di Lilia Zaouali
I tunisini che hanno rischiato la loro vita per la Rivoluzione, e molti di loro l’hanno persa, sono nati e cresciuti nelle città e cittadine della steppa, nelle terre aride, dove il gelsomino fa fatica a crescere.
È opportuno ricordare che i protagonisti della rivolta popolare, che poi ha coinvolto un intero Paese, sono originati dal centro-ovest, una zona che ho visitato nel 2002, nell’ambito di una missione per lo sviluppo, promossa dalla Provincia di Torino e l’OIM (Ufficio Internazionale della Migrazione).In realtà, lo scopo era la ricerca di soluzioni per fermare il flusso migratorio verso l’Italia. La nostra prospezione dei luoghi, da Kairouan a Kasserine, Sbeilta, Fossana, Thela, era guidata dalle autorità e una consistente scorta di polizia. Non ci fu possibile nessun colloquio con i disoccupati, con i potenziali candidati all’emigrazione.
Sono rimasta colpita dopo la visita di un’azienda agricola, nella regione di Kasserine, co-finanziata da fondi europei. L’imprenditore era di Sfax, la seconda città della Tunisia. L’azienda usava mezzi di irrigazione moderni, per la produzione di varietà di pere e mele importate dall’Europa, tralasciando quelle autoctone più saporite, e coltivavano anche il kiwi. A pochi chilometri, ho visto dal finestrino della macchina, donne che camminavano chine sotto il peso di bidoni d’acqua sulle spalle, senza poter individuare il punto di rifornimento, il pozzo dove avevano tirato l’acqua, né il loro punto di arrivo, una casa, una tenda, un villaggio. Le donne sembravano camminare nel deserto.
Quasi dieci anni dopo, in occasione delle prime elezioni democratiche in Tunisia, nel mese di ottobre 2011, circa 70mila persone, per lo più, originarie della regione di Kasserine, avevano chiesto e ottenuto la carta d’identità a Biserta. Un esodo rurale senza precedenza. In quel periodo, la città era paralizzata dai molteplici e ripetuti scioperi operai e dalla chiusura di molte aziende straniere che operavano nella regione. L’arrivo di questa massa popolare creò molti problemi e provocò degli atteggiamenti negativi, mentre allo stesso tempo era in corso una accoglienza incondizionata dei profughi libici, e l’organizzazione di carovane umanitarie per soccorrere le popolazioni disastrate nell’Ovest del paese colpito da una nevicata di una rara intensità.
Oggi, cinque anni dopo, non se ne parla più. Gli animi si sono calmati. I nostri migranti interni sono integrati. Animati da uno spirito imprenditoriale innato, e dalla volontà di vivere in condizioni migliori, i nuovi arrivati si sono inventati dei piccoli mestieri, si guadagnano da vivere senza mendicare, e i loro figli vanno a scuola, senza dover percorrere chilometri a piedi, nel fango quando piove, sotto un sole scottante da maggio alla fine di giugno in distese senza ombra, o attraverso i boschi inquietanti del Nord Ovest.
Nel frattempo, molti tra i 20mila tunisini approdati in Sicilia nel corso del 2011, furono poco alla volta rimpatriati in Tunisia con 150 euro in tasca, offerti dall’OIM. Ne avevo incontrati alcuni all’aeroporto di Fiumicino. Chi era deluso perché aveva sprecato i suoi risparmi, o si era indebitato per pagare il passaggio con la convinzione di trovare subito un lavoro in Italia, come il giovane di Mahres, a sud di Sfax. Chi invece era felice di tornare a casa sua dopo aver vinto la sfida di arrivare in Europa senza visto d’ingresso, come il giovane parrucchiere, salpato con i suoi compagni a bordo di una barca rubata in un porticciolo del Capo Bon. Nel 2012, 4557 immigrati tunisini sono stati regolarizzati in Italia, probabilmente nel Nord Italia.
