di Margherita Bartolino
In questa breve analisi vorrei fare luce su alcuni concetti relativi al fenomeno dei movimenti migratori con l’intenzione di porre sotto i riflettori aspetti che credo siano stati ignorati tanto dai media quanto dalla classe dirigente europea. Il motivo che mi spinge a scrivere di tali tematiche ha a che fare con la convinzione che, pur non avendo alcun potere decisionale, giovani studenti, scrittori, o giornalisti, conservano nelle loro mani due strumenti di enorme potere: quello dell’informazione e quello della divulgazione. In altre parole, a chi sta al di fuori della “stanza dei bottoni”, spesso non resta che scrivere, e ciò vale in particolar modo quando si tratta di dover affrontare questioni decisamente poco valorizzate dalla classe politica occidentale. Andiamo dunque al punto e immergiamoci per un momento nell’universo dei diritti umani, e in modo più specifico in quello dell’immigrazione facendo da subito chiarezza su alcuni concetti chiave.
Che cosa si intende per migrazione e quali sono le differenze che intercorrono tra coloro che lasciano il proprio Paese del tutto volontariamente e tra coloro che in un certo senso sono costretti a farlo? Dal punto di vista giuridico ci sono una serie di strumenti che devono essere utilizzati in tali casi per tutelare coloro i quali sono obbligati ad espatriare per motivi, ad esempio, politici o ambientali; di fatto, i differenti statuti attribuibili ad essi (rifugiato, richiedente asilo, richiedente protezione internazionale ecc.) vennero creati appositamente in vista di una loro difesa. In questo ambito (così come in molti altri del resto) é fondamentale utilizzare la terminologia appropriata, specificando lo status giuridico attribuibile a seconda dei casi e dalle circostanze che hanno dettato l’atto migratorio.
Detto ciò, ci sono una serie di situazioni nelle quali é possibile che si vengano a trovare alcune persone costrette ad emigrare e alle quali tuttavia non viene riconosciuto il diritto di farlo perché sprovviste dei documenti necessari (senza i quali sarebbe impossibile per loro entrare in territorio europeo, se provenienti da Paesi terzi). Questo é il caso dei cosiddetti sans papiers, anche definiti con il termine migranti irregolari. Tale denominazione, inevitabilmente, implica che solo alcuni uomini abbiano il diritto ad emigrare; ovvero coloro i quali riuscissero ad ottenere un visto di ingresso per un Paese estero, oppure coloro i quali riuscissero a dimostrare di aver bisogno di protezione internazionale. Migranti, in senso lato, sono tutti coloro che si spostano per un dato periodo di tempo da un Paese a un altro. Ciononostante ci sono degli elementi che differenziano coloro che lo fanno su base volontaria da coloro che in uno specifico momento della loro vita avvertono la necessità di espatriare, per ragioni di sicurezza personale o perché le condizioni nelle quali vivono sono insufficienti ad assicurare loro un tenore di vita minimo.
Quello degli uomini a condurre una vita degna, é un diritto consacrato nella Dichiarazione universale per i diritti umani, ai sensi della quale «ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà» [1].
