di Flavia Schiavo [*]
Il passaggio tra il XVIII e il XIX secolo, fatto d’innumerevoli fratture e “piste”, nella vasta porzione industrializzata del mondo, ha ridisegnato rapporti, cambiato le forme di organizzazione del lavoro e della produzione, mutato l’ordine interno e l’ordine globale di alcuni Sistemi o Stati, introdotto nuove “definizioni”, nuove locuzioni, nuovi “oggetti” e strumenti di partecipazione/segregazione, controllo/manipolazione e di potere.
Tra le espressioni che emergono durante tale fase epocale, due forniscono la misura e le contraddizioni di una “condizione” contestuale alla nuova società [1]. La prima, “Quarto Potere”, riferita all’informazione e pressoché coeva alla seconda espressione di cui si dirà più avanti, fu coniata nel 1787, durante una seduta della Camera dei Comuni del Parlamento inglese. La locuzione definisce il ruolo del mondo dell’informazione, allora nascente, di cui giornali e stampa furono e sono una parte significativa, sia in ambito civico che politico, sia in quello socio economico.
Autore dell’espressione fu il deputato inglese liberal Edmund Burke (figura inizialmente cara a T. Jefferson), un politico e un filosofo che ebbe un ruolo, si potrebbe dire, non marginale, nella Guerra d’Indipendenza americana. Burke, richiamando la tripartizione e la separazione dei poteri enunciata da Montesquieu, evidenziò la presenza di una quarta forza “esterna” al campo accreditato dei poteri istituzionali che, già allora dotata di un ruolo, ne avrebbe acquisito uno enorme e dilagante nella struttura della società post Rivoluzione industriale. Quell’espressione, concepita nel mondo anglosassone, ab origine decisamente più pluralista e maggiormente fondato sul decentramento federale, sulla distribuzione orizzontale dei poteri e delle competenze, segna sia la nascita di un’Era, quella dell’Informazione, sia il passaggio da una condizione strettamente materiale a una che contempli il virtuale, ponendo l’informazione stessa e il suo flusso all’interno del novero dei “beni” e delle “merci” prodotte e dunque attribuendo a essa, quale variabile indipendente, la funzione di attivatore di output e input, all’interno della macchina stritolante del Capitale nel mondo occidentale.
L’informazione, da sempre strumento politico, condicio sine qua non dell’accesso, della partecipazione, della scelta, strumento potenziale della coscienza civica e politica e dell’intelligenza sociale e di contro strumento per la costruzione di élite e di emarginazione, diviene attrezzo precipuo del Capitale e dispositivo della macchina di produzione urbana, sia per quanto attiene gli aspetti economici sia riguardo quelli culturali, sia relativamente alla forma e alla struttura materiale della città in numerosi ambiti, in particolare, a due tra gli snodi focali di NYC, Park Row e Times Square.
La seconda espressione presa in esame, “Quarto Stato”, definisce un ampio strato della popolazione, fortemente svantaggiato, che emerse in una fase in cui la società si andava differenziando. L’espressione fu introdotta durante la Rivoluzione francese (e prima che Marx disegnasse l’icona della “merce”, la piramide dei ruoli tra vessati e vessatori e l’antinomia tra Proletario e Capitalista) e indica coloro che subiscono la stretta mortale del Capitale e, nel contempo, si pongono come “soggetti” sociali “altri”, antagonisti del Capitale stesso. I “proletari”che sono portatori di una serie di diritti, tra cui quello di accesso all’informazione, divengono un fronte sociale che la stessa informazione pose al centro del proprio sistema, sia puntando a una manipolazione e a un controllo, sia attraverso la nascita del giornalismo d’inchiesta e del reportage sulle condizioni sociali delle categorie svantaggiate. Uno per tutti il lavoro di Jacob Riis che fondò il fotogiornalismo d’inchiesta, nel 1890, con la pubblicazione di un puntuale resoconto dal titolo How the Other Half Lives. Un reportage che fornisce notizie e restituisce visivamente, attraverso un enorme repertorio fotografico, la condizione dei migranti che affollavano numerosi ambiti urbani a NYC, tra essi la Lower East Side. I giornali, allora, furono uno strumento chiave nella formazione dell’articolazione democratica, rinnovata e organizzata dalla Rivoluzione Industriale (in Europa e in America), sia come portatori del diritto di accesso, sia come strumento surrettizio di controllo delle masse.