Avrei tanto voluto sapere com’era finita la faccenda di un ragazzo del porticciolo di Chebba, alla pronuncia Shebba, cioè “la bella”, un paesino vicino Mahdia, un ragazzo che lavorava, senza essere mai stato dichiarato, dall’età di 13 anni sui pescherecci di Mazara del Vallo, e che a causa della stagnazione della pesca, non aveva più lavoro e non sapeva dove andare. Gli avevo detto “Torna in Tunisia!”. Ma, lui era stato una volta arrestato dalle autorità tunisine, dopo che il peschereccio italiano fu sorpreso nelle acque territoriali. Aveva conosciuto la Tunisia nel carcere, e quando fu liberato, perché minorenne, non ebbe altra voglia che ritornare in Sicilia, ormai, la sua seconda patria, e ci ritornò, seguendo le vie clandestine del suo destino.
La ricchezza della Tunisia è la sua bella gioventù, come la definisce un’amica italiana, Ilaria Guidantoni, «Bella, motivata e piena di energia». Nel contesto attuale di incertezza, di crisi politica e disoccupazione, la nostra gioventù rappresenta la nostra unica speranza, perché orienta la nostra mente verso il futuro, un futuro da costruire per e con loro.
Durante la prima fase di transizione, i nostri giovani, i protagonisti della Rivoluzione, sono stati chiamati “Dittatori della rivoluzione” e le loro rivendicazioni sono state ignorate per lasciare via libera ai dibattiti tra i numerosissimi partiti politici, più di un centinaio, nati nel corso del 2011. La questione principale era la presa del potere. I più anziani se ne sono impossessati; politici sperimentati e competenti ma che ricordavano i regimi passati e politici dissidenti, militanti di un movimento islamista, diventato il Partito del Movimento Ennahdha, ma altrettanto rappresentato da vecchi lupi della politica.
Niente di nuovo all’orizzonte. “La nostra rivoluzione è rubata”, era il grido di rabbia che circolava sulle pagine di Facebook e nelle canzoni rap, e che i tag disegnavano sulle mura dei palazzi, in tutte le città del Paese. Ero in Tunisia durante il periodo che precedeva le nostre prime elezioni democratiche, e ho condiviso il sentimento di eccitazione generale, tra euforia e incertezza, che animava le nuove associazioni di donne che frequentavo, e specialmente l’associazione ATIDE (Associazione Tunisina per l’Integrità e la Democrazia delle Elezioni) di cui sono membro. La partecipazione dei giovani era minore e al momento pensavo che il loro disimpegno politico fosse dovuto al loro impegno negli studi, esami, eccetera. In realtà, si erano già distaccati dalla vita politica, erano smarriti in mezzo al caos creato dai professionisti della politica, avidi di potere e senza chiari programmi.
L’ho notato alle elezioni del 2011 e in quelle successive, mentre facevo l’osservatrice delle elezioni. Pochi i giovani che hanno votato e, molto spesso, il loro era un voto di protesta; un partito diverso di quello del padre o della madre. I giovani che hanno appena compiuto 18 anni, ragazze e ragazzi, avevano il diritto di votare. La sottoscritta, nata nel 1960, votava per la prima volta. Sono diventata maggiorenne all’età di 21 anni, mentre i mei compagni maschi lo erano un anno prima di me, all’età di 20. In realtà, sono diventata maggiorenne all’età di 51 anni, quando ho per la prima volta votato, e così pure mia madre che all’età di 74 anni, assieme a molte donne, che non uscivano mai di casa, se non per andare al cimitero o al bagno turco, si sono presentate al seggio elettorale del loro quartiere, per votare contro il passato. In pochi ma in massa, i molto giovani hanno votato per il partito di estrema sinistra, il Partito comunista dei lavoratori tunisini, diretto da Hamma Hammami che passò molti anni in prigione, e per il nuovo partito, Il Congresso per la Repubblica, di Moncef Marzouki, un medico militante per i diritti dell’Uomo, che era espatriato volontariamente, come per altro Rached Ghannouchi.