Ebbene, sappiamo benissimo che non tutti hanno i mezzi per poter godere di tale diritto, e naturalmente questo é uno dei fattori che contribuisce a generare i flussi migratori. A questo punto é necessario introdurre alcune differenze concettuali tra i termini migrante volontario e migrante forzato. Che cosa intendo per migrazione volontaria? In questo contesto utilizzo il termine migrante volontario riferendomi a colui che innanzitutto ha la facoltà di decidere se lasciare o meno il proprio Paese, e che, in secondo luogo, ha la possibilità di scegliere i mezzi con cui farlo e il luogo nel quale andare. Personalmente, considero un migrante volontario colui che se rimanesse nel proprio Paese avrebbe comunque gli strumenti per condurre una vita degna e sicura; dove per sicura intendo che gli si possa assicurare il diritto al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche principali, ai servizi di assistenza sociali e alla libertà di espressione. E ancora, per migrante volontario intendo colui che emigra da un Paese a un altro mantenendo o migliorando il tenore di vita (se soddisfacente) che conduceva prima del trasferimento. Altri due elementi che credo debbano essere presi in considerazione, sono le modalità di trasferimento e quelle di ingresso nel Paese estero. In questo caso, intendo per volontario il migrante che ha la facoltà di scegliere i mezzi con cui viaggiare (e non é dunque costretto a dover utilizzare un mezzo di trasporto altamente insicuro per la sua integrità fisica e psicologia) e che dispone dei documenti per farlo alla luce del sole e in piena legalità. Per migrante forzato, come del resto esprime la parola stessa, intendo colui che, trovandosi nell’eventualità di non poter scegliere una serie di condizioni, ne rimane piuttosto soggetto, tra cui: lasciare o rimanere nel proprio Paese, decidere il luogo nel quale emigrare, le modalità con cui farlo o quelle attraverso cui entrare nel Paese di destinazione.
Iniziamo dalla prima condizione. Scegliere di rimanere all’interno del proprio Paese a volte può dipendere da fattori esogeni ed oggettivi talmente determinanti da mettere in discussione le possibilità di condurre una vita degna e in totale sicurezza. É questo il caso che si verifica laddove sono in corso guerre civili, carestie alimentari, disastri ambientali ecc.. In tali casi, permanere sul territorio potrebbe voler dire mettere a repentaglio la propria vita ed eventualmente quella dei propri familiari. Lasciare il Paese ed emigrare verso un altro più sicuro non risulterebbe dunque che una scelta obbligata, causata da fattori esterni ed indipendenti dalla volontà del soggetto che emigra.
In alcuni casi, non é neanche detto che si abbiano le possibilità di scegliere il luogo nel quale emigrare, in quanto tale decisione potrebbe essere subordinata a condizioni di natura logistica ed economica. Facciamo un esempio: in un Paese in cui é in atto una guerra civile (condizione per la quale diventa difficile anche ottenere dei documenti per il viaggio) é altamente improbabile che i cittadini possano comodamente salire su un aereo e lasciare il proprio Stato in tutta tranquillità; dovrebbero piuttosto accontentarsi dei mezzi di trasporto che trovano a disposizione ed usufruire di essi. E ancora, se l’utilizzo di tali mezzi mettesse a repentaglio la vita di chi ne usufruisce (a causa della loro precarietà e della loro inadeguatezza al trasporto di persone), sarebbe ovvio che la scelta del luogo d’arrivo dipenderebbe dalla necessità di spostarsi il meno possibile, cercando di raggiungere quanto prima un Paese più sicuro di quello di provenienza. Ecco dunque che il luogo d’arrivo verrebbe determinato non tanto in base alle preferenze di colui che emigra, quanto piuttosto dalla situazione generale e dalle possibilità logistiche di raggiungere un Paese sicuro nel minor breve tempo possibile.
In terzo luogo, colui che tenta di attraversare un confine pur non disponendo dei documenti necessari per farlo (e dunque correndo il rischio di essere fermato o trattenuto dalle forze dell’ordine), evidentemente preferisce rischiare di trovarsi in una situazione di irregolarità piuttosto che non avere alcuna speranza di lasciare il proprio Paese. Anche in questo caso, considero che tale persona sia di fatto costretta ad emigrare. Ora, per quel che riguarda i cittadini terzi che giungono in Italia, per poter rimanere legalmente sul territorio, devono: a) dimostrare di essere rifugiati o di avere bisogno di asilo/ protezione internazionale/ sussidiari o umanitaria; oppure b) possedere un visto (ottenibile solo dimostrando di aver un lavoro ancor prima di essere giunti in Italia).
