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Ansie di dislocazione: l’Eneide di Virgilio nella lettura di Alessandro Barchiesi

COPERTINA di Pietro Li Causi

Enea, un migrante che scappa dalla guerra di Troia, approda, dopo svariate peripezie, alle coste italiche. Qui ha qualche problema con gli indigeni (Turno, ad esempio), ma alla fine riesce a imporsi e getta le basi per quella che diventerà la più grande civiltà del Mediterraneo. Ergo, le comunità che sapranno accogliere e integrare i migranti…  di più, le comunità che si lasceranno invadere dai migranti potrebbero fiorire, anzi sicuramente fioriranno.

Complice la dura attualità degli sbarchi, delle morti nel mare, dell’inefficacia delle politiche della Fortezza Europa, del cinismo geopolitico dell’Occidente, complice la barbarie dei centri di accoglienza, questa, grosso modo, è diventata una delle chiavi di lettura più popolari di uno dei più grandi classici dell’antichità, l’Eneide di Virgilio.

Sia detto per inciso, sono portato a condividere la seconda parte di questa lettura; penso cioè che davvero bisognerebbe riconfigurare completamente le nostre idee di cittadinanza e che le linee guida delle nostre politiche comunitarie non dovrebbero basarsi sui bilancini di Schengen, quanto piuttosto sul principio della libera circolazione delle persone (e non del denaro) e, soprattutto, su un rinnovato ideale di umanità.

Il punto è però che la prima parte del frame, quella che vede in Enea un prototipo del migrante, rischia di essere una banalizzazione che elimina molti degli elementi di complessità del testo virgiliano; elementi che, se solo riemergessero, ad esempio, nelle vulgatae scolastiche o più semplicemente nel senso comune di una cultura classica diffusa, ci porterebbero, forse, a riflettere in maniera più problematica e autoconsapevole su alcuni degli snodi della contemporaneità, molto più di quanto non facciano le letture ‘buoniste’ del classico.

Uno stimolo per de-familiarizzarci rispetto a tali letture ci è stato offerto da Le sofferenze dell’impero, il saggio introduttivo che Alessandro Barchiesi ha scritto per l’edizione BUR dell’Eneide (Milano, 2006), tradotta in italiano da Riccardo Scarcia. Barchiesi vede nel poema virgiliano una sorta di rielaborazione di un trauma collettivo. Nella percezione dei lettori coevi di Virgilio, tale trauma solo fino a un certo punto ha a che fare con gli Altri che vengono da fuori, con i ‘migranti’, con i popoli che arrivano da lontano – che pure sono accolti nel tessuto sociale dell’Impero. È vero, come molti migranti dei nostri giorni, Enea fugge da una guerra terribile, fugge dalla distruzione della sua città, ma solo fino a un certo punto può essere identificato con l’Altro, con lo straniero, e questo perché, nella sua personale lettura del mito, Virgilio fa di lui un eroe di origini italiche, il discendente di Dardano, che aveva fondato Troia dopo un viaggio da Occidente verso Oriente: «la vicenda di Enea, come quella di Ulisse, è la storia di un ritorno: il travagliato ritorno verso una terra considerata per tradizione ‘l’antica madre’ dei fondatori di Troia ormai distrutta, l’Italia, dove fondare una nuova patria» (pos. 4 Kindle Edition). Nessuna ‘migrazione’, dunque; piuttosto un ‘dislocamento’.

