di Mario Sarica [*]
Il grano, nella duplice accezione di bene alimentare primario e arcaico segno rituale-simbolico, ha radici profonde nella plurimillenaria cultura agraria mediterranea. E la Sicilia da sempre, per i popoli migranti, in gran parte da Oriente, è emersa dal mare non solo come “terra promessa” fertile e generosa di spighe, ma anche luogo di culto di Cerere e Proserpina, riflessi mitologici siciliani delle greche Demetra e Kore o Persefone, madre e figlia, unite da un fatale destino di “perdita e ritrovamento”. A loro si è affidata la rappresentazione mitica della ciclica rigenerazione primaverile, segnalata visivamente dagli sconfinati orizzonti delle messi isolane, archeologicamente evidenziata dai santuari e granai monumentali di Morgantina, oltre che dalla spiga di grano ricorrente nella monetazione antica isolana.
Grano come arcaica metafora della vita e della morte, dunque, del “consumo del tempo e della sua necessaria e periodica rifondazione”, perché bisogna perire per rinascere, così come il seme, dal buio della terra, annuncia il mistero della vita.
La coltivazione cerealicola in Sicilia a carattere estensivo, per almeno due millenni, oltre a dominare con regolari geometrie e colori cangianti stagionali il paesaggio agrario, coniugato sempre a valenze sacro-religiose, fino ad innervare anche il “pensiero simbolico-cristiano”, ha attratto irresistibilmente al suo generoso ciclo vegetativo le civiltà che si sono succedute nel dominio/governo dell’Isola. E l’esito di questo “gioco di società” fra natura, cultura ed economia, imprevedibile ed impietoso, sono state stagioni di prosperità e carestia, oscillando, dunque, fra ricchezza ostentata e povertà patita, cui soccorreva periodicamente e strategicamente, con eventi prodigiosi risolutivi, la mano “umano-divina”. Sul tema, esemplare il “miracoloso” vascello ricolmo di grano che, in piena guerra del Vespro, entra nel porto di Messina per porre fine alla carestia, diventando, poi, nella forma di piccolo vasceluzzu d’argentu, oggetto di culto e devozione cristiana.
Un legame, dunque, antico e necessario, quello fra uomo, terra, grano e cielo, da leggere entro un quadro culturale e mentale, condiviso unanimemente e trasversalmente da tutte le classi sociali. Una dialettica intensa, quella fra i tanti attori in campo, marcata da prevaricazioni e privazioni, replicata, da padre in figlio, e rimasta sostanzialmente immutata, fino alla metà del Novecento, come tratto distintivo della civiltà contadina e delle èlite di potere nobiliare e mercantile siciliane.
Il pensiero-guida “uomo/grano”, che per millenni ha orientato nel Mediterraneo comportamenti e relazioni fra società e sviluppo, ambiente e risorse naturali, trova frequenti ed esemplari attestazioni storiche, fra le quali, annotiamo ora quella luminosa del Regnum Siciliae che, oltre le “istruzioni per l’uso”, ci restituisce, come in uno specchio, il vissuto condiviso dall’intera società siciliana dell’epoca. Tra i principali assunti ideologici ed ecologici delle Contistutiones, si legge che «L’umanità non fosse né potesse essere qualcosa al di fuori delle leggi naturali, e da tanti se ne vedeva la dipendenza dall’ambiente e in quella dipendenza si cercavano le norme della convivenza e dello sviluppo».
Ad alimentare poi la sfera del rituale e del sacro, «la ricezione e il condizionamento dei fenomeni naturali e dei loro segni, interpretati quasi sempre come espressione visibile e concreta della volontà, anzi dell’umore divino». E così ai cattivi raccolti, alle periodiche avversità climatiche, alla precarietà dell’esistenza, si opponevano strategie di sopravvivenza che si appellavano al soprannaturale, con la replica di gesti rituali emblematici, perpetuatisi nella cultura di tradizione orale fin sul finire del XX secolo (si pensi all’offerta di trizzi o mazzuni di spighe di grano intrecciate ai santi patroni). Azioni emblematiche atte a sacralizzare il gesto contadino, e riaffermare l’antico patto fra uomo, terra e cielo, come quello sancito dalla creazione nel libro della Genesi, quando si ricorda che «la terra ci precede e ci è stata data non per soggiogarla, ma per coltivarla, che significa arare o coltivare un terreno, e custodirla, che vuol dire proteggere, curare, preservare». Un ammonimento/prescrizione di straordinaria attualità, ripreso anche nell’enciclica Laudato siì di papa Francesco, oscurato da troppo tempo dal dominio di delirio di onnipotenza dell’homo tecnologicus dei nostri giorni, e dall’impero planetario della tecnoscienza, sempre più al servizio dell’economia globalizzata, ossessivamente impegnata a saccheggiare le non infinite risorse naturali della terra.