Una volta sbarcati e dopo essere stati trasportati nei Centri di Soccorso e Accoglienza (all’interno dei quali vengono assistiti e ne viene accertata la regolarità) i migranti vengono ulteriormente smistati in due differenti Centri: coloro che necessitano di protezione o che hanno il diritto di richiedere asilo vengono portati nei Centri d’Accoglienza per i Richiedenti Asilo (CARA), mentre coloro che non possiedono il visto e che non vengono considerati come rifugiati o richiedenti asilo vengono trasferiti nei Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE), all’interno dei quali possono essere trattenuti per un massimo di 18 mesi prima di essere espulsi dal Paese. Esistono oltretutto degli accordi stipulati tra l’UE (o solo alcuni degli Stati membri) e specifici Paesi terzi, in base ai quali i migranti irregolari possono legalmente essere respinti dal territorio dell’Unione e in seguito ai quali la loro situazione viene resa ancora più vulnerabile dal fatto che li si priva di accedere ai sistemi di protezione basica esponendoli ad eventuali violazioni dei diritti dell’uomo (si veda ad esempio l’accordo che l’Unione Europea ha stipulato recentemente con la Turchia).
Ora, fermo restando che sia necessario riconoscere ai richiedenti asilo e ai rifugiati uno statuto ad hoc in modo tale che gli venga offerta la protezione di cui effettivamente necessitano, con che titolo ci avvaliamo della facoltà di negare il diritto ad emigrare ad un uomo che fugge da una vita soggetta alla miseria, alla fame, alle malattie o alla morte infantile? Con quale diritto respingiamo delle persone esponendole a rischi elevatissimi, solo perché sprovviste di un visto che probabilmente non potrebbero ottenere all’interno del proprio Paese se non nel giro di un lasso di tempo eccessivamente ampio? E ancora, se é vero che l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani dichiara che ogni essere vivente ha il diritto di mantenere uno stile di vita sufficiente a garantirgli la buona salute e quella dei suoi familiari, con quale pretesa priviamo gli uomini di questo inalienabile diritto?
Ebbene, in proposito ritengo sia doveroso riflettere in modo più approfondito su alcune questioni; innanzitutto, che senso ha continuare a parlare di migrazione irregolare, dal momento che, come ho spiegato, la ricerca di una vita degna dovrebbe rientrare tra i diritti fondamentali di una persona? Poniamo che un uomo, nato e cresciuto ad esempio in Mali (Paese all’interno del quale, nonostante ufficialmente non sia in corso alcuna guerra né sia presente una dittatura, un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà e dove l’andamento altalenante dell’economia nazionale continua ad essere soggetto all’instabilità politica) decidesse di intraprendere un viaggio per giungere in Europa pur non avendo il visto d’ingresso. Perché dovrebbe essere respinto alla frontiera o rinchiuso in un centro di trattenimento? Quali diritti abbiamo noi, nati e cresciuti un continente indubbiamente più florido, per vietare l’ingresso a chi cerca una vita migliore di quella che ha vissuto fino a quel momento?
La cosiddetta migrazione irregolare, non cesserà solo perché l’Europa cerca di eluderla e non avrà fine fintanto che continueranno ad esistere enormi disparità economiche e sociali tra i Paesi. Ad ogni modo, allontanandoci dalla questione relativa all’accoglienza degli stranieri (che ai miei occhi ha più che altro una valenza etica), concentriamoci sulla loro provenienza e sui motivi che li spingono a raggiungere l’Unione Europea con qualsiasi mezzo essi trovino a disposizione.
