SOMMARIO N. 5
Vogliamo dedicare l’editoriale di questo numero di Dialoghi Mediterranei, che apre il nuovo anno, all’amico pittore mazarese Salvino Catania, scomparso il 7 dicembre scorso. Siamo convinti che una rivista come la nostra che viaggia nella rete e guarda al Mediterraneo abbia comunque il compito di dare luogo e radicamento ai ragionamenti che propone, conservando precisi riferimenti territoriali che ne definiscano l’identità. Da qui la volontà di risarcire la memoria di un artista che, seppure ignoto ai più, appartato e ammutinato nel suo orizzonte di provincia, ha dimostrato di saper stare nel mondo e di saper parlare di quel mondo che, secondo la lezione di Rilke, non esiste «se non dentro di noi». Da qui il desiderio di farlo conoscere al di là della riduttiva dimensione locale.
Accade a volte che la morte sia drammaticamente simmetrica alla vita, ne sia in qualche modo simbolica metafora, ne spieghi e ne dispieghi epifanicamente il senso ultimo. Il corpo del pittore è stato ritrovato bruciato, divorato dal fuoco di un braciere su cui è accidentalmente caduto a seguito di un fatale malore. Se non generasse qualche crudele malinteso, potremmo dire che, in fondo, Salvino è morto come aveva vissuto, avendo consumato e bruciato la sua esistenza giorno dopo giorno nella quotidiana ricerca della vita, nel libero e anarchico abbandono del suo corpo al gioco dell’invenzione e della divagazione.
Salvino ha giocato ai dadi con la vita e con la morte, tra l’ironia della simulazione e l’angoscia della consapevolezza, tra la creativa leggerezza dell’artista e la greve solitudine dell’uomo. Stretto dentro questa tenaglia Salvino si è dibattuto e si è divincolato, ora liberando il corpo dal suo maledetto peso nella grazia di una danza spontanea, ora carcerandolo nel sortilegio degli effetti sedativi delle cure. Nella dialettica tra Dentro e Fuori, ha abitato due universi paralleli, incrociando orizzonti e destini diversi. La sua naturale vitalità, in alcuni momenti trapassata nelle forme di un vitalismo puro e sfrenato, lo ha esposto inevitabilmente alle ferite dell’esistenza e alle sofferenze della malattia, rispetto alle quali è rimasto inerme e disarmato, incapace di cercare riparo o di invocare protezione.
La sua vicenda di artista di strada, che nella strada ha vissuto e disseminato il suo corpo, percorrendo in lungo e largo gli spazi della sua città, può spingere qualcuno ad assimilare Salvino Catania ai pittori outsider, a quegli autori irregolari ed eccentrici che ai margini del sistema sociale ed estranei alle logiche del mercato dell’arte si muovono per vie laterali, fuori dai canoni contemplati dalle accademie, lungo linee di fuga e di sconfinamento. Ma Salvino non era un autodidatta né era indifferente alla storia delle Belle Arti.
Aveva alle spalle scuole e saperi, scaltrita conoscenza della storia dell’arte e della letteratura critica, raffinata cultura dei linguaggi sperimentali dall’impressionismo all’astrattismo, dall’informale fino alle avanguardie contemporanee. Non era affatto ingenuo né spontaneista, come con aria sorniona tendeva a far credere. Non era privo di ascendenze e discendenze artistiche, di riconoscibili modelli stilistici e di nobili grammatiche estetiche. A ben guardare, sulle sue tele si nascondeva un mélange di allusioni, di riferimenti, di citazioni, non di aride e artificiose repliche ma di originali rifrazioni della memoria e risemantizzazioni di segni, tecniche e figure dei maestri più illustri della cultura figurativa internazionale.