Il dipinto del 1901, di Pellizza da Volpedo, “Il Quarto Stato”, che fa da contraltare ai numerosi quadri di autori precedenti e coevi che raffigurano la Borghesia europea e americana, rimanda proprio a tali concetti, rappresentando un “esercito” di uomini e donne, schierati come un solo corpo, quando sperequazioni, scissioni intra-societarie e contrapposizioni di classe si stavano amplificando macroscopicamente, agglutinando una famiglia di fenomeni che avevano nella città, luogo di produzione dei circuiti del potere, del sapere, delle merci, un proprio spazio elettivo.
Si tratta di fenomeni e processi generali come produzione di beni e servizi, azione civica e politica, governo reale (della macchina urbana) o fenomeni specifici tra cui scioperi, formazione di sindacati, o fatti relativi al manifestarsi di “figure” o attori urbani – tra cui le Insurances (le Assicurazioni) che, soprattutto in America, ammortizzavano i rischi e le cadute non solo dei capitalisti, ma anche degli appartenenti alla working class: tutti nel complesso intrattenevano un rapporto privilegiato con lo spazio della città (inteso in termini socio economici) e con l’informazione. Essa diffondeva notizie (vere; quasi false; esagerate; sensazionali; rigorosamente riportate; funzionali allo sviluppo; di settore, si pensi al newyorchese The Wall Street Journal) [2], si schierava e influenzava opinioni, proteggeva o vessava gruppi o minoranze, diventava grimaldello o strumento di potenza, determinava fronti, promuoveva assetti, contribuiva all’istituzione di forme di partecipazione collettiva, e di forme di segregazione di categorie o di gruppi, oppure attivava moti o esclusioni di massa. Basti pensare ai Draft Riots (una sollevazione popolare) del 1863 a NYC, durante la Civil War, o all’influenza che ebbero i giornali newyorchesi nel promuovere alcuni candidati, inizialmente sfavoriti, come A. Lincoln. Come pure nello sponsorizzare alcune iniziative bottom-up (si pensi al progetto del Central Park, non contenuto nel Piano del 1811 che disciplinò la maglia per lo sviluppo urbano) o nell’attivare alcune azioni di controllo dell’illegalità urbana imperante, come accadde a proposito dell’arresto di uno dei boss più potenti del tempo, William Magear Twidd.
In una città come NYC – che deve la propria ascesa già nel XIX secolo alla costruzione di un esteso network, agli scambi immateriali, al paesaggio finanziario polimorfo che vive di transazioni e di movimenti di capitali, al pluralismo – il flusso delle informazioni fu tra i cardini sostanziali dell’esplosione economica e della forma plastica e versatile che la società newyorkese assunse. Quella città, infatti, fu uno dei territori in cui si manifestarono ante litteram i primi segni di ciò che molti anni più tardi verrà definito “economia della conoscenza” o “capitalismo cognitivo”. Una prospettiva interpretativa, questa, che pone al centro la trasformazione dei modelli produttivi, in altre parole il transito da un modello fordista, fondato sulla produzione industriale che vive di gerarchie verticali a un modello a rete, orizzontale, attivo a livello transnazionale e che si fonda su strategie e architetture tradizionali e su produzioni immateriali.
In tal senso, la produzione non va intesa come fosse centralizzata all’interno della fabbrica, ma come compiuta tramite una serie di dislocazioni non-omogenee, interconnesse e sinergiche, collegate da “fili” espliciti (propri delle economie tradizionali) e impliciti (insiti ad altro genere di organizzazioni produttive). Una filiera di produzione, materiale e immateriale, di cui l’informazione è parte determinante, informazione che va dal know-how alla pubblicità, alla circolazione del sapere e delle idee, alla informazione finanziaria o politica, alla cronaca nazionale e locale. Una narrazione urbana (locale e globalizzata) fatta di macro-storie e di micro-eventi.
Questo contesto, che descrive in sintesi una realtà più decisamente contemporanea, ha un valore esplicativo per la vita newyorchese già fin dal XIX secolo in quanto NYC fu sede elettiva di fenomeni che interessarono il mondo globalizzato solo più avanti. NYC, infatti, fu la capitale mondiale dell’informazione e della smaterializzazione della produzione economica, fondando essa su un’integrazione tra globale e locale e sulle transazioni finanziarie. Fu una città dove le attitudini diventarono forme, dove gli elementi e il capitale umano furono reificate in macchine di produzione, dando nuovi segni e significati allo spazio urbano.