Uno sguardo alle rotte migratorie può essere utile per comprendere quali sono le aree geografiche più critiche. Recentemente il primo ministro ungherese ha affermato che la maggioranza di coloro che arrivano in Europa non sono rifugiati, quanto piuttosto migranti in cerca di vita migliore; con gli stessi toni il primo ministro slovacco Fico ha sostenuto che il 95% di essi sono immigrati economici [2]. Tuttavia, le statistiche e le ricerche effettuate sulla provenienza di coloro che chiedono protezione in Europa, sembrano smentire entrambe le dichiarazioni di Orban e Fico. Le statistiche che riporto a seguire fanno riferimento prevalentemente all’anno 2015 essendo queste le più complete tra le recenti.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), l’arrivo di persone provenienti dal sud est Asiatico, dall’Africa e dal Medio Oriente ha continuato ad aumentare a partire dal 2011 e ha toccato il suo punto di massima espansione nel 2015, anno in cui sono stati registrati 1.046.599 ingressi di cittadini non europei, di cui 34.887 sono giunti via terra e 1.011.712 seguendo una rotta marittima. Secondo l’Eurostat, nel 2015, 1.255.660 persone hanno fatto richiesta per ottenere protezione internazionale [3], stando a tali fonti le prime nove nazionalità di provenienza dei richiedenti asilo sarebbero le seguenti: Syria 29%; Afghanistan 14% ; Iraq 10%; Kosovo 5% ; Albania 5% ; Pakistan 4% ; Eritrea 3% ; Nigeria 2% ; Iran 2% .
Secondo una prospettiva più globale, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati afferma che nel 2015 il numero di sfollati nel mondo é aumentato di 5,8 milioni rispetto al 2014 arrivando a 65,3 milioni nel 2015 (di cui 21,3 erano rifugiati, 40,8 sfollati interni e 3,2 milioni richiedenti asilo) [4] nelle seguenti quantità:
- Siria 4.9 milioni
- Afganistan 2,7 milioni
- Somalia 1,12 milioni
- Sud Sudan 778,700
- Sudan 628,800
- Rep. Democratica del Congo 541,500
- Rep. Centro Africana 471,100
- Myanmar 451,800
- Eritrea 411,300
- Colombia 340,200
A seguire propongo alcuni accenni geopolitici relativi ai Paesi di provenienza dei migranti per due scopi principali: illustrare le rotte migratorie che costituiscono gli arrivi appena espressi in percentuale e indicare brevemente i motivi per i quali si presume queste persone decidano di lasciare i propri Paesi, considerando che il flusso di sfollati e di migranti dipende in parte dal fallimento degli Stati da cui provengono. Innanzitutto, quali sono le principali rotte utilizzate? I flussi migratori diretti verso l’Europa hanno origine prevalentemente da Paesi falliti o a rischio di fallimento, siano essi Paesi africani o mediorientali. Cominciando dall’Africa, i fattori principali che causano la partenza di un numero così elevato di persone sono molteplici, tra cui l’arretratezza economica, l’instabilità politica e la violenza generalizzata.
In molti Paesi dell’Africa la povertà é una condizione strutturale che determina l’incapacità di assicurare un tenore di vita soddisfacente ad intere popolazioni. Complessivamente, il reddito pro capite degli individui che vivono in Africa subsahariana é circa venti volte inferiore a quello dei cittadini europei; nella stessa regione, secondo un rapporto della FAO del 2014, una persona su quattro é sotto alimentata [5]. E ancora, stando a quanto riporta l’indice di povertà dell’UNDP (programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo,) l’80% della popolazione mondiale che non ha accesso ad una protezione sociale adeguata vive in Africa subsahariana, la stessa area geografica in cui si registra il più altro livello di diseguaglianza [6] e in cui vive un terzo degli 884 milioni di persone che al mondo non hanno accesso all’acqua pulita [7].
Secondo un rapporto pubblicato da Amnesty International, per tutto il 2015 una serie di conflitti violenti ha attanagliato parte del continente causando gravi violazioni dei diritti umani e infrangendo le norme del diritto internazionale. Le guerriglie interne (a loro volta generate dall’instabilità politica ed economica) e la violenza perpetrata dai gruppi armati estremisti, naturalmente minacciano la sicurezza interna dei Paesi che li subiscono, causando la morte e il rapimento di migliaia di civili e alimentando continuamente un clima di terrore [8]. I principali Paesi africani di provenienza di coloro che emigrano verso l’Europa sono la Somalia, l’Eritrea, il Gambia, il Niger, la Nigeria, il Mali, la Mauritania e il Congo. Non potendomi dilungare eccessivamente sui problemi endemici e strutturali che colpiscono intere zone dell’Africa, devo limitarmi a una rapida rassegna di quelli che sono i principali motivi che spingono molti uomini a mettersi in viaggio con la speranza di raggiungere il nostro continente.