Questa era la situazione, per lo meno nella sede di voto dove ho svolto l’osservazione delle elezioni del 2011. Una cosa è sicura però; le elezioni democratiche hanno rappresentato il primo passo verso la costruzione della cittadinanza, del concetto stesso di cittadinanza che significa la libertà e il diritto di scegliere, il dovere di accettare l’altro e di rispettare la scelta della maggioranza. La transizione democratica è un processo che richiede tempo, non solo tempo ma anche impegno. Tuttavia il tunisino è impaziente, vive alla velocità dei ritmi urbani dell’Occidente, sotto la pressione della velocità della comunicazione digitale. Il tunisino non vive più al ritmo delle stagioni e dei lunghi anni di siccità, non invoca più la pioggia con le preghiere collettive e con l’appello melodico di Ommek Tango, che i bambini cantavano girando per le case del paese, alla cadenza della percussione dei cucchiai che battevano sulle piccole scatole di latta.
Ummek tango, yansâ,
talbet rabbî ‘asshtâ
La madre Tango, Oh donne,
A Dio, chiede la pioggia
Sono stati anni molto difficili: lo stato di emergenza, l’alternanza dei periodi di coprifuoco, gli attentati contro i giovani soldati nelle zone occupate dai terroristi e contro gli agenti della polizia davanti casa loro, l’assassinio dei politici Chokri Belaid e Anouar Brahmi, lo sgozzamento di giovanissimi pastori di pecore, gli attentati contro gli stranieri, per colpire l’economia del paese. Migliaia di giovani hanno risposto all’appello del djihad.
E nonostante tutto, la Tunisia resiste. Nonostante l’opinione pubblica negativa che i nostri media trasmettono dal momento che i giornalisti privilegiano gli eventi clamorosi, conflittuali e sanguinosi, e tralasciano le indagini sociali e le preoccupazioni dei giovani, i quali non guardano più la televisione, per fortuna loro. Oggi, la disoccupazione è alta e assai grave nei piccoli centri rurali dove non si lavora più la terra, dove l’artigianato sopravvive soltanto grazie alle donne, e negli ambienti turistici come l’ho notato ultimamente a Sousse, Monastir e Mahdia. In questa alta stagione, i pochi alberghi che hanno riaperto le porte, ospitano principalmente Russi, Polacchi, Cechi, Slovacchi e Tedeschi. Gli animatori delle serate hanno già imparato il russo.
Nelle città, l’opportunità di occupazione è maggiore e una gran parte della popolazione lavora senza essere dichiarata. L’idraulico, l’elettricista, l’imbianchino, il trasportatore, il giardiniere, tutti ragazzi molto giovani, che chiamo in caso di bisogno a Biserta, come pure la donna che fa le pulizie, una madre di famiglia, tutti lavoratori di libera professione non sono compresi nel calcolo degli occupati. Non fanno nessuna dichiarazione al fisco, non vogliono essere dichiarati, non pagano i contributi sociali e neanche noi, datori di lavoro, lo facciamo.
Ho provato a spiegare che, senza il pagamento di contributi, non avranno la pensione, che senza pagare le tasse, non possono pretendere dal comune un miglioramento dello stato della città. Mi dicono: «Se i più ricchi non pagano tutte le tasse dovute, ma solo un minimo irrisorio falsificando le carte, come per esempio molti medici che si fanno pagare 40 dinari la visita, perché lo dobbiamo fare noi, poveri, che raramente, ricaviamo questa cifra in una giornata di lavoro?». Sono invece tassati quelli che tengono bottega come Abdellatif, un trentenne che dal 2012 vende ceramiche nel centro storico di Biserta, dopo essere stato per ben 17 volte in carcere per consumo di droga. Abdellatif si è reinserito nella società? Sì, ma non proprio! Non trova moglie a causa del suo passato. Rimane molto alto il numero di tossicodipendenti e dei detenuti giovani per consumo di stupefacenti. Più del 53% dei detenuti nelle carceri tunisine sono accusati di possedere, consumare o spacciare droga. I consumatori di stupefacenti non sono né delinquenti né criminali. Come non lo sono gli orientamenti sessuali. Queste questioni non sono più tabù. Attualmente se ne discute al Parlamento.
A proposito dei detenuti nelle carceri, pochi mesi fa, Lina Mhenni, conosciuta per il suo attivismo durante la Rivoluzione e il suo blog, A Tunisian Girl, ha lanciato un appello per una raccolta di libri da destinare alle biblioteche dei 27 carceri e centri di riabilitazione. I Tunisini hanno risposto subito all’appello e ora esistono dieci punti di raccolta distribuiti in tutto il Paese. Segnalo che è in corso l’organizzazione di giornate di lettura per i detenuti e sono convinta che questa iniziativa sarà utile e proficua. È da notare che soltanto 4% dei detenuti sono analfabeti e più della metà hanno un’età compresa tra 18 e 29 anni.