Questo macro insieme di fenomeni che riguardano le “architetture” economiche vive, si alimenta oltre che di internazionalizzazione, anche di circolazione di informazione, di accesso ai dati, di democrazia partecipativa, vissuta come dirà Dickens «in strada», e di costruzione del consenso/dissenso attivato anche per via dell’informazione, di architetture “orizzontali” fatte non solo dall’agire dei portatori di interesse e dei politici, ma anche dell’azione sul campo dei semplici cittadini, che dai giornali furono messi in condizione di partecipare più consapevolmente. Tale considerazione si fonda sulle parole vergate dallo stesso T. Jefferson che, auspicando la formazione di una società di soggetti autodeterminati, capaci di scegliere, sostenne:
«Were it left to me to decide whe ther wes hould have a government with out newspapers, or newspaper swith out a government, I should not hesitate a moment to prefer the latter. But I should mean that every man should receive those papers and be capable of reading them» [3].
Un’affermazione elettrizzante e provocatoria, che dà la misura di una società in formazione, certamente sperequativa, ma fondata su una sostanziale autodeterminazione individuale: solo se informati si è in condizione di decidere e di progredire, solo grazie all’informazione si diventa attori – e autori – di un governo che, pur nella delega, manifesti una natura tendenzialmente democratica come quella che idealmente si stava prefigurando in America. È in tal senso che i giornali furono uno strumento potentissimo di tale forma di utopia concreta e furono, anche, oltre che parte della macchina sperequativa legata alla gestione del potere, uno dei puntelli su cui venne edificato l’Impero.
Va precisato che in epoca successiva (nella fase compresa tra il 1915 e il ‘25) i sociologi della Scuola di Chicago nel volume The City dedicarono un intero capitolo all’informazione. Intesa quale parte di un sistema assai ampio, al quale la compagine di R. Park aveva attribuito funzione determinante nella strutturazione della città, il Laboratorio urbano a essi contemporaneo. Interna alla questione della “mobilità” vista in termini complessivi, fulcro urbano per eccellenza, la comunicazione è tra le modalità tramite cui la mobilità stessa può essere declinata. All’interno di essa vanno inseriti i mezzi di informazione che, secondo Park e compagni, modificano l’organizzazione sociale ed economica. Secondo il gruppo di Chicago a tale movimento interno dell’organizzazione urbana corrisponde, anche, la perdita delle relazioni dirette o primarie (il “face to face”) che vengono sostituite da quelle secondarie o indirette, mediate da relazioni di distanza, di lavoro meccanizzato e di potere. Tale trasformazione contribuì alla profonda e dicotomica scissione esistente tra Comunità e Società, esprimendo un interessante aspetto della città, che non restituisce però l’interezza delle contraddizioni e della vitalità insite nell’urbano, all’interno del quale non si manifestano solo antinomie ma si formano interconnessioni proprie di un campo ibrido entro cui vivono più componenti: la disgregazione alla Simmel, l’aggregazione interna e fluttuante tra le persone, le competenze e le imprese.
In una grande ed eterogenea città come NYC quest’ultimo fenomeno avviene sia grazie alla formazione di un network ante litteram, sia come derivato delle grandi migrazioni che compongono un tessuto multietnico all’interno del quale agiscono micro-comunità che funzionano come quelle di matrice storica. La rete e la rottura del legame sociale, fenomeni apparentemente dicotomici, invece fluidamente compresenti, danno vita così a un tessuto insieme coeso e sgretolato, in cui da un lato aumentano i disagi e i problemi sociali (sperequazione; criminalità; violenza; marginalità), dall’altro crescono gli elementi creativi in cui il capitale sociale (soprattutto quello individuale, collettivo in seconda battuta) assume un enorme valore incrementale. La massa, infatti, non è una categoria generica e onnicomprensiva, ma un sistema fluido e instabile (attribuendo a tale qualità un’accezione positiva). Vi emergono micro-differenze, sia canali per trasformare diversità e spinte in azioni concrete attivate anche per la presenza forte dei mezzi di informazione. La folla dei lavoratori in alcune delle grandi città americane, infatti, non è una massa indifferenziata da controllare con sistemi coercitivi come accade in un sistema totalitario, ma una struttura fluida in movimento sulla quale è possibile esercitare certamente un controllo compiuto dal Capitale (dei comportamenti e sui consumi, per esempio), anche attraverso i giornali, ma la medesima folla manifesta una sorta di “contropotere”, essendo capace, come aveva detto Jefferson, di utilizzare l’informazione come strumento di potenziale libertà.