Granaio del Mediterraneo, la Sicilia, come segnalato da tutti i regesti storici, ha mantenuto nei secoli, fra alterne fortune, il primato incontrastato della produzione di frumento, soprattutto quello di varietà duro, fino all’Unità d’Italia. Poi, il lento e inesorabile declino dovuto alla contrazione delle superfici coltivate, alla crisi del mercato del grano duro, alla persistenza del regime latifondista, di origine feudale, che imponeva patti agrari iniqui e pratiche di lavoro arcaiche, essenzialmente riconducibili al complesso “uomo-bestiame-aratro”. Quest’ultimo “insieme”, quasi a segnalare un destino di vita naturale condiviso, ineludibile, e, dunque, un legame necessario ed equilibrato, anche se precario, fra uomo, animali e ambiente: amato, temuto, e rispettato ad un tempo. Un rapporto vitale, quello derivante dalla forza-lavoro-animale, che non sfugge nemmeno al carismatico governo di Federico II, «per il quale, come già per i sovrani normanni, la conoscenza e la razionalizzazione della natura, si offriva quale strumento di governo». E così nelle Constitutiones, «considerato che i buoi erano compagni fedeli, pazienti e indispensabili per il lavoro», lo stupor mundi ordinava che «fosse impedito che per qualsiasi colletta o debito pubblico o privato venissero confiscati i boves domestici, quando il loro padrone era debitore verso la curia o verso private persone».
Sull’immagine, poi, andata sedimentandosi nel corso dei secoli, che raffigura e racconta questo legame plurimillenario fra uomo, bovini, pazienti e fedeli, terra e grano, che costituisce “corpo e anima” di questo volume, crediamo quanto mai utile rammentare la sua straordinaria fortuna, che attraversa il “tempo e lo spazio” di tutte le civiltà euromediterranee fino ai nostri giorni. Nella sua indissolubile doppia valenza, alimentare e mitico-rituale, principio della rivoluzione agraria e culturale fra Oriente e Occidente, il grano/pane, nelle sue diverse varietà, ha alimentato, ed alimenta ancora oggi, la sfera dell’immaginario, dunque del simbolico e del sacro, affidandosi a segni e liturgie laiche e religiose, con ricadute sulle economie del mondo, e sui signori delle sementi, espressione di potere planetario. E, scorrendo ora velocemente il catalogo delle immagini, ab origine, non possiamo non fare riferimento alle più arcaiche incisioni rupestri, alle pitture parietali egiziane, e, in epoca greca, al «fecondo campo di grano ben arato, percorso dagli aratori e dai loro buoi… ricco di messi coi mietitori al lavoro», scolpito nello smisurato scudo di Achille, da Efesto o Vulcano.
Un topos figurativo, quello del ciclo del grano, che ritroviamo in primo piano anche in epoca medievale, nei dipinti e nelle sculture decorative delle facciate e dei portali di molte chiese, come quella della Basilica Cattedrale di Messina, di fondazione normanna, con le formelle trecentesche, che, per “fotogrammi scultori”, narrano le sequenze lavorative stagionali, dalla semina alla trebbiatura. Oltre il Rinascimento e il Barocco, altre immagini emblematiche sul tema, declinate alla Sicilia, ci giungono, prima, a partire dalla metà del Settecento, dai viaggiatori stranieri del Gran Tour, fra i quali ricordiamo il francese Jean Houel, poi, dai paesaggisti siciliani fra Otto e Novecento, tra i quali spicca il palermitano Francesco Lojacono; e, ancora, dallo sterminato repertorio fotografico, fra Otto e Novecento, che rubrica il tipico e il popolare isolano. Sorprendenti appaiono a noi, poi, in piena avanguardia artistica novecentesca, le scene di aratura con buoi aggiogati, che riaffiorano dagli splendidi arazzi futuristi di Fortunato Depero, a confermare la tenace resistenza del segno arcaico-simbolico-rituale del grano e della terra fecondata dall’uomo, dentro il moderno.
