di Benedetto Coccia e Franco Pittau
Quello che viene anche chiamato esodo o fuga dei cervelli è una questione di attualità, che andrà sempre più affermandosi come rilevante per il futuro dell’Italia. Una veloce premessa statistica porta a sottolineare che i laureati andati a lavorare all’estero sono stimati pari a 450mila, mentre i laureati stranieri in Italia si aggirano sul mezzo milione. Queste le conclusioni alle quali si perviene nel volume Le migrazioni qualificate in Italia: ricerche, statistiche, prospettive (Idos ed., 2016), curato per conto dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, raccogliendo contributi analitici e in larga misura innovativi sui vari aspetti di questo fenomeno.
Sotto il versante statistico va anche sottolineato l’andamento attuale dei flussi in uscita. Rispetto agli inizi di questo secolo la componente degli italiani che espatriano è sempre composta dalla metà che ha fruito di un’educazione superiore, tuttavia con queste caratteristiche: il loro numero è arrivato alle 102mila unità, come agli inizi degli anni 70, la componente dei laureati ha quasi uguagliato quella dei diplomati a quota 26mila e tutto lascia intendere che continuerà a crescere
La ricerca dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, nel riferire sulle ricerche condotte in precedenza, fornisce molte notizie sulla presenza dei laureati italiani all’estero:
- in diversi Paesi si riscontra un fiorire di associazioni, banche dati, siti e convegni degli “expats” (così vengono chiamati i protagonisti delle nuove migrazioni), le cui forme di aggregazione presentano caratteristiche molto differenti da quelle tradizionali;
- nel Regno Unito operano circa 2.200 accademici in università e centri di ricerca (stima dell’Ufficio scientifico dell’Ambasciata italiana di Londra, che ha ispirato la nascita della Association of Italian Scientists in the UK);
- in Svizzera, presso il Cern di Ginevra, lavorano diverse centinaia di fisici italiani (tra i dottori di ricerca sono quelli che maggiormente si trasferiscono all’estero), ma la presenza è rilevante anche presso le strutture nazionali della Confederazione, dove è molto alta la presenza straniera tra i dottorandi e tra i docendi;
- tra il 1997 e il 2010 si sono recati all’estero 10.584 professionisti italiani (medici, insegnanti delle scuole superiori, avvocati, architetti, ingegneri e altre figure), ma ancora più numerosi (mille in più, specialmente infermieri) sono quelli venuti in Italia (ricerca del 2010: Forum Nazionale dei Giovani/Cnel) e particolarmente apprezzati sono gli ingegneri italiani (ricerca del 2013: Page Personnel);
- sarebbero poco meno di 20mila i ricercatori italiani operanti all’estero, un quarto rispetto agli 80mila che vivono in Italia (ricerca del 2010 di “Scienza in rete”);
- tra i dottori di ricerca, si è trasferito all’estero il 7% di quelli che hanno conseguito il titolo nel 2004 e nel 2006 e il 13% di quelli che lo hanno ottenuto nel 2008 e nel 2010, con una incidenza maggiore per i dottori di ricerca nelle scienze fisiche, matematiche e informatiche (ricerche del 2009 e del 2014: Istat);
- negli Stati Uniti il gruppo italiano è tra i più numerosi tra gli scienziati europei e, secondo una ricerca del Cnr, sarebbero ben 25mila i professionisti italiani che occupano posizioni di alto livello negli Stati Uniti (3.500 di loro in ambito accademico).
Rimandiamo per ulteriori dettagli alla lettura del libro, mentre qui intendiamo proporre i termini esatti della questione, riprendendo le parti sostanziali di uno dei capitoli da noi curati. Sono emersi due orientamenti contrapposti, con diverse posizioni intermedie: il primo enfatizza l’entità dei flussi in uscita, mentre il secondo ne ridimensiona la portata. Questo confronto non sempre è stato sostenuto da un supporto adeguato dei dati statistici o quanto meno da un loro commento pertinente.
Un autorevole intervento sul cosiddetto “esodo dei cervelli”
Prendiamo lo spunto dall’intervento del 6 febbraio 2013, volutamente provocatorio a partire dal titolo (Fuga dei cervelli: o non c’è o non si vede. Per ora), del demografo Massimo Livi Bacci, e teniamo conto delle reazioni che ne sono seguite [1.]. Questo illustre demografo argomenta che le gravi condizioni della situazione giovanile (le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, il prolungato precariato, le magre risorse messe in campo per il diritto allo studio, la crisi economica che ha inaridito gli sbocchi professionali) non hanno aperto la porta ad una “fuga” dei giovani in generale, e dei più talentuosi in particolare, perché la crisi ha colpito anche i Paesi di sbocco di questi flussi. Inoltre, anche a voler utilizzare il termine “fuga” (ritenuto però inadatto), così come lo è il termine “cervelli” (per giunta offensivo nei confronti di chi ha studiato di meno ed è lo stesso un talento), le prove addotte a sostegno di questa tesi sono ritenute abbastanza inconsistenti, sia per la carenza di dati oggettivi, sia perché quelli esistenti non convalidano l’esistenza della fuga.