Iniziative di questo genere, che non necessitano altro che la buona volontà del cittadino, e mezzi finanziari minimi da parte dei ceti benestanti del Paese, sono sempre più numerose. Piano piano, i meno giovani, cioè quelli che sono genitori e quelli che sono “single”, come la sottoscritta, senza figli, stanno coinvolgendo i giovani nell’impegno del volontariato, e non solo in quello culturale e sportivo.
Ho assistito alla festa di fine anno alla Facoltà di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Tunisel-Manar. Ho visto gli studenti recitare davanti a una platea al completo, di ragazzi e di ragazze in minigonna e altre con il capo coperto da un velo da festa. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’accompagnamento dei professori e del rettore, presenti alla festa, e che mi parevano incredibilmente giovani. Il primo spettacolo era Les plaideurs, una commedia di Racine, tradotta in dialetto tunisino dalla docente di Legge, Imen Abdelhak, che ha creato il primo atelier di teatro con alcuni studenti del primo e del secondo anno. Il tema, la corruzione nell’ambito della giurisprudenza, era trattato con molta ironia, in un ambito tipicamente tunisino, e senza tradire lo spirito dell’opera.
Lo stesso tema è stato ripreso nel secondo spettacolo teatrale, nel quale i protagonisti erano uno studente e i suoi professori. Quest’ultimi accusavano lo studente di pigrizia mentre lui denunciava i loro metodi di insegnamento. Ognuno cercava di giustificarsi davanti al giudice. Grandi risate quando lo studente descriveva la sua incomprensione di una materia nuova intitolata La transizione democratica e la lotta contro la corruzione: «Un giorno dicono che bisogna giudicare gli evasori, un giorno che bisogna perdonare. Non capisco più niente. Non dormo più!». La festa è proseguita con recitazioni di poesia, tra il ricordo del nostro grande poeta Sghaier Ouled Ahmed, deceduto il 5 aprile di quest’anno, e la lettura di poesie in arabo classico, ad opera di tre studenti di cui uno proveniente dalla Mauritania. È stata anche allestita una mostra di dipinti ed è stato presentato uno spettacolo musicale.
Quando l’Università si offre come uno spazio di creatività, c’è da sperare,a nche se mancava la presenza dei giornalisti. La voce dei giovani deve essere portata al pubblico, a quelli che prendono le decisioni, a quelli che abbiamo eletto, ai deputati della Camera, alla Presidenza. Mi rammarico del fatto che la prima grande mostra organizzata al Palazzo presidenziale a Cartagine sia stata dedicata ad Annibale, un personaggio della storia antica della Tunisia che rappresenta il potere ma anche la sconfitta. Mi sarebbe piaciuto vedere il palazzo presidenziale occupato dagli artisti e dalle voci dei rapper che sono emersi dall’ombra dopo la caduta di Ben Ali, una nuova generazione di creativi che riflettono il presente e sul presente.
La strada che la Tunisia ha scelto è piena di ostacoli ma va avanti. Grazie all’impegno della società civile. A Biserta, la quarta città del paese, Il Majestic, uno dei quattro cinema chiusi da quindici anni o poco più, ha riaperto grazie all’impegno di un gruppo di giovani. Un Cineclub è stato altrettanto creato nella Casa della Cultura. In questi giorni del mese di Ramadan, si svolge una manifestazione notturna nel centro storico per sensibilizzare la popolazione alla protezione dell’ambiente, alla raccolta dei rifiuti. Partecipano trenta associazioni costituite per la maggior parte da giovani,s peleologi, sub, scout di terra e di mare, eccetera, ma anche da meno giovani, come i membri del Club di scacchi.