La società agraria siciliana, sul più ampio orizzonte mediterraneo, emerge, dunque, sul lungo periodo storico, come luogo geografico-culturale eminentemente conservativo, custode di un’antica memoria rituale-contadina, declinata spesso ad una condizione servile, diventata intollerabile nell’Ottocento, immutabile nei suoi tratti dominanti e chiusa in un tenace isolamento, in grado di resistere ai radicali cambiamenti epocali del Novecento. Nel secondo dopoguerra, oltre le illusorie spinte autonomiste-separatiste siciliane, intrecciate all’oscura vicenda del bandito Salvatore Giuliano, e il sussulto delle occupazioni delle terre, la millenaria civiltà del grano siciliano, sotto i micidiali colpi del boom economico italiano e dell’illusoria industrializzazione, almeno per il bistrattato Mezzogiorno d’Italia, perderà sempre più spazio, difendendosi dentro “riserve indiane” sempre più anguste e soffocanti. Fuor di metafora, in forme di coltivazione sempre più marginali e in esclusiva chiave di “valore d’uso” familiare o di “scambio” commerciale locale, con un grado di resistenza, in alcuni casi “eroico”, spingendosi fin sul finire del “secolo breve”, per arrendersi al suo doloroso e fatale tramonto, mentre si assiste impotenti, su scala planetaria, agli sconvolgimenti mutamenti climatici.
Per fortuna, a strappare all’oblio e alla dimenticanza tale straordinario patrimonio culturale, impastato di “Madre terra” e di un’ “anima popolare irridescente”, oltre lo sguardo letterario penetrante dei grandi scrittori veristi, l’interesse ottocentesco demologico di matrice positivistica, venato anche di orgoglio isolano e di spirito patriottico, fino ad immaginare una “nazione-Sicilia”, di Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino e della loro formidabile rete di corrispondenti locali. Cronache di vita contadina palpitanti e degne di riscatto, sempre e solo annunciato, sullo sfondo dei tanti “tradimenti” della “Giovane Italia” alla nobile storia isolana, con il conseguente drammatico esodo migratorio oltre Oceano, la controversa indagine governativa sulla condizione dei contadini siciliani, e, ancora, l’agitarsi dei Fasci siciliani.
A raccogliere l’eredità di studi siciliani sulle forme di cultura popolare, declinati ai nuovi approcci di ricerca etnoantropologica, nel Novecento, Giuseppe Cocchiara, nella prima metà, e Antonino Buttitta, nella seconda metà del tumultuoso “secolo breve”. Sono loro gli interpreti siciliani più autorevoli e carismatici della “Sicilia Antica”, assieme ad Antonino Pasqualino, sul versante dell’Opera dei Pupi, e Giovanni Ruffino, rigoroso e appassionato “custode” delle tante lingue siciliane. A tutti loro si deve la riscoperta “consapevole” della cultura isolana, nelle sue diverse declinazioni, senza distinzioni di “genere” o di “classe”, con un lascito di opere di altissimo valore e di una schiera di studiosi e studi di seconda, terza e quarta generazione, fedeli agli insegnamenti del “centenario” padre Pitrè.
Un’azione tenace, costante, di ricerca e studio, spesso controcorrente, certamente di moto contrario alla fulminante freccia del cambiamento e alle tumultuose mutazione sociali ed economiche planetarie, e perfino antropologiche dell’odierna società digitale, che si è opposta alla strisciante mistificazione e all’azzeramento, e all’omologazione del “vicino” e “lontano” e delle “diversità”, impietosa e senza anima. E ciò ha consentito di salvare uno straordinario patrimonio culturale siciliano costituito da beni “materiali “ ed “immateriali”, che affonda le sue radici nel mito e nelle antiche civiltà mediterranee. E in relazione a questo vastissimo catalogo sull’universo di forme culturali siciliane di tradizione orale, “tangibili” e “intangibili”, e in specie, al catalogo multimediale, c’è da segnalare il Cricd (Centro regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione, e filmoteca), che si impone come polo istituzionale regionale di eccellenza, vero e proprio presidio di “frontiera”, in grado, da trent’anni a queste parte, di mettere al riparo tutti i preziosi materiali di ricerca, certosinamente recuperati da sicura dispersione. Documenti fotografici e filmati, materiali sonori e cartacei, tutti indispensabili, oggi più che mai, per una ricomposizione identitaria isolana profonda, e non di facciata, in grado di raccontare le tante storie e memorie orali siciliane legate profondamente al paesaggio agropastorale, e non solo. E ciò, per dare voce all’afasia della cultura popolare, sempre più flebile, non figlia di un dio minore, perché da sempre in dialogo con le culture “altre”e “alte”, e in grado ancora di aiutarci ad interpretare i mutamenti, tra permanenza e variabilità, della convulsa e irriducibile contemporaneità, e costruire un futuro che non recida definitivamente le radici.