La domanda, correttamente posta, dovrebbe suonare così: “C’è una forte emigrazione di persone giovani, con alti livelli di istruzione, o comunque impegnati in attività e professioni connesse con la ricerca, la scienza, la tecnologia, l’alta formazione?”. Livi Bacci analizza una serie di dati (che in parte sono ripresi e ampliati in diversi capitoli di questo libro). L’indagine condotta dall’Istat nel 2011 sui dottori di ricerca (Istat 2011), che hanno conseguito il titolo nel 2004 (8.500) e nel 2006 (poco più di 10mila), indicano in generale una scarsa mobilità: l’81,6% di essi risultano vivere nella stessa ripartizione geografica; il 12% in una ripartizione diversa e il 6,4% all’estero (mille su 16mila, quindi una quota contenuta). È stata forte l’internazionalizzazione solo nell’ambito delle scienze fisiche (in questo settore il 22,7% dei dottori dimorava all’estero), trattandosi di un’area disciplinare che richiede di fare delle esperienze fuori d’Italia e conta tra i suoi dipendenti molte centinaia di fisici italiani.
Il XIV Rapporto di AlmaLaurea sulla condizione lavorativa dei laureati osserva (2014) che, ad un anno dal conseguimento del titolo di secondo livello, lavora all’estero il 6% degli occupati. La loro quota si riduce al 4% se si sottraggono al conteggio i laureati stranieri (in Italia) che ritornano in patria. Per giunta, a recarsi all’estero sono i laureati specialistici provenienti per la maggior parte da famiglie benestanti, che risiedono e hanno studiato nel nord Italia e hanno fatto delle esperienze all’estero già durante l’università (insomma, coloro che avrebbero minori ragioni per fuggire).
Secondo il gruppo editoriale scientifico del mondo Elsevier (uno dei maggiori del mondo) questi sono i risultati dell’analisi dei contributi scientifici prodotti da ricercatori italiani nel periodo tra il 1996 e il 2011, suddivisi tra queste tre categorie: i ricercatori stabili che fanno riferimento a istituzioni italiane; i ricercatori migranti (permanentemente all’estero o che vi hanno lavorato per almeno due anni, ivi inclusi anche gli stranieri venuti in Italia in maniera permanente); i ricercatori visitanti, affiliati all’estero per meno di due anni. Risulta che i ricercatori “stabili” sono quelli con minore produttività e minore “impatto” scientifico rispetto a quelli “visitanti” e che a, a fronte di una emigrazione permanente pari al 5,1%, vi è una immigrazione permanente del 4,3% .
Livi Bacci non manca di osservare che, negli anni ‘2000, il saldo delle registrazioni anagrafiche da e per l’estero, inizialmente positivo, ha cambiato segno ed è diventato negativo, mediamente per 12mila all’anno nel 2008-2011 (per un 40% riferibile a laureati). Tuttavia, il divario si annulla se si tiene conto del flussi in entrata e in uscita di cittadini stranieri, positivo per più di 300mila unità l’anno e che, secondo i dati Unesco, non sono numerosi gli studenti italiani che si recano nelle università straniere.
Pertanto, secondo Livi Bacci «se c’è crisi questa deve considerarsi molto leggera» e «le reali dimensioni della crisi o dell’emorragia o della fuga sono ridotte e non allarmanti»: si trova all’estero 1 dottore di ricerca su 15 (a 3-5 anni dal dottorato) e tra i laureati specialistici occupati (ad un anno dalla laurea specialista) 1 su 25 lavora all’estero. Sul piano operativo Livi Bacci chiede che si cerchino indicatori attendibili di questi flussi qualificati, che consentano di accertare l’esistenza e l’entità del deficit e, inoltre, di verificare se la crisi abbia depresso la mobilità o se il modello italiano di formazione (scarse esperienze di studio e lavoro all’estero, scarsa conoscenza delle lingue, scarso allenamento all’autonomia) renda l’impegno all’estero poco appetibile. Questa la sua conclusione: «Cerchiamo buone risposte, poi potremo studiare buoni rimedi. Ciò che dobbiamo evitare è indulgere nell’autocommiserazione, alimentandola con prove poco convincenti».
Come era negli auspici, questo intervento forte e argomentato ha provocato un ampio dibattito e sollecitato diverse precisazioni. Di seguito succintamente riportiamo i punti di vista emersi in tale circostanza nel merito del contesto italiano e del flusso dei laureati vero l’estero.
- L’Italia è una delle economie avanzate più povere di giovane capitale umano e vede la propensione a emigrare aumentare con il livello dei titoli di studio e, all’interno di questa categoria, si spostano maggiormente quelli più dinamici e motivati.
- L’anagrafe degli italiani all’estero (Aire) fornisce a questo riguardo pochi dettagli, perché in questo archivio vengono registrarsi solo quelli che si spostano all’estero per più di 12 mesi (ma non tutti provvedono al disbrigo di questo adempimento) e mancano o sono incomplete le disaggregazioni specifiche utili a riflettere sulle migrazioni qualificate.