Brevemente, l’Eritrea é una delle Nazioni più povere al mondo, all’interno della quale non esiste un Parlamento e in cui la Costituzione non é mai entrata in vigore; di conseguenza l’unica legge vigente é quella che promulga il regime (accusato tra l’altro di essere tra i più repressivi al mondo) [9]. Un cittadino eritreo può ottenere il passaporto solo dopo aver terminato la leva militare, servizio che talvolta si prolunga fino al sessantesimo anno di età. Nel 2014 l’Eritrea é stato il secondo Paese di provenienza per numero di migranti dopo la Siria.
Per quel che riguarda la Somalia, secondo Save the Children é il posto peggiore al mondo in assoluto dove far nascere un bambino: una madre su 18 muore di parto e un bimbo su sette non arriva ai cinque anni di vita. I principali problemi endemici della Somalia sembrano essere: la povertà, la malnutrizione cronica, l’analfabetismo e la violenza perpetrata da gruppi di jihadisti (i cui attacchi spesso colpiscono anche i civili). Con la caduta del regime socialista di Siad Barre nel 1991 si venne a creare una spaccatura interna che persiste tutt’oggi; la regione nord-occidentale del Paese (Somaliland) e quella nord orientale (Puntland) gestiscono autonomamente la propria amministrazione (nonostante non siano state formalmente riconosciute come indipendenti dalla comunità internazionale), mentre nel sud i militanti di Al Shabab detengono il potere economico e politico della regione. Al Shabab é un gruppo islamico estremista che persegue due obiettivi fondamentali: l’applicazione della sharia e l’allontanamento delle truppe straniere dal territorio. Ad ogni modo, per questi ed altri problemi, molti Somali ogni anno decidono di affidarsi ai trafficanti per attraversare l’Etiopia, il Sudan e la Libia e, infine, il Mediterraneo.
Secondo il Global Slavery Index del 2014, la Mauritania è lo Stato con la più alta incidenza di schiavitù sulla popolazione, fenomeno tramandato da generazione in generazione e ancora ampiamente utilizzato nei villaggi rurali. Il 90% del territorio é desertico, quasi metà della popolazione vive con l’equivalente di meno di due dollari al giorno e dal punto di vista istituzionale il Paese é caratterizzato da una forte instabilità politica: a partire dal 1978, anno in cui venne destituito il presidente Moktar Ould Daddah, si sono susseguiti una serie di colpi di Stato e l’attuale presidente Mohamed Ould Abdel Aziz detiene il potere dal 2007, anno in cui rovesciò il precedente governo [10].
Così come i militanti di Al Shabab attanagliano la Somalia meridionale, una serie di gruppi armati, quasi tutti di matrice islamica, controllano altre zone dell’immenso territorio Africano, tra cui: Boko Haram (che semina terrore e violenza in alcune zone della Nigeria, nella parte sud-orientale del Ciad e in quella settentrionale del Camerun), Ansar Eddi- ne (che controlla il nord del Mali) o Aqmi (attivo nell’area del Sahara e del Sahel). Naturalmente l’instabilità e il clima di insicurezza causati dagli attacchi dei gruppi armati é solo uno dei motivi per cui sono in molti a scegliere di partire; tra coloro che lasciano l’Africa, ce ne sono altrettanti che, seppur non provenendo da Paesi in guerra o da Stati oppressi dai regimi autoritari, decidono di intraprendere il viaggio verso l’Europa per questioni religiose o per avere una maggiore libertà d’espressione.