Un’azione, questa, per niente agevole che si muove oggi dentro un paesaggio siciliano di natura e cultura, in alcune sue pregiate porzioni, irriconoscibile, violentato dall’inarrestabile saccheggio edilizio e deturpato, più recentemente, dai parchi eolici e solari, oltre che stravolto dagli interessi rapaci e predatori dei clan malavitosi dei pascoli e del rimboschimento, oltre che dalle coltivazioni “esotiche” intensive, al cospetto di un radicale passaggio epocale climatico.
Ed ora, alla ricca e “vertiginosa” lista multimediale di forme nobili di cultura popolare siciliana, si aggiunge questo nuovo originale e inedito contributo di ricerca antropologica visiva d’epoca, che ci restituisce una testimonianza di vita contadina, declinata al ciclo del grano, colta sul “far della sera”, ovvero collocata cronologicamente esattamente nel secondo lustro degli anni Ottanta del XX secolo (1986/87/88/89).
Siamo in provincia di Messina, in una piccola porzione del territorio dei Nebrodi, e, zummando sulla mappa di Galati Mamertino, nella frazione San Basilio, ora, con la dissennata ipertrofia “palazzinara” irriconoscibile nella sua originaria natura di piccolo borgo rurale. E, stringendo ancora di più lo zoom, ecco contrada Santa Lucia, e “terre di mezzo”. Un paesaggio di media montagna siciliana segreto, nascosto ai più distratti, dal fascino discreto. Un vasto anfiteatro naturale frastagliato e avvolgente, incorniciato verso occidente, dalle taglienti creste rocciose del Crasto, precipiti nell’alta Valle del Fitalia, che diventano cortina boschiva a monte di Longi, oltre la storica “vedetta” masseria-fortificata du duchinu di Longi o Liazzu, su un terrazzo roccioso. A settentrione, oltre il dominante e “preistorico” pizzu Muieli, ecco, sullo sfondo, come quinta finale, sopra il bosco di Mangalavite, monte Soro, dal morbido profilo, con il suo riposante e perenne manto verde. Ad oriente, fra terra e cielo, il margine boschivo di serra Ucina, con a fossa a nivi, verso il Casale di Floresta. E proprio da questo crinale, come in un’ampia cavea, dai piani sbilenchi, dove si eleva a serra o Latru. si distendono, anche verso settentrione, riposanti declivi, dal chianu i Crapari fino a giù nella valle, dove scorre il torrente San Basilio che incontra più in basso, a ridosso dell’altro corso d’acqua Firraru, il mulino “Inpriciotta”, di don Caloriu u mulinaru, prima, ad energia idraulica a ruota orizzontale, e poi elettrico-meccanico.
Terre fecondate dall’uomo da tempo immemorabile, destinati al seminativo, a robba forti e laura, dunque al grano e cerali in genere, oltre che essere regno anche di capre e pecore. E in questa “terra antica”, allo sguardo più attento, ecco “germinare” forme arcaiche di pietra e vegetali, architetture “biodegradabili” li definiremmo oggi, destinati al lavoro e alla vita familiare, quali pagghiari e case rurali, tirate su con armacie (muri di pietre a secco), pali di castagno e tetti di ginestra e canali (tegole di laterizi).
Un estremo lembo di terra siciliana, quello Jalatisi, in quegli anni ancora sorprendentemente e strenuamente fedele agli insegnamenti dei padri-contadini, che ai nostri occhi emerge nitidamente, e quasi certamente, come ultima, remota “isola conservativa” di una pratica agraria siciliana di memoria millenaria, dunque arcaica nei gesti, nei mezzi e nei modi. E, così, la “terra antica di San Masì” diventa luogo elettivo di rilevamenti e, dunque, set di riprese filmate e fotografiche, secondo un progetto di ricerca di osservazione e documentazione, che è andato dipanandosi lungo il fluire stagionale di quattro anni, dal 1986 all’89, con un rigenerante e inaspettato “umano incontro”, ben oltre i canonici “protocolli scientifici”.
Uno sguardo partecipato e comparato, quello della nostra osservazione sul campo, che non ha mai avuto la necessità di ricorrere all’artificio della “ricostruzione in vitro”, peraltro assolutamente inutile, dal momento che tutte le azioni di lavoro contadino raccontate per immagini, erano pienamente funzionali ad un sistema di vita ancora condiviso e non completamente sfaldato, e, di sicuro, al massimo grado di “fedeltà vissuta”, in quella integra “cellula” familiare contadina dei Truglio. Ci siamo, dunque, incamminati lungo un sentiero antico ancora battuto, lungo il quale è stato solitamente sufficiente un primo o al massimo un secondo “ciak”, per ogni singola sequenza di lavoro contadino da documentare.