- Il numero degli italiani che si cancellano dall’anagrafe per recarsi all’estero è in aumento e al suo interno i laureati, pur non costituendo la quota prevalente, sono in forte crescita e il loro spostamento si indirizza verso i Paesi maggiormente industrializzati,
- L’Italia è posizionata in basso nella graduatoria curata dall’Ocse sull’incidenza dei laureati tra i residenti di età tra i 25 e i 34 anni e, tra l’altro, non ha segnato un sensibile recupero).
- Il numero di ricercatori per mille abitanti è quasi dimezzato rispetto alla media dei Paesi più industrializzati.
- L’Italia, seppure per piccoli numeri, perde più personale qualificato di quanto riesca ad attrarre.
L’interpretazione del significato dei flussi di lavoratori qualificati rimane, comunque, controverso: «Da circa venti anni si confrontano due teorie relative alle migrazioni altamente qualificate. Secondo l’approccio circolazionista attualmente le “skilled migrations” sarebbero caratterizzate da moti policentrici, circolatori e di scambio, per cui sembrerebbe più opportuno parlare di “circolazione dei cervelli” e non di “fuga dei cervelli”. Molti studiosi, invece ribadiscono la validità del concetto di “brain drain”, soprattutto se riguarda la migrazione da un Paese in via di sviluppo ad uno tecnologicamente avanzato. In quest’ultimo caso, la principale preoccupazione sulla fuga dei cervelli riguarda la perdita di lavoro produttivo, la spesa di finanze pubbliche usate per educare i lavoratori che poi si trasferiscono altrove e l’impatto sulle trasformazioni economiche e strutturali» [2].
Notevoli diversità rispetto alla emigrazione italiana del passato
L’emigrazione, qualunque la categoria ne è protagonista, è sempre una fuga di “cervelli. Anche tra gli emigrati italiani del passato, quando i livelli di istruzione erano minimali, erano notevoli le risorse di intelligenza e creatività (anche se non attestati da un diploma o da una laurea), altrimenti non sarebbero spiegabili le loro realizzazioni nei diversi Paesi del mondo in campo agricolo, artigianale, professionale e imprenditoriale.
Si sofferma su questa “continuità discontinua” Carmine Cassino, che ha conseguito a Lisbona il dottorato di ricerca, in un efficace intervento intitolato La (insopportabile) retorica dei cervelli in fuga) del 23 settembre del 2014, che è apparso sul suo blog ospitato dal Quotidiano della Calabria e di cui riportiamo ampi tratti [3].
«Pur essendo un lucano che ha deciso di emigrare all’estero per provare un (difficile) percorso di specializzazione accademica, come tanti altri italiani della mia generazione, sono stato giocoforza catapultato nella retorica della “fuga dei cervelli all’estero”, che però non mi ha mai appassionato e anzi ho trovato sempre particolarmente fastidiosa, fuorviante nonché sostanzialmente falsa nella rappresentazione che vuole dare. Perché? Tenendo da parte l’ambito soggettivo (non ho mai creduto di essere una risorsa insostituibile per la mia comunità), se prendessimo per vero il paradigma della fuga dei migliori significherebbe, per converso, che chi rimane sia sostanzialmente uno stupido (quando invece, date le attuali condizioni della nostra regione e del nostro Paese, chi decide di restare per provare a cambiare le cose è un vero eroe). […] Perché mi pare abbastanza scontato riconoscere che non basta metter piede o piantare le tende oltre confine per trasformarsi repentinamente in menti illuminate (se basicamente siamo dei mediocri lo saremo tanto a Lauria quanto a Sidney); ancora, perché quel concetto è intriso di una sorta di postmodernismo dell’emigrante, per cui i cervelli hanno cominciato ad andarsene negli ultimi venti anni, cioè quando nel passaggio alla comunità tecnologica si è realizzata una selezione della specie, che ha destinato al viaggio verso realtà più gratificanti professionalmente una ristretta élite di giovani rampolli della scienza e della conoscenza. Infine, perché se fosse vero (cosa che a mio modesto parere, lo ribadisco, non è) vorrebbe dire che tra i milioni di italiani e le centinaia di migliaia di lucani emigrati all’estero tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra non ci sia stato nessun cervello dotato di acume e genialità: infatti non si fa mai riferimento all’esodo di massa come possibile esodo di cervelli. Vi è in questa concezione una profonda connotazione “di classe”: siccome ad emigrare in quella lunga e dolorosa epopea fu sostanzialmente povera gente, si ignora o peggio si accetta implicitamente l’idea che in quell’esercito di diseredati non potesse albergare quelle che oggi chiameremmo “eccellenze”; che tra i tanti che furono costretti a espatriare non vi fossero i germogli di una migliore rappresentazione della nazione all’estero. Sappiamo che la storia dell’emigrazione e molti suoi esempi sconfessano questa visione. […] Dunque, secondo il mio punto di vista (e non si colga nell’affermazione che segue una provocazione, perché non c’è), costituiva la fuga di un cervello all’estero – nella sua specifica dimensione socioeconomica – anche l’emigrazione di un maestro calderaio rivellese che esportava la sua maestria in tutti gli angoli del mondo, contribuendo sia alla diffusione di un mestiere, sia alla sempre maggiore specializzazione della manodopera.