La massiva presenza dei Newspapers, dal XVIII secolo in avanti, spinge ad affermare che essi possano essere considerati sia parte del corpus sconfinato dei competitors, sia essere inclusi tra gli “attori” economici e sociali di quella iniziale stagione esplosiva. Le Companies, le Imprese, le Insurances, le Holdings, le Banche, la New York Stock Exchange, le Corporations e i Newspapers “scrivevano” per la città e “scrivevano” la città, insediandosi, caratterizzando spazi, trasformandoli, agglutinando competenze, capitale umano, muovendo flussi di persone, fornendo strumenti per agire. I due esempi trattati nella seconda parte del saggio: Times Square e Park Row, danno la misura di quanto i luoghi fossero “scritti” dalla presenza dei Newspapers, già fin dalla seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, destinati ad orientare la trasformazione successiva di alcune parti di Manhattan.
Il lungo ponte temporale tra il XIX e il XX secolo fu caratterizzato dalla stabilizzazione di una specifica libertà, inizialmente sancita dalla Costituzione, e dalla definizione di un sistema di diritti/doveri, in cui il sapere, la conoscenza, la parola, l’informazione, furono parte sostanziale di un background di cui i Newspapers furono protagonisti, nonché attivatori di un potentissimo sistema di feedback sia economico sia strettamente urbano.
Sapere in progress, conoscenza in itinere, informazione diffusa e aperta, peraltro concepita in un milieu plurale dal punto di vista politico e culturale (per le innumerevoli etnie presenti), anche se orientata alla manipolazione dei comportamenti sociali e alla creazione di imperi mediatici con influenza sul governo e sulla politica locale e internazionale, divengono elementi sdoganati dal solo circuito elitario e da una visione totalitarista (sebbene gravata dalla tirannia del Capitale e da una gestione spesso personalistica degli eventi) in virtù delle innovazioni tecnologiche e della forma del Capitale statunitense orientato a una massimizzazione dei profitti, in un’aperta e feroce competizione face to face, tendenzialmente e grazie alla circolazione delle informazioni, open source, forma anch’essa presente ante litteram.
L’informazione circolante genera un capitale sociale flessibile e un general intellect che nella visione marxiana è un combinato di expertise tecnologiche e intelletto sociale (e/o conoscenza sociale) messi in rete dalla stessa vita urbana. Il Capitale si autoalimenta nella costruzione di una struttura reticolare non gerarchica che, nel caso di NYC, si compone anche grazie alla circolazione di un sapere variegato e accessibile, vero, falso, di parte, oppure di settore [4] ma sostanzialmente plurale e non totalitario.
Mezzi di produzione, “macchina” industriale, intelligenza sociale, generano beni materiali e immateriali. Tra essi l’informazione, un’infrastruttura di sostegno che ha per supporto la carta stampata, ed è distribuita, diffusa e fruita in un’ottica assai differente da quella tipicamente europea fondata sulla netta contrapposizione tra capitalisti e proletari. L’informazione in alcune città americane, tra cui NYC, dunque, pur essendo servile alla società di quel tempo, mina la supremazia dei portatori d’interesse di stampo europeo (disegnata da Marx ed Engels) e feconda l’armonico e brutale disequilibrio che necessita di “nutrimento” specifico e differenziato, vive di acquisizione di gradi di libertà (tra cui quello di parola) e genera, ancora una volta ante litteram, una cultura eminentemente urbana, che non si limita a nutrire il binomio fisso capitale/politica spesso strettamente intrecciato.
È in tal senso che i Newspapers nel XIX secolo a NYC sono parte di quel sistema contraddittorio dotato di un recto e di un verso e possono essere annoverati tra le “fabbriche” di produzione urbana, di elaborazione culturale, di argot, di buone pratiche, di azione di produzione socio-economica, di spazio. Fabbriche d’intelligenza sociale e “fabbriche del dissenso”, manifestano un sistema di poteri accreditati, di contropoteri nucleari od organizzati, alimentati dall’energia della comunità e della città.