L’incontro con la famiglia “colonica” dei Truglio, mi piace ricordare, fu favorito dalla segnalazione di uno speciale “narratore” delle tante storie dei Nebrodi, Antonello Pettignano, ddu Sarvaturi, ovvero di San Salvatore di Fitalia, con il quale ero entrato in contatto da qualche tempo, guidato dai miei primari interessi di ricerca etnomusicologica, rivolti, in quegli anni, in particolare alla pratica degli strumenti da suono e musicali della tradizione, e alla prassi di canto monodico e polivocale, particolarmente radicati proprio nel territroio nebroideo. Ad accompagnarmi all’atteso, primo appuntamento sarà, tuttavia, un compaesano, amico della famiglia Truglio, Salvatore Fabio.
I flashback più nitidi, che riemergono ora, lontani esattamente trent’anni, dal primo incontro con don Salvatore Truglio, uniti ai tanti altri sedimentati nella memoria nei tanti e tanti altri incontri successivi, sono il suo sorriso appena accennato, timido e buono, ma accogliente; la sua faccia ieratica, scolpita a tratti forti dal lavoro nei campi; la sua parola parca, terragna, sempre quella necessaria, impastata di sacro rispetto alla natura, e sempre accompagnata da gesti lenti ed espressivi delle mani. E al suo fianco, ecco, riemergere la figura silenziosa e laboriosa, ospitale e rassicurante, dai modi semplici e gentili, di sua moglie, Maria Antonina Virgilio, del 1929, madre di nove figli. E ancora sento avvolgente e rassicurante il profumo e la fragranza del suo pane appena sfornato e delle sue saporite focacce.
Nella terra di Santa Lucia la famiglia dei Truglio vive dal 1957, quando don Salvatore, nato nel 1921, dunque 36enne, si lega a mezzadria con il cav. Antonino Parlagreco, jalatese, trasferitosi a Messina, proprietario della casa e di quella terra tutt’attorno aspra e forte, dominata a mezzogiorno dalla cresta rocciosa dei Banchi russi, che si sporge minacciosa, oltre il bordo superiore delle pignare (pini). L’orizzonte esistenziale di don Salvatore e dei suoi sei figli maschi e delle tre femmine scorre, dunque, nel segno di una fedeltà assoluta all’antica pratica di lavoro contadino, fonte di vita e benessere, su cui immaginare un futuro. E oltre Giacomo (1949), Antonino (1951), Giuseppe (!955) e Sebastiana (1958), anche i figli più giovani, quelli nati in successione negli anni sessanta, Lucia (1960), Calogero (1963), Eugenio (1965), Nunziatina (1968), e il più piccolo Biagio (1971), per niente attratti dai luccichii dei nuovi stili di vita, non pensano affatto di contestare l’antico “sapere-potere genitoriale” di quell’arcaica esistenza, come fanno magari i loro coetanei.
E così, con sorprendente naturalezza e consapevolezza condividono a pieno il sentimento paterno di legame indissolubile e necessario con la terra. Ho ancora negli occhi Biagio, appena quindicenne, mai sottomesso al padre, alle prese con la parigghia dei buoi da aggiogare all’antico aratro a chiodo, attento agli insegnamenti del padre e dei fratelli più grandi, Eugenio, ventenne, e Calogero, ventitreenne. Una dignità di vita discreta la loro, mai esibita, ma incarnata in gesti spontanei e diretti, parole semplici, umilmente e silenziosamente fieri ed orgogliosi della loro storia di vita, e per niente eccitati o “strafigurati” dalla nostra presenza “altra” e dai nostri mezzi di ripresa.
In quegli anni, nelle terre di San Basilio, i Truglio non erano certo gli unici contadini a coltivare il grano nel rispetto dell’antica pratica agraria, ma erano certamente gli unici, ad esempio, ad utilizzare i buoi aggiogati (parigghia) all’archeologico aratro a chiodo, da quattromila anni presente nell’area del Mediterraneo, necessario per l’aratura, la semina. Una coppia di buoi era richiesta, poi, per la stràula, la singolare slitta di legno, utilizzata esclusivamente per il trasporto dei regna (covoni), la stessa la osserviamo nel catalogo di scene siciliane di Jean Houel, nel suo memorabile viaggio di quattro anni in Sicilia, oltre la metà del Settecento. Il ricorso alla forza lavoro-buoi è centrale, infine, nella scena della trebbiatura (pisera), quando nello spazio circolare dove si scarminanu con il tridente i regna, le spighe di grano, incitati dal cacciante, trascinano le pietre macine (a petra i l’aria) collegate con una catena al giogo, nella formazione classica della parigghia, cui si aggiunge spesso, ed è questa una rarità, per sveltire i tempi di lavoro, anche il tiro da tre buoi (trinsicu).