Sono dunque molteplici le ragioni per cui ogni anno un numero sempre maggiore di africani decide di lasciare il proprio Paese per sperare di poter condurre altrove una vita più sana e più sicura. Per quel che riguarda i tre Paesi da cui proviene la maggioranza delle persone: Siria Afghanistan e Iraq, il problema principale é la guerra. L’Afghanistan é stato teatro di un lungo conflitto a partire dal 2001, anno in cui gli Stati Uniti subirono un attacco terroristico da parte di Al-Qaida. Quello stesso anno, l’allora presidente degli Stati Uniti Bush jr. invase l’Afghanistan dichiarando guerra al terrorismo e sostenendo di voler liberare il Paese dalla presenza dei Talebani. Ufficialmente, il conflitto venne dichiarato concluso nel 2014 e la Nato passò la responsabilità del controllo territoriale al governo afgano [11]; tuttavia, quello stesso anno, il presidente americano Obama e il presidente afgano Ghani stipularono un accordo (US-Afghanistan partnership agreement) ai sensi del quale le truppe americane sarebbero rimaste sul territorio (seppur in numero ridotto) per monitorare il processo di democratizzazione, addestrare l’esercito afgano, condurre operazioni antiterrorismo e per impedire ai talebani di prendere il potere [12]. Di fatto, il conflitto si é protratto nel tempo anche dopo il termine ufficiale delle ostilità; i talebani hanno continuato a minare le fondamenta di un Paese politicamente instabile e distrutto da quasi quindici anni di guerra, continuando a generare la morte di civili e contribuendo a creare un continuo esodo di persone in cerca di protezione internazionale [13]. Come abbiamo visto, nel 2015 il numero di rifugiati afghani superava i due milioni e mezzo di persone, la maggior parte delle quali ha cercato rifugio nei Paesi limitrofi (in particolare in Pakistan, in Iran e in Libano). Attualmente lo stato delle finanze pubbliche afghane é preoccupante: presenta un deficit in costante aumento ed enormi difficoltà a sfruttare il potenziale economico e le risorse minerarie del Paese [14]. La maggior parte dei problemi nascono in seno all’instabilità politica, continuamente alimentata dalla presenza dei Taliban, che a partire dal 2014 hanno approfittato del disimpegno internazionale per aumentare la pressione sul nuovo governo di Ghani e sulle neocostituite forze di sicurezza afghane.
Anche la situazione in Iraq é altamente instabile e, di tutti i focolai di crisi che interessano il Medio Oriente, quello iracheno é uno dei più critici. L’ondata di violenza e di destabilizzazione che colpiscono la regione, in parte derivano dall’invasione statunitense del 2003 e dalla successiva gestione del Paese che ne ha alterato profondamente gli equilibri geopolitici e confessionali [15]. Territorialmente l’Iraq é conteso tra lo Stato Islamico, i sunniti, gli sciiti e i curdi. Gli sciiti sono la maggioranza del Paese e dopo l’invasione statunitense del 2003 (anche questa condotta sotto l’amministrazione Bush jr.) acquisirono il potere attraverso elezioni regolari e certificate dalla comunità internazionale. I sunniti, spodestati dagli Stati Uniti nel giro di poche settimane subito dopo l’invasione, continuano ancora oggi a contestare la loro esclusione dal potere politico e, mentre a ovest lo Stato Islamico non smette di guadagnare terreno, a est continua a sferrare attacchi terroristici incontrollabili che coinvolgono in gran misura anche la popolazione civile. D’altra parte, essendo stato annientato da quasi dieci anni di conflitto, l’esercito iracheno non ha avuto modo di formarsi; motivo per cui il Paese é totalmente impreparato a fronteggiare autonomamente la presenza dello Stato islamico. Complessivamente, tale situazione ha causato una crisi umanitaria enorme, in conseguenza della quale la popolazione vive perennemente in uno stato di insicurezza e di povertà.