Ebbene, secondo Barchiesi, l’Eneide è anche una risposta all’ansia prodotta da questa storia di dislocamento, in cui molti dei lettori coevi del poema si identificano: «supponiamo […] che la popolazione di abitanti liberi dell’Impero fosse, nell’epoca di Augusto, fra i cinque e i sei milioni. Se ora cerchiamo di immaginare il numero di persone che erano state trasferite più o meno forzosamente sulla base di programmi statali di colonizzazione e ripopolazione, si arriva a una stima di due milioni, due milioni e mezzo di abitanti ‘mobili’ nel corso dei due ultimi secoli nella sola Italia romana. A questo punto si può aggiungere una stima di due-quattro milioni di schiavi messi in movimento dalle conquiste romane. Se questo contesto demografico ha qualche consistenza, larghe parti dell’Impero, in particolare l’Italia, le province occidentali, l’Africa, dovevano offrire uno spettacolo di cambiamento davvero impetuoso e in qualche caso angosciante. Se continuiamo a pensare al mondo ‘antico’ come a un mondo sostanzialmente stabile, fatto di continuità tradizionali e localismi indisturbati, commettiamo uno sbaglio» (pos. 477 Kindle Edition). L’Eneide, in questo scenario, è un poema che intende – fra le altre, tante, cose – dare un senso al dolore di quei membri dell’élite dirigente che sono costretti ad abbandonare le loro famiglie estese ricche di fratelli, sorelle, cugini e a trasferirsi, con la loro famiglia nucleare, in zone dell’impero spesso ostili, barbariche, semi-ferine, ovvero ancora ‘da romanizzare’. Nel mondo dell’Eneide – avverte Barchiesi – i barbari non sono quelli che vengono da fuori, i Troiani, con cui l’élite romana si identifica, o anche gli Arcadi di Evandro con cui Enea si allea, bensì i locali: sono i mostruosi Caco e Polifemo, che vengono uccisi senza pietà da Ercole e Ulisse, eroi viaggiatori e civilizzatori. Ma sono anche i prìncipi delle popolazioni indigene con cui Didone, la fondatrice della nemica Cartagine, non vuole unirsi in matrimonio e da cui si sente accerchiata e minacciata, sono anche i Rutuli di Turno, che vogliono fare piazza pulita dei Troiani che osano prendersi le loro donne.

Enea, Didone e Cupido, di F.Solimena, 1734

Enea, Didone e Cupido, di F.Solimena, 1734

Se volessimo sostituire una nuova semplificazione (forse più ricca e complessa) ad una vecchia semplificazione cui abbiamo rischiato di acclimatarci – quella di Enea migrante –, potremmo dire che gli eroi che si spostano e si dislocano nel mondo dell’Eneide (così come molti dei lettori coevi del poema) non sono affatto gli antenati dei nostri profughi contemporanei, che finiscono per esperire la stanzialità coatta delle vite di scarto; piuttosto somigliano ai nostri cervelli in fuga che vanno a lavorare per il mondo delle corporate universities, agli ingegneri delle grandi compagnie petrolifere, ai dirigenti delle multinazionali disseminati nelle varie filiali sparse per il mondo. Sono cioè quelle persone che cercano una comfort zone i cui confini si spostano sempre un po’ più in là, quei soggetti che, dopo aver lasciato il paese dove sono nati, abbandonano il noto per immergersi nell’ignoto; un ignoto in cui vanno ad occupare posizioni di dominio (o comunque di prestigio) che ai locali – troppo legati alla stabilità, troppo poco inclini alla flessibilità e alla mobilità – sono spesso precluse.

È vero, nel sedare l’ansia di dislocazione e di cambiamento dei suoi lettori, sia che si trovino a Roma, sia che si trovino a Butroto, o in Gallia, o in Iberia o nelle province asiatiche, il poema virgiliano fornisce anche un modello per un’integrazione possibile fra locali e dislocati, fra stranieri e indigeni: la civiltà è vista, da Virgilio, come una «combinazione e contaminazione di fattori, nessuno esclusivo e neppure permanente. Sono tutti fattori che avevano posti di rilievo nelle idee di etnicità e di etnogenesi tipiche del mondo greco-romano: il sangue condiviso, la provenienza territoriale, l’urbanesimo, i costumi e la cultura materiale, la lingua. Nessuno di questi fattori è privo di importanza, ma a nessuno è concesso un privilegio esclusivo» (§2, pos. 688 Kindle Edition). Il modello virgiliano – che è anche quello augusteo – propone un’idea di cittadinanza allargata che permette comunque forme di fusione e di interscambio, che garantisce connessioni e combinazioni: «Un aspetto centrale dell’epos virgiliano, un aspetto in cui Virgilio è diverso dall’Iliade e dall’Odissea, è l’idea che le persone possano sviluppare nuovi legami e nuovi affetti verso luoghi di cui non sono originari» (pos. 630 Kindle Edition): mentre Odisseo non può che tornare da Penelope, che lo attende nella patria Itaca, Enea, perduta Creusa, potrà (anzi, dovrà) sposare Lavinia, la figlia del re dei Latini.