Gesti e mezzi di lavoro antichi inscritti, tutti, dentro una economia agraria familiare fondata sul “valore d’uso” dei frutti della terra, ad eccezione dell’allevamento dei vitelli da destinare in parte al mercato comunitario locale. La loro è, in altri termini, la rappresentazione, plastica ed esemplare, di una famiglia colonica che vive in mezzadria. Dal latino tardo, mezzadria indica «colui che divide a metà», ovvero formalizza un «contratto agrario, di memoria feudale, con il quale un proprietario di terreni concede al contadino (mezzadro o colono) il podere per la coltivazione dividendo a metà i prodotti». Patto stravolto, poi, nel tempo dalle angherie dei latifondisti, dei temuti gabellotti e degli autoritari soprastanti, fino a giungere nell’Ottocento alla condizione servile intollerabile dei contadini siciliani.
Ma torniamo ai Truglio. Loro vivono al piano terreno di una casa rurale, essenziale e spartana, anche nel profilo architettonico, ad un elevazione, a due falde. E tra i tanti ambienti anche uno destinato esclusivamente alla panificazione, con forno a legna e il canonico lettu du pani. Il piano “nobile” è destinato, invece, alla residenza stagionale del cav. Parlagreco e della sua famiglia, che a noi appare come ultimo, inconsapevole, e “buono erede” degli invisi baroni siciliani, per secoli, dominus degli sconfinati latifondi cerealicoli isolani
Oltre la casa, protesa come una plancia di nave sulla terra tutt’attorno da coltivare, l’edicola votiva a Santa Lucia, un vicino basso caseggiato adibito a stalla per il ricovero di buoi, vacche e vitelli (circa 15 in quegli anni), con deposito degli attrezzi di lavoro, e la cassapanca del grano; e, ancora, il contiguo pollaio, l’orto, e sui campi vetusti ceusi niri (gelsi neri), e, ancora, qualche capra e pecora, sufficienti per don Salvatore e la moglie per preparare due volte la settimana ricotte e formaggi. Ecco, sono tutti questi gli elementi costitutivi e le parti “armoniche e indivisibili” del paesaggio rurale della terra di Santa Lucia, entro il quale è immersa la scansione esistenziale della famiglia Truglio sul finire degli anni 80 del secolo scorso, in una sorta di estremo, sano e ultimo esempio di “ecologia contadina”.
Le ragioni principali della sopravvivenza del “microcosmo granario galatese”, in quelle stagioni di tumultuose mutazioni sociali, economiche, e dunque, antropologiche, sono, io credo, da ricercare essenzialmente nei singolari fattori ambientali, declinati ad un massimo grado di resistenza di fedeltà alla tradizione, e dunque alle sue pratiche agricole, pienamente funzionali ai bisogni alimentari familiari di quella piccola comunità. E dunque, iniziamo dalla terra, dalla sua natura ed esposizione, ideale da sempre per la coltivazione del grano, in un ampio campionario di varietà di grano, dal tenero al duro, che non consente, per i pronunciati piani inclinati, e la polverizzazione della proprietà, l’uso di mezzi meccanici, quali le motomietitrebbiatrici, giunte ad un certo punto in quelle remote contrade per una sorta di “test di modernità”, ma subito messe da parte, perché incompatibili con la morfologia dei terreni e, poi, davvero, antieconomiche. Altri due elementi decisivi sono da individuare nella esclusiva disponibilità di piccoli appezzamenti di terreno, dati ancora in affitto dal Comune a basso canone annuale, destinati appunto alla coltivazione del grano, indispensabile, ecco la seconda risolutiva ragione, per soddisfare la domanda di farina per la panificazione domestica, solitamente svolta a cadenza settimanale, con l’impiego di farina tenera e dura, e la preparazione dei maccaruna cu firrizzu, ancora puntualmente praticate in quegli anni dalle donne in quasi tutte le case galatesi.
Alla diffusa, ma polverizzata coltivazione del grano, che si spinge su in alto, al limitare del bosco, fino a Marteddu e Jaddinu, fa dunque da contraltare l’esteso feu di Santa Lucia, di quasi tre sarme (quasi quattro ettari), di cui sono, come abbiamo visto “signori contadini” incontrastati i Truglio. Loro vantano infatti la più alta produzione di grano in quel territorio, stimabile in circa 3000 kg l’anno, nella ciclica e alternata rotazione/riposo, fra foraggio (sulla) e seminativo, che comprende, fra il tenero e il duro, ben sei varietà, dal Trentinu al Preziusu, dal Maiorcu al Maiorcuni, da Robba forti al Tripulinu.