[…] La maggiore differenza tra quel maestro calderaio e le più giovani e brillanti intelligenze dei nostri giorni sta, sostanzialmente, nella differenza dei tempi e nel grado di discrezionalità della scelta: negli anni bui della grande diaspora italiana la miseria non lasciava alcun margine al libero arbitrio. Le nostre scelte di emigranti del nuovo millennio, invece, seppur connotate dalla sofferenza del distacco e indotte dall’assenza di opportunità, sono frutto di riflessioni ponderate e attente valutazioni (parlo in termini generali, riconoscendo che esistono eccezioni e casi particolari). Cento anni fa difficilmente si rimuginava sulla meta, bensì ci si affrettava a partire; poco spazio era concesso all’immaginazione (soprattutto sull’attività che si sperava di andare a svolgere, in quanto fondamentalmente una valeva l’altra), e il luogo di destino era stabilito da quella dinamica detta “effetto di richiamo”, per cui si andava solitamente dove già esistevano comunità di origine (pensiamo alla catena parentale/amicale che nel corso degli anni portava alla costituzione – nella nazione di arrivo – di altri e più grandi Paesi rispetto a quelli che si lasciavano in Basilicata; si pensi ai casi dei rotondesi o dei pescopaganesi in Argentina).
Nel caso dell’emigrazione degli ultimi venti anni – secondo la comune vulgata un esodo di Aristoi verso terre di migliore accoglienza e con migliori condizioni di lavoro (ma sarà veramente cosi?) […] le dinamiche proprie all’emigrazione di massa del secolo scorso non valgono più, ovvero sono molto marginali: si sceglie solitamente il luogo di destinazione in base alla valorizzazione delle competenze acquisite a livello intellettuale, professionale, universitario. Insomma se ho studiato per fare l’ingegnere nucleare, molto probabilmente sceglierò di emigrare in un posto in cui avrò l’opportunità di spendere la mia formazione, con scarsa propensione ad accettare mansioni di rango inferiore o comunque con una disponibilità a farlo limitata all’attesa di una sistemazione all’altezza delle mie aspettative».
Carmine Cassino conclude il suo intervento rivolgendosi a quanti oggi partono e augura loro, anziché limitare la loro ambizione a essere dei “cervelli”, di voler diventare donne e uomini capaci di tutto e perciò veramente utili.
Un fenomeno dalle dimensioni mondiali
Questo fenomeno ha dato adito a due letture contrapposte, come sottolinea Alessandro Rosina, noto cultore della materia:
«Quello dei “cervelli in fuga” verso l’estero è forse uno dei temi che presentano il maggior divario tra alta presenza nel dibattito pubblico e bassa conoscenza del fenomeno. La combinazione tra carenza di dati e complessità della materia genera un ampio ventaglio di posizioni diverse: c’è chi afferma che si tratta di una bufala e che i valori sono irrisori, chi dice che in ogni caso è un bene che i giovani se ne vadano dove possono trovare migliori opportunità, chi infine sostiene che si tratta di un vero e proprio esodo dei nostri migliori elementi, dannoso per l’Italia» [4].
Un articolo del 20 gennaio 2007 su La Stampa riferisce con una certa enfasi su settecento italiani a Londra, giovani e di successo, in grado di dare lustro a un Paese come il nostro, nel quale però quasi certamente non potranno mai tornare a lavorare [5]]. Di segno diverso e anticipatore della posizione critica sostenuta da Massimo Livi Bacci a distanza di anni è stato quello di Lorenzo Beltrame (Beltrame 2007), dell’Università di Trento, nel suo volume apparso nel 2007 con il titolo Realtà e retorica del brain drain in Italia. Statistiche, definizioni pubbliche e interventi politici, che verrà poi ripreso anche nel capitolo dedicato alla bibliografia. L’autore, agli antipodi dai titoli a sensazione e dalle indagini affrettate, ritiene sovrastimato il numero dei laureati e dei ricercatori all’estero e sottolinea altresì che il problema non è solo italiano perché si pone in diversi Paesi, anche a livello quantitativo più consistente di quanto avvenga da noi. L’Italia si distingue, invece, per la sua scarsa capacità di attrazione di personale qualificato dall’estero. In particolare, tra il 1996 e il 1999, il numero dei laureati andati a risiedere all’estero non ha mai superato le 4 mila unità l’anno e il livello è stato basso anche successivamente. Secondo i dati Ocse, nel 2000 il tasso di espatrio dei nostri laureati è pari al 7% dei totale, quindi da ritenere non particolarmente drammatico. Semmai, secondo Beltrame, a risultare insoddisfacente è l’immigrazione dall’estero così come è andata realizzandosi, perché l’Italia non si è dotata di programmi che facilitino l’immissione di personale altamente qualificato. Viene sottolineato che, secondo i dati Ocse del 2005, solo il 12,5% di quelli che entrano in Italia possiede una formazione universitaria, mentre la percentuale è doppia in Spagna e tripla in Gran Bretagna. Nel libro si precisa anche, in base alle statistiche Ocse, la ripartizione dei 294.767 laureati italiani residenti all’estero nel 2005: 118mila in Europa (in testa la Francia, con oltre 27mila presenze, seguita dal Regno Unito con 23mila e dalla Svizzera con 20mila) e, oltreoceano, 94mila negli Usa (particolarmente presenti nel settore accademico) e 40mila in Australia.