Stimolare il senso di creatività dei giovani significa promuovere il loro spirito di critica, di iniziativa, di innovazione, e anche di imprenditoria innovatrice che per ora è in stato di germinazione. In questo campo, l’iniziativa più importante è stata quella di Suk at-tanmiya, il mercato dello sviluppo, un progetto concepito da un giovane italiano, Emanuele Santi, lead strategy advisor alla BAD (Banca Africana per lo Sviluppo) quando aveva sede a Tunisi e che, insieme alla moglie Francesca Russo, aveva pubblicato il libro Non ho più paura, e curato il blog “Italiani di Cartagine”. Ho accompagnato la prima presentazione del progetto nel 2012, che ebbe luogo al Kef, capoluogo di un governorato nel Nord Ovest, una città che sorge a 780 metri di altitudine e sta a 40 chilometri dalla frontiera algerina. È stata un’esperienza memorabile. La partecipazione dei giovani superando ogni aspettativa dimostrava senza dubbio una grande vocazione imprenditoriale dei tunisini, che, però, mi è parsa più basata su un indirizzo commerciale che produttivo. I nostri Italiani di Cartagine si sono trasferiti con la BAD in Costa d’Avorio, ma il progetto Suk at-Tanmiya continua. L’ultima conferenza risale al 26 maggio di quest’anno, con la collaborazione della Mediterranean School of Business.
Nonostante lo stato d’instabilità che il Paese vive da cinque anni, l’Università tunisina continua a produrre delle formazioni eccellenti, specialmente nel campo scientifico e tecnico, medicina applicata, ingegneria meccanica, con piccole nozioni di management e imprenditoria. I migliori elementi, appena promossi, sono selezionati e prelevati dalle università francesi per proseguire un terzo ciclo di studi e ricerca in Francia, nel campo della nanotecnologia, dell’ingegneria aerospaziale, informatica applicata alla radiologia, etc.
Certo, andare all’estero rimane lo scopo di tutti, come tutti i giovani del mondo, come i giovani italiani. Adam, Fatma, Sayf, Yusra, tutti hanno voglia di viaggiare, di scoprire il mondo, di vivere esperienze nuove. Purtroppo, a causa del nostro sistema che offre pochi sbocchi all’eccellenza universitaria, si assiste a una fuga dell’élite, che dopo aver beneficiato di un insegnamento ottimo e gratuito in Tunisia, si stabilisce all’estero. Questa nuova generazione di emigranti di alto livello non fa più investimenti in Tunisia, ma paga il mutuo per comprarsi la casa in Europa.
Oggi, l’impegno più urgente è quello di ridare ai nostri giovani la fiducia nell’investimento nel Paese, e all’interno del Paese. Prima di tutto bisogna creare scuole e strutture di orientamento e di management verso l’impresa produttiva, alle quali si può accedere subito dopo il liceo e non solo dopo un ciclo universitario. È un progetto realizzabile soltanto con la collaborazione delle istituzioni e delle medie imprese europee, in particolare italiane. Oltre la vicinanza geografica e culturale, le imprese italiane hanno dimostrato fiducia nella Tunisia, rimanendo in attività con oltre 800 aziende. Peraltro, la Tunisia ha il dovere di cambiare le procedure burocratiche complicate, che spesso scoraggiano gli stranieri a stabilirsi per svolgere un’attività produttiva o per trascorrervi una vita tranquilla da pensionati. Nel corso di questi anni difficili, i Tunisini hanno dimostrato una fede implacabile nella pace, ricompensata da un Premio Nobel e una solidarietà insospettata, tutto questo senza smettere di credere nel progetto rivoluzionario. Il film del processo democratico tunisino è solo iniziato, il seme sta germinando nelle giovani menti e un giorno darà i suoi fiori.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
_______________________________________________________________________________
Lilia Zaouali, scrittrice tunisina, fa parte del Consiglio di Amministrazione della Camera di Commercio Italo-araba. Dopo il dottorato all’Università Sorbona-Paris IV, ha insegnato al Dipartimento di etnologia e scienze della religione all’Università di Jussieu (Paris VII), presso l’Accademia americana Sarah Lawrence di Parigi e ha collaborato presso la Cattedra di Diritto Comparato dell’Università del Piemonte Orientale. Studiosa di storia dell’alimentazione, collabora con Slow Food ed è autrice di L’islam a tavola dal Medioevo a oggi (Laterza, 2004) e Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia (Sellerio, 2009).
________________________________________________________________