Ed ora, a ricongiungere il grano di Galati Mamertino a quello delle “Marine” dell’entroterra siciliano, delle agrotown dell’Ennese e del Nisseno, ecco il riaffiorare dalla mia memoria sonora la voce di un cacciante jalatese che, nell’incitare il suo mulo intorno all’aria debordante di spighe di grano, cu suli a piccu, intona i muttetti di lu pisatu. La sua voce penetrante viaggia nell’aria estiva vaporeggiante del mezzogiorno e mi giunge, come una eco del passato, dal basso, da limitare della valle, oltre il torrente san Basilio, mentre siamo impegnati nelle riprese filmate della pisera (trebbiatura), con parigghia e trinsicu a Santa Lucia, con i Truglio. Non perdo un attimo, mi metto sulle sue tracce assieme a Giancarlo Ferito, l’operatore di ripresa. Risaliamo la strada che conduce a Portella Gazzana, e all’altezza di una curva, a ridosso di un terreno, da lì a poco destinato a Campo sportivo comunale (!), si materializza la scena della pisera. Al centro dell’aria il cacciante, che di lì a poco scoprirò essere Peppino Fabio, sul bordo, la moglie, che con il suo tridente di legno, rimette le spighe di grano al centro, dove il mulo, incitato e guidato dai taglienti e cadenzati versi intonati a piena voce dal cacciante, le calpesta nel suo circolare ed ininterrotto movimento. Ed è proprio questa sequenza filmata a far da “prologo” al docufilm della ricerca sul ciclo del grano a Galati Mamertino, oggi disponibile.
Peppino Fabio, oltre ad essere uno straordinario interprete degli arcaici versi di lu pisatu, impastati di “sacro e fatica”, scopro, proprio in quel primo incontro, essere stato protagonista, assieme a tanti altri compaesani, fino all’inizio degli anni Settanta, della migrazione stagionale bracciantile per rispondere alla domanda d’opera, per mietere le ampie distese a grano della Sicilia centrale. Si formavano, mi racconta, attorno ai cugghituri, riconosciuti leader sperti e scaltri (raccoglitori degli èrmiti, unità base di mazzi di spighe di grano, per formare con 13 i regna/covoni, con l’ausilio dell’ancinu e del croccu) squadre di mietitori, in numero di sei. Le opre, con falci e mute (ricambi essenziali), erano tantissime quelle che partivano dai paesi nebroidei, dopo circa dodici ore di cammino, a metà maggio, raggiungevano, le agrotown del centro Sicilia, allora Catenanuova, Villa Rosa, per essere ingaggiati, dopo trattative anche animate, influenzate dalla “maturità del grano”, dai soprastanti, mediatori dei latifondisti, e accompagnati, nei campi da mietere, lavoravano per settimane da spunta du suli finu a codda du suli, alternando brevi soste per le tre colazioni, alternate all’esecuzione di versi di ringraziamento (cumpagnu ti passu lu Signuri) ai Santi tutelari, ma anche di timida protesta per le condizioni di lavoro, e canti, in stile polivocale, anche di contenuto devozionale, primo fra tutti a Sarvi Rriggina. E Peppino Fabio, che è stato il nostro provvidenziale “nocchiero” che ci ha portato dritti dritti, alle sconfinate “Marine di grano” del cuore della Sicilia, lo ritroviamo ancora sulla scena di mietitura, nei campi più alti di grano di Galati, quelli di Jaddinu e Marteddu.
Il maestro fotografo Giangabriele Fiorentino, autore degli scatti proposti, in prima assoluta, dalla mostra e dal presente catalogo, grazie alla generosità e rara sensibilità mostrate da Rocco Crimi, presidente della Fondazione omonima, su progetto del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani, entra sulla scena del grano galatese nel 1988. Ovvero, quando maturò la piena consapevolezza che, alla già ricca documentazione filmata e fotografica raccolta, bisogna aggiungere un “valore aggiunto”, ovvero una ulteriore qualità narrativa fotografica di alto livello formale e sostanziale.