È in questo contesto che l’Istituto di Studi Politici S. Pio V ha maturato la decisione di entrare nel merito della questione, concentrando l’attenzione sulla documentazione statistica (riguardante gli archivi ufficiali e le ricerche campionarie) e prestando attenzione non solo ai flussi di lavoratori qualificati in uscita ma anche a quelli in entrata. Bisogna, infatti, tenere conto che l’Italia negli anni ‘2000 è diventato uno sbocco importante per immigrati provenienti da diverse parti del mondo, i quali hanno triplicato la loro presenza e hanno raggiunto la soglia dei 5 milioni. Anche questi immigrati contano al loro interno una quota di persone con istruzione superiore, per cui il bilancio a saldo deve tenere conto non solo dell’esodo degli italiani ma anche dell’ingresso degli stranieri. Per un Paese come l’Italia, votato per motivi demografici a diventare sempre più un Paese di immigrazione, questa presenza potrebbe favorire quella circolazione di lavoratori qualificati in grado di assicurare un equilibrio a condizione che vengano perseguite precise politiche delle quali si parlerà.
Anche altri autori hanno condiviso questa lettura.
«In tutti i Paesi Ocse esiste un’intensa mobilità transfrontaliera, l’abitudine alla permanenza prolungata per lavoro, per studio, per bisogno economico, ben più massiccia dell’emigrazione dei cervelli italiani. Questo dicono i dati. Perché con una percentuale modesta di emigrazione “intellettuale” in Italia si grida allo scandalo? […] I dati esistenti spingono gli studiosi a considerare normale il livello di espatrio tra i lavoratori qualificati (con laurea o dottorato) rispetto al tasso di migrazione generale che è molto più alto. Nonostante tutto in Italia la cifra modesta dell’espatrio dei laureati viene considerata un’eccezione» [6].
L’impatto sull’esodo dei fattori strutturali
Non basta occuparsi dello spostamento fisico delle persone, tralasciando l’accertamento e l’utilizzo delle loro competenze. È risaputo che molti laureati italiani si recano all’estero per svolgervi mansioni di bassa qualifica, così come è ricorrente il caso di laureati, venuti dall’estero in Italia, per operare da manovali o da badanti, pur essendo stati in patria – ad esempio – insegnanti o ingegneri. Sia gli uni che gli altri fanno comunque bene a spostarsi, anziché continuare a essere sul posto un capitale umano da anni inutilizzato e addirittura costoso per le finanze pubbliche, mentre l’alternativa estera introduce concretamente a un lavoro remunerato. Ciò induce a essere più prudenti nell’équiparazione tout court di un titolare di diploma terziario che emigra alla perdita di un lavoratore qualificato o altamente qualificato: un manovale, seppure laureato, sarà pur sempre un lavoratore di bassa qualifica.
Sembra da tutti condiviso il fatto che la decisione di emigrare, seppure frutto di una personale valutazione, sia influenzata da aspetti strutturali riguardanti, ad esempio, il sistema universitario e il suo collegamento con il mondo delle imprese, la situazione della ricerca e dello sviluppo e l’attrattività di investimenti esteri, il mercato occupazionale e la sua regolamentazione, la fase congiunturale, la politica dei flussi dall’estero, la prevalenza che i profughi hanno assunto negli ultimi anni su questi flussi. La questione dei flussi di personale qualificato va necessariamente esaminata nel contesto di questi ambiti che costituiscono oggetto delle decisioni pubbliche.
Quindi, fondamentalmente, le cause dell’esodo sono due, di segno contrario ma correlate: la debolezza del sistema italiano sul piano dell’offerta di posti di lavoro a livello occupazionale qualificato (inclusa, innanzi tutto, la carente offerta del sistema universitario) e il livello più alto di aspirazioni professionali che caratterizza le nuove generazioni. Con questi due fattori si intrecciano anche motivi familiari e, sempre più spesso sul piano delle motivazioni personali, l’interesse a una esperienza all’estero per completare la propria formazione e, tra i più dotati di talento, l’inserimento nei centri più qualificati della ricerca mondiale.
Senz’altro non sono pochi (e negli ultimi anni il loro numero è andato aumentando) i laureati che lasciano l’Italia per sottrarsi alla penosa condizione di essere costretti a non fare niente.. A ciò si aggiunge il fatto che l’Italia si differenza dagli altri Paesi non per il flusso di lavoratori qualificati in partenza, in diversi di essi più consistente rispetto a noi, bensì perché in Italia è più bassa l’incidenza percentuale dei laureati sulla popolazione residente ed è proporzionalmente contenuto il numero dei nuovi laureati che ad essi si aggiungono, per cui sarà difficile conseguire l’obiettivo proposto a tutti gli Stati membri dalla strategia di Lisbona, che consiste nel far sì che entro il 2020 i laureati incidano complessivamente nella misura del 32%- 40% sui residenti della fascia di età tra i 30 e i 34 anni.