L’idea di fondo, insomma, è quella di una potente apertura civica: la gente potrà spostarsi, e troverà – nei territori lontani, che all’inizio fanno paura, ma cui poi ci si abitua – nuovi legami, nuovi amori, nuove condizioni di vita, una nuova comfort zone. Al fondo di questa apertura civica, però, ciò che viene negato dal modello virgiliano è – avverte Barchiesi – la possibilità di una partecipazione politica.  Poggiandosi su un recente contributo di Maurizio Bettini (Un’identità troppo compiuta. Troiani, Latini, Romani e Iulii nell’Eneide, in «Materiali e Discussioni per l’analisi dei testi classici» 55, 2005:77-102), l’autore del saggio introduttivo del volume ricorda infatti che mentre da un lato il popolo romano viene fatto nascere da una fusione del sangue troiano con il sangue latino, dall’altro lato emerge – all’interno del racconto – una famiglia che si distingue, una famiglia nelle cui vene scorre puro sangue troiano. Si tratta dei discendenti diretti di Enea e di Creusa, sono i membri della gens Iulia: Iulo, Romolo, Cesare e, ovviamente, Augusto, che è il vero dominus di una società aperta sul piano della cittadinanza, ma di fatto sottomessa all’autorità imperiale sul versante del controllo.

Enea in fuga da Troia, di F. Barocci, 1598

Enea in fuga da Troia, di F. Barocci, 1598

Il quadro che emerge da questa nuova lettura dell’Eneide presenta dunque, mutatis mutandis, qualche significativo punto di contatto e di analogia con la nostra società globalizzata, aperta sul piano delle possibilità di dislocazione e integrazione, sul piano delle connessioni e degli scambi, ma chiusa, tremendamente chiusa, sul versante del controllo politico e della sovranità: le persone che si spostano realizzano i propri sogni individuali e si procurano flessibili e mutevoli posizioni di prestigio, ma sempre più difficilmente creano comunità stanziali. Ed è proprio venendo meno le comunità stanziali e le loro logiche che si erodono sempre di più le possibilità del radicamento, del controllo, della creazione di memorie condivise e della partecipazione (e forse, anche, del pensiero divergente). È chiaro, il passato non può appiattirsi sul presente, così come è chiaro che – per chi si occupa di comparazione culturale – le differenze sono spesso più significative delle analogie. Rimane comunque il fatto che forse il poema virgiliano può funzionare da reagente non solo per comprendere le dinamiche del mondo augusteo, ma anche per interrogarci – con le giuste prese di distanza e con le dovute cautele interpretative – sul nostro asfissiante presente.

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

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Pietro Li Causi, dottore di ricerca in Filologia e cultura greco-latina, assegnista e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Palermo, dove ha insegnato Cultura latina e Lingua e letteratura latina, attualmente è docente di materie letterarie presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo e fa parte, in quanto responsabile di unità di ricerca, del network GDRI Zoomathia (Transmission culturelle des savoirs zoologiques-Antiquité-Moyen Âge). Autore di numerosi contributi sulla storia della letteratura e sull’antropologia del mondo antico, si è occupato di Aristotele, Plutarco, Ovidio, Plinio il Vecchio, Seneca, dell’etno-zoologia e della paradossografia dei Greci e dei Romani e di antropologia del dono nel mondo antico. Ha curato recentemente, assieme a Roberto Pomelli, L’anima degli animali (Einaudi 2015) e, per i tipi della Palumbo, ha pubblicato Sulle tracce del manticora (2003), Generare in comune (2008) e Il riconoscimento e il ricordo (2012).

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