Naturalmente, entrambi i paesi (l’Iraq e l’Afghanistan) vertono in condizioni estre- mamente critiche per quel che riguarda la sanità pubblica, l’istruzione, la stabilità politica, l’accesso agli alimenti e al lavoro. Bisogna aggiungere che anche a causa dell’instabilità istituzionale e della con- sequenziale lentezza burocratica, spesso é molto difficile che i cittadini iracheni o afghani riescano ad entrare in possesso di un passaporto o di un visto per raggiungere legalmente l’Unione Europea. La maggior parte di coloro che sono riusciti a scappare dall’Iraq e dall’Afghanistan, ha cercato rifugio nei Paesi vicini (tra cui Pakistan, Giordania, Libano, Turchia, Egitto, Iran ecc.) [16], mentre una percentuale minore ha tentato di raggiungere l’Unione Europea.
Il caso siriano è estremamente problematico per quel che riguarda la scacchiera mediorientale. Come dicevamo, la maggior parte dei rifugiati nel mondo è di origine siriana; il Paese conta complessivamente 23 milioni di abitanti, di cui 7 milioni risultano essere sfollati interni e 6,6 milioni hanno lasciato il Paese per cercare rifugio [17]. Tra questi 2,7 milioni di persone si trovano in Turchia, 1,5 in Libano, 1,2 in Giordania, 247 mila in Iraq e 117mila in Egitto; mentre per quel che riguarda l’Europa, nel corso del 2015 sono stati registrati 381 mila arrivi. Gli scontri sul territorio siriano iniziarono nel 2011 sulla scia delle primavere arabe, nel momento in cui il governo presieduto da Bashar al Assad (la cui famiglia alawita era al potere da oltre quaranta anni) iniziò ad essere contestato in misura sempre maggiore dai suoi oppositori. L’anno successivo il conflitto sfociò in una vera e propria guerra civile che andò ben oltre le ragioni di ordine puramente ideologico.
Per via delle risorse minerarie di cui dispone (giacimenti di gas e di petrolio) e grazie alla sua posizione geografica, la Siria mantiene ancora oggi un valore geopolitico estremamente alto. Di conseguenza, nonostante in un primo momento lo scontro si fosse limitato alla contrapposizione tra il governo e i ribelli, con il tempo ha iniziato a coinvolgere attori regionali ed internazionali, entrambi attratti da interessi prevalentemente strategici e di mercato [18]. Nel corso della guerra, Assad ha continuato ad essere supportato da una serie di attori esterni (tra cui Russia, Cina, e Iran) per quel che riguarda il rifornimento del materiale bellico, senza il cui sostegno il regime non avrebbe probabilmente potuto affrontare un conflitto così lungo [19]. Dal canto loro, la fazione degli oppositori ha goduto del supporto di numerosi Paesi, tra cui Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Stati Uniti e alcuni dei Paesi europei, sostegno che anche in questo caso si é tradotto in dotazioni di armamenti e di equipaggiamento bellico.
Aldilà degli interessi puramente nazionali di ognuna delle potenze che é intervenuta nel conflitto, dopo cinque anni di guerra (guerra che per altro é ben lontana dal trovare una conclusione), hanno perso la vita 270 mila persone, e almeno la metà della popolazione ha abbandonato la proprio casa. Se é vero, come credo, che parte della opinione pubblica europea è sensibile al tema dell’immigrazione (e non solo per pietà, ma perché realmente cosciente della gravità della situazione), allo stesso tempo so benissimo che parte di essa non lo è affatto. Per quanto consideri naturale che ognuno rimanga fedele alle proprie idee (condivisibili o meno), ritengo sia importante riflettere sulle cause endemiche che provocano lo spostamento di intere famiglie da specifici Paesi, sopratutto alla luce del fatto che talvolta le opinioni soggettive sono generate da disinformazione e noncuranza.