Tutto ciò non accade per caso: è di fondamentale importanza, in America, come nel Regno Unito[5], come nel resto del mondo industriale, il peso attribuito nella Costituzione alla libertà di parola e di stampa, alla circolazione delle idee, tutti passaggi interconnessi alla trasformazione del concetto di comunità e alla nascita di una specifica democrazia e di una società polimorfa e pluralista, dichiaratamente individualista e subdolamente collettiva al tempo stesso, le cui tracce che si riscontrano in pochissime città europee, sono presenti in numerose città americane, una su tutte appunto NYC. La libertà di parola e di stampa non è affatto accessoria, e non va intesa unicamente in senso speculativo, filosofico o argomentativo, quanto piuttosto pragmatico (la parola è e induce azione; la parola performa fattualmente) ed è pertanto annoverata tra le libertà istituzionalizzate e insite nella Costituzione americana e nelle due Bill of Rights qui citate, quella americana ratificata nel 1791 parzialmente redatta su modello del documento stilato dal Parlamento britannico nel 1698, considerato tra i cardini del sistema costituzionale del Regno Unito.
L’emergere di tale innovativa condizione, che pone la libertà di espressione al centro di un sistema democratico, libertà soggetta a verifica e controllo, fu oggetto di studio solo in seguito, grazie al lavoro d’innumerevoli autori che, dalla Scuola di Francoforte, a N. Chomsky, a E. S. Herman, a M. Castells, analizzarono l’influenza dei mezzi di comunicazione sulle trasformazioni sociali. E non è un caso che la locuzione “Quarto Potere” rimandi, tanto quanto “Quarto Stato” raffiguri l’immagine del fronte dei proletari schierati, a un film del 1941, scritto, interpretato e diretto da un giovanissimo Orson Wells (aveva solo 25 anni), che racconta l’impatto del giornalismo sulla società contemporanea [6] e la storia di un magnate dell’editoria, la cui vita è ispirata a uno dei protagonisti del giornalismo americano e newyorchese, William Randolph Hearst, competitor di J. Pulitzer.
La Bill of Rights del 15 dicembre1791, che contiene i primi 10 emendamenti, ha tra i suoi maggiori estensori T. Jefferson, assente quando venne redatta la Costituzione, anche se attivo nel processo di formazione della stessa. Il rapporto con la libertà di stampa e di parola, specificamente contenuto nel 1° Emendamento [7], ha in Jefferson un eminente sostenitore, come dimostrato dalle parole riportate in precedenza che chiudono la citazione che segue:
«The people are the only censors of their governors: and even their errors will tendtokeepthese to the true principles of their institution. Top unish these errors too severely would be to suppress the only safeguard of the public liberty. The way to prevent these irregular interpositions of the people is to give them full information of their affairs through the channel of the public papers, and to contrive that tho sepaperss hould penetrate the whole mass of the people. The basis of our governments being the opinion of the people, the very first object should be to keep that right» [8].
Con questo discorso forte e intenso, parte di una lettera inviata al Colonello del Continental Army, Edward Carrington, il 16 gennaio 1787, quattro anni prima che la Bill of Rights fosse ratificata, con la solenne affermazione che il fondamento del governo è l’opinione del popolo e che il primo oggetto deve essere il mantenimento di tale diritto, si sancisce non solo la libertà di stampa e di parola, ma il diritto all’accesso all’informazione, posto tra i cardini della democrazia americana. La libertà di parola, l’importanza attribuita all’informazione, sono parte del flusso e della rete d’interconnessione su cui si misura l’autodeterminazione degli individui, “singoli” ma cittadini di un collettivo e di un pluralismo. Cioè di quegli abitanti di un pianeta regolato in cui le scelte individuali, la certezza dei diritti ottenuta anche grazie all’autodeterminazione consapevole richiamata da Jefferson, che omette nel proprio discorso il “lato” oscuro della stampa, pone essa tra i potenti strumenti su cui si fondano le certezze della neonata società americana: un sistema fluido, ma disciplinato da uno sconfinato e per certi versi rassicurante pragmatismo, una stretta relazione tra delega, responsabilità e controllo, tra governo e soggetti, un sistema di libertà condizionate confliggenti/alleate, tra cui quella di espressione alla quale si attribuisce un valore che esula dalla teoria e persegue ricadute concrete, sia in ambito economico e sociale che strettamente urbano.