Non faccio fatica, in verità, a convincere Giangabriele, ad accompagnarmi e a condividere fotograficamente la ricerca ettnoantropologica a Santa Lucia. Lo avevo conosciuto qualche anno prima e apprezzato, non solo per l’alta scuola fotografica di cui era già in quegli anni espressione, ma per la sua naturale attitudine, conoscendo la sua passione per la caccia, a raccontare storie fotografiche di cultura materiale di tradizione. E così inizia, proprio con Giangabriele Fiorentino, in un gioco di complicità e di un comune sentire, la fase finale della ricerca sul grano a Galati Mamertino, quella fra il 1988 e l’89. Una collaborazione davvero virtuosa, la nostra, lo posso ben dire ora a distanza di sicurezza di trent’anni, che pone alla ricerca un sigillo narrativo visuale prezioso e di alta espressione fotografica, probabilmente unico nel più vasto orizzonte siciliano.
Le riprese fotografiche di aratura, semina, sarchiatura, mietitura e trebbiatura, sommeranno alla fine, dopo due anni (dal 1988 all’89), un catalogo, fra pellicola ilford bn e dia kodak, quindi di alta definizione tecnica, con il ricorso a fotocamere reflex e ottiche altamente professionali (dai 28 agli 80mm), di oltre 500 scatti, configurandosi come il repertorio fotografico sulla coltivazione del grano in Sicilia, secondo le arcaiche pratiche di lavoro, più esteso e puntuale, sul duplice registro della qualità formale e narrativa, oltre che di grande pregio estetico, mai comunque debordante e compiaciuto. Carattere distintivo dello sguardo fotografico di Giangabriele Fiorentino, da noi cercato e pienamente condiviso, un taglio narrativo in grado di restituire un’aurea di sacralità e purezza originaria del gesto contadino, e del profondo e arcaico legame dell’uomo con il suo quotidiano orizzonte esistenziale, l’ambiente naturale “addomesticato” e i suoi fedeli e pazienti compagni di lavoro, i pacifici e familiari buoi. Ed ora, pensate, da questo ricchissimo catalogo, se ne propongono alla conoscenza, dunque, alla fruizione solo diciannove scatti in b/n, sufficienti, comunque, per introdurre il racconto sul ciclo del grano a Galati Mamertino, con una sequenza essenziale, magari icastica, in grado, comunque, di guidarci dentro un universo contadino per sempre perduto, che ancora oggi emoziona e invita riflettere su questa perduta armonia andata in frantumi fra uomo, terra e cielo.
Il penetrante e sensibile occhio fotografico di Giangabriele Fiorentino, sempre alla ricerca di un perfetto equilibrio tecnico, formale, narrativo ed estetico, che con al centro l’homo faber, in quei fervidi anni, mi piace ricordarlo, si è spinto anche oltre il feu di Santa Lucia, documentando la mietitura in contrada Marteddu e Jaddinu, su in alto al limitare del bosco di Ucina, per poi riprendere a San Giorgio, sullo sfondo del pagghiaru, al limitare dell’aria le fasi di pisatura con il ricorso a due muli appaiati.
Ed ora, che si parla dei rinati grani antichi di Sicilia, quasi che fossero riemersi da uno sconosciuto e sotterraneo fiume carsico isolano, con le doverosi lodi alle nascenti microfiliere del centro Sicilia, decise a riaffermare il primato del grano duro siciliano, quali ad esempio quelle di Hymera e Halicos, ecco la restituzione di una esemplare storia fotografica contadina tutta siciliana, cui si aggiunge, ricordiamo quella filmata, declinata alla memoria del grano nebroideo. Non certo una fuga nostalgica verso un passato irrimediabilmente perduto, quella offerta dalle immagini ricolme di vita vissuta a stretto contatto con la terra, ma l’invito ad riflessione profonda attorno al tema contemporaneo e problematico dell’urgenza di un recupero di una “casa comune”, di cui, dicevamo prima, parla anche papa Francesco nella profetica enciclica Laudato Sii. Una “casa comune”, mai più “delocalizzata”o virtuale, ma viceversa fortemente centrata sull’identità integrata ed organica della cultura del territorio, e quindi dei suoi caratteri “fisici e morfologici” da difendere dal consumo dissennato dei suoli e da preservare dal ricorrente e catastrofico rischio idrogeologico. E tutto ciò in un disegno virtuoso di “nuova vita armoniosa con l’ambiente naturale”, che non può e non deve estirpare le sue profonde radici contadine, anzi proprio da queste può trarre linfa vitale e saggi insegnamenti per una armonica crescita, auspicando alle nuove generazioni un futuro siciliano migliore.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
[*] Si pubblica in anteprima il testo di un catalogo della mostra Scene di vita contadina sui Nebrodi, che sarà inaugurata il 17 luglio a Galati Mamertino per iniziativa della Fondazione “Sebastiano Crimi”. La mostra, curata da Mario Sarica, espone una selezione di immagini di Giangabriele Fiorentino.
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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