Per l’Italia, il maggiore problema consiste non tanto nell’emigrazione di un certo numero di laureati bensì nel numero annuale dei nuovi laureati e nella debole capacità attrattiva di laureati dall’estero o, qualora questi si siano già insediati sul territorio nazionale, nella scarsa capacità di di valorizzarli in maniera confacente, contenendo il fenomeno della sovraistruzione rispetto ai lavori loro assegnati (diffuso, peraltro, anche tra gli italiani). Il nodo cruciale è la mancanza di posti qualificati da offrire a quelli che hanno studiato per qualificarsi, sia italiani che immigrati.
Per contenere le uscite e favorire i rientri, la soluzione più efficace non consiste tanto nell’approvazione di disposizioni incentivanti del ritorno attraverso la previsione di apposite facilitazioni, il cui impatto è positivo ma non determinante, bensì nel varo di interventi strutturali in grado di rendere il mercato occupazionale italiano attrattivo per forza intrinseca rispetto agli altri contesti nazionali e intervenendo, pertanto, su aspetti fondamentali quali la stabilità dell’impiego, la remunerazione, il supporto adeguato alle ricerche da effettuare. Si entra così nel merito della ricerca e dello sviluppo in Italia.
Un caso significativo di andamento negativo è stata, nel mese di settembre 2009, la chiusura del Centro Irbm di Pomezia, una struttura di eccellenza per le ricerche biomolecolari della multinazionale farma- ceutica Merck [7]. Questo centro, nato nel 1990 come joint venture tra Merck e l’italiana Sigma Tau, dal 2000 è stato di proprietà della sola Merck. All’Irbm è stato scoperto l’Isentress, un farmaco che ha rivoluzionando la terapia dell’Aids. Oltre alla ricerca applicata l’Irbm ha contribuito all’avanzamento della ricerca di base con decine di pubblicazioni nelle più prestigiose riviste del mondo, e anche alla formazione di centinaia di studenti e dottorandi, specialmente delle università di Roma. La fusione della Merck con un’altra grande azienda (Schering Plough), che ha consentito di creare il secondo gruppo farmaceutico su scala mondiale, ha comportato una ristrutturazione dell’azienda e il licenziamento di 7 mila dipendenti, tra i quali i 200 giovani ricercatori del Centro di Pomezia (età media 35 anni), provenienti dai migliori laboratori di ricerca del mondo. Per essi non c’è stata altra via se non l’esodo. Il “sistema Italia” ha visto svanire gli effetti dei sostanziosi contributi pubblici concessi e ha assistito alla fuoruscita (pesante in termini finanziari) di diversi brevetti generati in Italia.
Di segno positivo, invece, è stato il caso di Torino, dove ha sede il General Motorsm Powertrain Europe (GMPT-E), creato 10 anni fa. Questo centro è stato così presentato da Dan Amman, presidente della General Motors:
«Gmpt-E è un ottimo esempio di competenza che ci permette di godere di un vantaggio strategico sul mercato. Il lavoro che svolgiamo a Torino rappresenta il massimo livello di una delle nostre competenze fondamentali. Intendiamo raggiungere la leadeship tecnologica in ogni campo, non solo nel diesel. Il Gmpe, di cui fa parte Gmpt-E, ha quasi 9 mila dipendenti con 21 organizzazioni in 15 paesi diversi. Solo in Europa lanceremo 17 nuovi motori entro il 2018, un progetto dove Gmpt-E ha chiaramente un ruolo di protagonista. Questo impegno dimostra la fiducia che riponiamo nella struttura italiana, sulla quale continuiamo ad investire perché vogliamo crescere non solo in termini quantitativi. Qui ci lavorano giovani molto competenti che hanno tanto talento, Vogliamo aggiungere altri ingegneri brillanti e motivati. Il Politecnico è un’eccellenza. Il nostro rapporto ha portato grandi risultati. Abbiamo fatto e faremo tutto il possibile per espandere la collaborazione. La crescita del Centro, che è passata da 60 ad oltre 600 dipendenti, è per noi un motivo di grande orgoglio» [8].
Merita, quindi, la massima attenzione il rapporto fruttuoso che può intervenire tra università e aziende al fine di unire fruttuosamente formazione, ricerca e produzione e assicurare notevoli vantaggi al sistema produttivo. Intervenendo a commento dell’inchiesta giudiziaria per ipotesi di illeciti intervenuti nell’estrazione del petrolio in Basilicata, il giornalista Marco Fortis ha perorato che venga superata «quell’ideologia anti-impresa», ritenendola di grave pregiudizio allo sviluppo del Paese:
«Riaffiora, ad ondate, quell’ideologia anti-impresa o anti-industriale che scorre sotterranea nel nostro paese: una ideologia davvero poco comprensibile, considerando che siamo la seconda potenza industriale d’Europa dopo la Germania e che gran parte del benessere che abbiamo raggiunto lo dobbiamo proprio al fatto di essere diventati una grande nazione manifattura riera, come dimostra il quinto surplus commerciale con l’estero al mondo dell’Italia nei manufatti, pari a 94 miliardi di euro nel 2013»[9].
