imprenditori che vogliono realizzare delle start up.
Per concludere, in Libia ci sono molti problemi ma anche tante possibili soluzioni. Ciò che emerge è che queste possono essere realizzate solo con un dialogo inclusivo e una cooperazione efficace. L’ipotesi di un’azione militare internazionale, spesso accarezzata, è stata per fortuna accantonata ma ora è necessario intraprendere un cammino comune che veda fianco a fianco i libici e le istituzioni internazionali che, però, devono essere in grado di parlare con una sola voce, trovando, per una volta, il coraggio di accantonare i singoli egoismi.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] Le elezioni del 25 giugno 2014 hanno visto una affluenza decisamente scarsa, soprattutto se confrontate con la tornata precedente del 2012 in cui aveva votato circa un milione e settecentomila persona su circa due milioni di aventi diritto. Nel 2014 sono stati solo 500.000 i libici che si sono recati alle urne, il 18% circa degli aventi diritto.
[2] Casadio, G.P. L’economia dei Paesi arabi del mediterraneo. Sviluppo e cooperazione con l’Europa, Etas, Milano 1980.
[3] La Libia vantava le maggiori riserve africane dell’area circa 44 miliardi di barili – e queste hanno attirato molte compagnie straniere. Nel 2010 operavano in Libia una cinquantina di imprese del settore oil&gas, a fronte delle sole 10 del 2003.
[4] Tutti i dati in: World Bank. Libya. Last Updated: March 31, 2016 in http://www.worldbank.org/en/country/libya/overview.
[5] UNSMIL, Libya Humanitarian Needs Overview 2015, rappresentanti del Fezzan alla comunità di Sant’Egidio durante la firma dell’accordo September 2015.
[6] L’accordo sulle questioni umanitarie riapre la possibilità di inviare aiuti di emergenza a strutture ospedaliere situate in tutte e cinque le provincie del Fezzan, che soffrono la mancanza di materiali di prima necessità, come anche di kit per le vaccinazioni dei bambini.
[7] World Bank, Public-Private Partnerships for Jobs in Libya are Key for Youth and Women, Now More Than Ever, 3 May 2016.
Riferimenti bibliografici
Emiliani, M., Breve e terribile storia della Jamahiriya, in «Aspenia», aprile 2011, 52: 111-117
Pritchard, E.E., The Sanusi of Cyrenaica, Claredon press, Oxford 1963.
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Michela Mercuri, insegna Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata dal 2008 ed è editorialista per alcuni quotidiani nazionali. Ha partecipato a numerose pubblicazioni collettanee per Etas e Egea e presso riviste specializzate. Di recente ha curato, con Stefano Maria Torelli, La primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, edito da Vita e Pensiero.
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