Analizzare le origini dei migranti che tentano di raggiungere le nostre frontiere é utile anche ai meno sensibili per comprendere i motivi che li incentivano a dirigersi verso il territorio europeo. Credo che parte della popolazione europea sia oramai consapevole del fatto che i flussi migratori siano perlopiù costituiti da persone che necessitano di una qualche forma di protezione internazionale; ciononostante, analizzare le condizioni in cui vertono i principali Paesi di emigrazione, é utile e necessario per diverse ragioni. In primis per fare chiarezza divulgativa; ognuno di questi uomini, in quanto singolo, é spinto ad emigrare per una serie di cause sulle quali credo sia giusto riflettere. In secondo luogo per rispetto nei loro confronti. Sarebbe appropriato che la tematica venisse affrontata con cognizione di causa evitando che si parli dei migranti come se fossero una massa uniforme e indistinta di persone che vuole raggiungere l’Europa. In ultimo per riflettere su problematiche reali e concrete che coinvolgono alcune regioni del mondo.
Oltretutto, dotando l’opinione pubblica degli strumenti cognitivi necessari, é più probabile che si possano ripensare e decostruire alcuni concetti relativi all’immigrazione diventati obsoleti, come per l’appunto quello del migrante irregolare. I processi migratori sono, costitutivamente per loro natura, fenomeni tutt’altro che statici, di conseguenza sarebbe necessario che le società moderne e democratiche evolvessero di pari passo, adattandosi continuamente alle esigenze sociali determinate da tali cambiamenti.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
Note
[1] Art.25 comma 1 della Dichiarazione universale per i diritti umani
[2] ”How many migrants to Europe are refugees?”, The Economist, 7/09/2015.
[3] http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/7203832/3-04032016-AP-EN.pdf/ 790eba01-381c-4163-bcd2-a54959b99ed6
[4] UNHCR, Global trends forced displacement in 2015
[5] The State of Food Insecurity in the World 2014, in Food and Agricolture Organization of the United Nations.
[6] UNDP, Human Development Report 2015, Work for Human Development.
[7] Marco Zupi,, L’Africa e le trasformazioni in corso, tra persistenza dei problemi strutturali e nuove opportunità, CESPI- Centro studi di politica internazionale, 2014.
[8] Amnesty International, Rapporto annuale 2014-2015, Africa Subsahariana Panoramica.
[9] Marvin Seniga, Le rotte dei migranti: Eritrea, in Europinione, 2015
[10] Marco Cillario, Le rotte Dei Migranti; la Mauritania, 2015.
[11] Dal 2003 al 2014 la NATO rimase in Afghanistan sotto l’operazione ISAF, International Security Assistance Force.
[12] UNHCR, Rifugiati afghani. la crisi non va dimenticata. Cost of war project. Watson Institute. International and Public affairs. Brown University. https:// www.unhcr.it/news/rifugiati-afghani-la-crisi-che-non-va-dimenticata.html
[13] Secondo la stampa italiana, solo nel 2014, tra i morti e feriti sono stati colpiti 10.000 civili afghani. http://www.panorama.it/news/esteri/obamamania/afghanistan-finita-guerra-guerra- continua/
[14] Daniele Grassi, La pace impossibile in Afghanistan, in. “Limes”, 07/2015.
[15] Le guerre islamiche, in “Limes”, 09/2015
[16] ibidem
[17] Near East New Agency http://nena-news.it/rifugiati-chi-come-e-perche-sfrutta-dramma-dei- profughi-siriani/
[18] Lorenzo Trombetta, Le Sirie in vendita. Le guerre islamiche, in “Limes” 09/2015.
[19] Damiano Becherucci, Guerra in Siria: le armi in campo, in Osservatorio di Politica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.net
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Margherita Bartolino, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università della Calabria e la laurea specialistica in Scienze internazionali e diplomatiche presso il Polo didattico di Forlì dell’Università di Bologna. Principalmente si occupa della tutela internazionale dei diritti umani e di cooperazione internazionale. Ha svolto ricerche specifiche sul problema della pirateria in Somalia e sulle vittime del terrorismo di Stato in Argentina in collaborazione con diverse ONG locali di Buenos Aires. Attualmente sta svolgendo in Spagna un Ph.D in Diritti umani, democrazia e studi sull’immigrazione nonché sulle politiche dell’Unione Europea. Parte della ricerca di dottorato è condotta in collaborazione con Amnesty International.
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