«È importante tenere conto che, secondo i dati Istat, nel 2013 hanno operato in Italia 13.165 imprese a controllo estero con quasi 1,2 milioni di addetti. È stato l’export nel settore farmaceutico (medicine confezionate e vaccini), per cui si sono segnalate le province Latina, Frosinone, Ascoli Piceno, Bari, Pavia, Pavia, Rieti, l’Aquila (come prima voce nelle esportazioni) e quindi anche le province di Roma, Siena, Napoli, Catania e Milano. Queste multinazionali, al netto delle attività finanziarie e assicurative, hanno fatturato di 493 miliardi di euro e prodotto un valore aggiunto di 82 miliardi di euro e investito 11 miliardi di euro» [10].
Rilevanza dei cambiamenti strutturali sulle future prospettive
Poiché diversi aspetti relativi al fenomeno delle migrazioni qualificate sono di natura strutturale, è fondamentale il ruolo dei decisori pubblici per il raggiungimento di un più soddisfacente equilibrio nel settore. Qui basta limitarsi ad alcune recenti orientamenti assunti dal Governo in materia di ricerca e sviluppo. Ha ricevuto il sostegno di quasi 55mila firme la petizione lanciata nel 2016 dal fisico Giorgio Parisi, che ha chiesto alla Commissione europea di insistere sul Governo italiano affinché porti il finanziamento per la ricerca dall’attuale 1% al 3% del Pil, come deciso nel 2002 dal Consiglio europeo di Lisbona [11].
L’investimento in ricerca in Italia è molto basso (1,29% nel 2014 rispetto a un valore della media europea di quasi il 2%). Come riconosciuto nel Piano nazionale per la ricerca 2015-2020,
«il ranking europeo, elaborato nell’ambito dello IUS 20156, colloca l’Italia tra gli “Innovatori moderati” con una performance innovativa nelle attività di R&S al 2014 pari a quasi l’80% della media europea. Oltre al basso rapporto tra la spesa in R&S e il Pil, tra i principali punti di debolezza per gli investimenti in ricerca, sia pubblici che privati, troviamo la scarsa presenza di ricercatori nelle imprese e la bassa attrattività internazionale» [12].
Il presidente del Consiglio Renzi nel mese di marzo 2016 ha anticipato il piano per il futuro della ricerca in Italia, che prevede un investimento medio annuo di 2,5 miliardi ed è basato su questi aspetti prioritari: lo spazio, la biomedicina e l’agricoltura. Il piano è stato approvato dal CIPE nella sessione straordinaria del 1° maggio 2016. Altri 9,4 miliardi potrebbero essere messi a disposizione dalla Commissione europea, ma l’importo concreto dei fondi trasferiti dipenderà tal tasso di aggiudicazione che l’Italia riuscirà a dimostrare [13].
Passando dal livello nazionale a quello milanese, una riflessione va fatta sul “dopo Expo”, che ha alimentato forti speranze per quanto riguarda le auspicabili sinergie tra ricerca e sviluppo, valorizzando così l’attenzione riversata sull’Italia nel periodo dell’esposizione con concreti benefici per l’economia (non solo turistica) non solo dell’alimentazione e dell’area milanese. Atttraverso il progetto “Nexpo” si pensa al rilancio della città meneghina a livello scientifico-tecnologico e all’attrattività di investimenti con centri di ricerca agroalimentare ma non solo. Il Governo, che ha deciso di acquistare una vasta area dell’Expo, è intenzionato, insieme agli Enti locali, agli industriali e all’università, a rilanciare l’area come Polo scientifico-tecnologico con centri di ricerca e incubatori tecnologici, in cui far lavorare giovani laureati in “joint venture” tra università e imprese, attraendo investimenti e creando posti di lavoro ad alta qualificazione. Questo Polo tecnologico è stato pensato secondo una impostazione analoga a quella del Massachusetts Institute of Technology (MIY) degli USA e, sul versante europeo, ai modelli di trasformazione urbana realizzati negli ultimi anni a Londra, Berlino e Mosca [14]. Un primo passo in tale direzione è stato fatto dall’Ibm, che aprirà il primo centro in Europa nell’ex area dell’Expo nell’ambito del progetto Tecnopol prima richiamato. Un accordo del valore di 150 milioni di dollari è stato firmato alla fine del mese di aprile 2016 dal presidente del consiglio dei ministri Matteo Renzi a Boston, presso il quartier generale del Watson Health con l’Amministratore delegato di Ibm Genny Rometti [15].