Nulla aveva in comune con il Ligabue naĩve – di cui si è scritto – che alla genialità associava il primitivismo di un immaginario naturalistico, la capacità visionaria ad un’asocialità autodistruttiva. Salvino è morto alla stessa età di Ligabue e ha condiviso con lui un’esperienza esistenziale di inquietudine e sofferenza, riconducibile più alla solitudine che al disagio psichico. È vero, anche lui ha coltivato una vocazione totalizzante all’arte ma la sua relazione con la pittura non era mai appagante e catartica ed era, invece, nevrotica e conflittuale, possedendo l’autore un’altissima sensibilità e consapevolezza critica e autocritica. Nessuna ipotesi di equivoca rappresentazione romantica può dunque essere costruita attorno alla figura di Salvino Catania, che non è stato un poete maudit né un artista che ha fatto dell’arte un esercizio trasgressivo, sovversivo o provocatorio, come dire una pratica carica di ribellismo ideologico, ma semplicemente e letteralmente una scelta di vita sempre in bilico tra ispirazione e necessità, una poetica d’inventività e di tensione creativa ma anche di tormentata e disperata interiorità.
Non ha coltivato nell’arte una funzione politica di contropotere ma se mai una sua surreale estraneità, una sua anarchica irriverenza per ogni forma dell’autorità costituita come per le sacre scritture dei canoni accademici.
Nelle sue migliori stagioni ha dipinto agavi e fiori, palme e conchiglie. Negli ultimi anni, dissolti quasi del tutto i riferimenti alla cultura figurativa, i suoi quadri sono apparsi gremiti di segni elementari, di stridenti contrasti cromatici, di trame pittoriche che sembravano aggrovigliare le linee in percorsi tortuosi e labirintici oppure dipanarle in composizioni intarsiate di orditi colorati e ideogrammi geometrici, in una sapiente moltiplicazione di moduli e simboli destinata a dilatare e incrementare le esperienze percettive. Per la loro originalità compositiva alcuni esiti pittorici potrebbero a buon diritto trovare applicazione nella produzione di tessuti, maglie e arazzi. Spesso, tuttavia, sui soggetti si allungavano le ombre di una sfida corpo a corpo con la materia, con gli oli, con i grumi delle vernici, con le tecniche dell’arte e con l’arte della vita.
«Certe mattine mi sveglio e non so se sono vivo o morto. Poi apro la porta ed esco. Sono nato per stare nella strada». Così ebbe a dichiarare Salvino Catania in una intervista del febbraio 2012 ad un giornalista di Repubblica. Nella crisi di urbanità del nostro tempo Salvino è stato abitante consapevole della città, cittadino che ha permeato della sua presenza ogni angolo del centro storico. Ci parrà di intravedere la sua ombra per le strade di Mazara ancora a lungo, ci sembrerà di incontrarlo con la sigaretta in bocca, una tela sotto braccio e una smorfia sul viso. I suoi quadri ci guarderanno ancora dalle pareti dei bar, dei circoli e dei negozi. Nel suo quotidiano vagabondaggio Salvino ha sparpagliato la sua eredità per le strade della città, ha lasciato nelle case degli amici e dei passanti le testimonianze di affetto e di memoria della sua opera e della sua pervasiva e invisibile presenza. Non avendo voluto fare della sua casa il luogo dell’abitare, ove accogliere e raccogliere in una qualche intima stabilità la propria permanente inquietudine, ha fatto della strada il centro sentimentale del suo radicamento, lo spazio elettivo della sua stessa vita.
Per le vie di questo mondo, che non lo ha fino in fondo accettato e compreso, Salvino ha transitato da francescano, con la nudità del corpo, la povertà dei beni e la generosità dei gesti. Ci resta il rammarico di quel che sarebbe potuto essere e non è stato, di quanto di potenzialmente inespresso è rimasto irretito e mortificato nell’accidia asfissiante della provincia e nell’urgenza quotidiana del sopravvivere. Ci restano le sue opere che in una dimensione laica della vita sono destinate a sconfiggere la morte e oltrepassare l’effimero trascorrere del tempo.