La ricerca dell’Istituto “S. Pio V” conclude che in Italia l’immigrazione, insieme ad altri fattori (istruzione, ricerca, sviluppo), contribuisce a non abbassare il capitale culturale del Paese e conferisce uno spessore concreto a quella che viene definita “la circolazione dei cervelli” (che pure restano poco valorizzati). In presenza di uscite e di ingressi di lavoratori con un livello di istruzione superiore sarebbe più corretto parlare di reciproco arricchimento, valutandone l’impatto nel medio e nel lungo termine. Non va trascurato il fatto che la “circolazione dei migranti qualificati”, è ancora più accentuata in altri Paesi ad alto sviluppo. Ad esempio, nel periodo 1996-2011, secondo i dati dell’Ocse, 8.042 ricercatori tedeschi, autori di pubblicazioni scientifiche, si sono recati negli Stati Uniti, e 6.210 si sono trasferiti dagli USA in Germania. Il saldo negativo ha caratterizzato anche altri Paesi, ma in maniera più accentuata l’Italia. Diversi altri Paesi, però, riescono a creare più posti ad alta qualificazione, sollecitando l’inserimento degli immigrati
La tendenza dei giovani diplomati e laureati italiani a trasferirsi all’estero dovrebbe potersi basare maggiormente su una libera scelta. Diventa perciò indispensabile la corretta comprensione delle ragioni che spingono a emigrare: mancanza di un’occupazione o di un’occupazione confacente alla formazione ricevuta, non rispetto della meritocrazia e ristrette possibilità di avanzamento, forme contrattuali precarie, scarso sostegno ai progetti di ricerca, penuria dei servizi necessari, mancato collegamento tra l’università e il mondo produttivo, interesse al completamento della propria formazione con un’esperienza estera.
In conclusione, il problema del sistema-Italia non consiste tanto nella mancanza di personale con una istruzione superiore, quanto nell’incapacità di utilizzarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] http://www.neodemos.info/fuga-dei-cervelli-o-non-c-o-non-si-vede-per-ora/.
[2] M.Carolina Brandi, Cnr–Irppps, L’emigrazione dei ricercatori italiani”, http://www.senato.it/documenti/repository/commissioni/cqie/documenti_acquisiti/BrandiSENATO.pdf;
http://www.neodemos.info/le-migrazioni-dei-ricercatori-italiani/?print=print.
[3] http://www.ilquotidianodellabasilicata.it/blog/729898/La–insopportabile–retorica-.html.
[4] “Rassegnarsi o andarsene? La fin troppo facile scelta dei giovani italiani”, Intervento del 24 luglio 2014, Neodemos,http://www.neodemos.info/rassegnarsi-o-andarsene-la-fin-troppo-facile-scelta-dei-giovani-italiani/.
[5] “Genio a Londra si dice in Italiano. Riuniti a Westminster i cervelli che hanno lasciato il nostro Paese” http://www.lastampa.it/2007/01/20/esteri/genio-a-londra-si-dice-in-italiano-l1e5evwiSUuDqRB7PXa0H/pagina.html
[6] Robero Ceccarelli, “Il partito della fuga dei cervelli colpisce ancora”,
http://furiacervelli.blogspot.it/2012/12/il-partito-della-fuga-dei-cervelli.html.
[7]http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/manifesto-chiude-l-irbm-di-pomezia-e-fuga-di-cervelli-all-estero.flc;
[8] G. Ursicino, “Crediamo molto nell’Italia”, in Il Messaggero, 8 settembre 2015: http://confindustria.toscana.waypress.eu/RassegnaStampa/LetturaNL.aspx?dest=info@assindustria.lu.it&cod=082015SB5211809002.
[9] http://www.ilmessaggero.it/primopiano/politica/petrolio_ideologia_ripresa-1650513.html.
[10] Il Messaggero, 6 aprile 2016:12
http://www.ilmessaggero.it/primopiano/politica/petrolio_ideologia_ripresa-1650513.html. A loro volta le multinazionali italiane hanno fatturato all’estero 542 miliadi di euro, occupato 1,8 milioni di persone
[11] Giorgo Parisi, “Salviamo la ricerca”, https://www.change.org/p/salviamo-la-ricerca-italiana.
[12] http://www.istruzione.it/allegati/2016/PNR_2015-2020.pdf.
[13]http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-03-03/ricerca-ecco-piano-25-miliardi-072153.shtml?uuid=ACuXlYgC.
[14]http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/10/05/news/expo_dopo_expo_quattro_progetti_per_realizzare_il_mit_del_made_in_italy-124428843/.
[15] http://www.huffingtonpost.it/2016/03/31/matteo-renzi-centro-ibm-boston-area-expo_n_9583174.html.
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Benedetto Coccia, è il primo ricercatore dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” presso il quale è Coordinatore scientifico dell’Area Sociale, Umanistica e Linguistica. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università La Sapienza ed è autore di numerosi saggi, articoli e recensioni. Tra le sue pubblicazioni, segnaliamo alcuni titoli: Dalla caduta del muro di Berlino alla caduta di Wall Street. L’Europa dopo l’11 settembre 2001: la missione culturale del vecchio continente nel nuovo scenario geopolitico; Il mondo classico nell’immaginario contemporaneo; Quaranta anni dopo: il Sessantotto in Italia tra storia società e cultura.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
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