di Nicola De Gregorio
I frutti che oggi chiamiamo “antichi” sono il risultato di quel lungo processo evolutivo che ha generato, attraverso la selezione dei contadini, la molteplicità di animali e vegetali addomesticati. A partire da ottomila anni fa, a un nutrito gruppo di specie indigene (castagno, carrubo, sorbo, perastro, olivastro, prugnolo) si sono sommate numerose specie esotiche, e già nel IV millennio a.C. si documenta nel Mediterraneo la coltivazione di quelli che vengono considerati i fruttiferi più rappresentativi dell’area: l’ ulivo, la vite, il fico e la palma da dattero.
La Sicilia, per la sua posizione geografica, è stata da sempre un ponte di ingresso di nuove specie. I Fenici vi introdussero il mandorlo, originario dell’Asia centrale e il melograno dall’Asia minore. Successivamente, in seguito alle spedizioni di Alessandro Magno contro i Persiani, arrivò in Europa anche il pesco (u pièrsicu), proveniente dalla lontana Cina.
In epoca romana, con l’espandersi dell’Impero, vengono poi conosciuti in Italia nuovi frutti provenienti dall’Oriente, dall’Africa e dall’Europa settentrionale. Secondo quanto riporta Plinio, in età imperiale giungono l’albicocco dall’Armenia, il nespolo d’inverno dalla attuale Germania e il pistacchio (originario dell’odierna Afghanistan) dalla Siria, mentre si coltivavano e si conoscevano già il noce, il nocciolo, il cedro e i limoni cedrati.
In epoca bizantina assieme alla bachicoltura, migrano anche i gelsi bianchi e il gelso moro mentre ciliegio, susino e melo, raccolti per lungo tempo allo stato spontaneo, avranno invece la loro massima diffusione soltanto intorno all’anno mille, quando si sarà affermato l’innesto. Nello stesso periodo storico, grazie agli Arabi, viene introdotto in Europa anche l’arancio amaro che, nei secoli successivi, divenne il portainnesto del melarancio, l’arancio dolce, chiamato in dialetto portoallu, in ricordo di coloro che appunto lo introdussero dalle Indie orientali, ossia i navigatori portoghesi. Con la scoperta delle Americhe arriva in Sicilia anche il ficodindia che, nell’arco di pochi secoli, diviene uno degli elementi caratterizzanti del paesaggio agrario dell’Isola. Intorno alla metà dell’Ottocento, infine, sono introdotti gli ultimi frutti antichi di Sicilia: i loti e i nespoli dal Giappone.
Frutti e tradizioni popolari
Gli alberi da frutto tradizionali costituiscono un’importante chiave di lettura di un territorio. Essi riflettono una maniera di rapportarsi alla natura e di disegnare il paesaggio; raccontano la storia, le vicende culturali, le attività economiche passate dei luoghi cui appartengono.
Nella cultura tradizionale il frutteto era caratterizzato dalla policoltura e prevedeva sempre la scelta razionale di varietà rustiche e resistenti alle avversità, legate a un territorio o adattatesi nel tempo a esso. Tali varietà dovevano coprire un periodo di fruttificazione ampio che, a partire dal periodo primaverile arrivasse quasi all’inverno: per fare ciò, si dovevano coltivare sia specie e varietà da mangiare fresche all’albero, sia varietà più idonee alla conservazione.
Coltivati in piccoli poderi assieme a ulivi, vigne, frutta secca, cereali, legumi e ortaggi, gli alberi da frutta della tradizione alimentare siciliana venivano curati principalmente per soddisfare il fabbisogno familiare. La frutta quasi mai era oggetto di commercio, fatta eccezione nei mercati rionali delle città e nelle rare aree in cui questa diveniva oggetto di coltura specializzata. Nei piccoli centri solitamente si barattava o si regalava e, come tale, si inseriva all’interno di un circuito di scambio: la frutta era di tutti e per tutti, al pari del gelso moro piantato ai confini dei terreni, nei luoghi di passaggio.
Nella cultura tradizionale l’albero è un elemento simbolico ricorrente e carico di significati. La sua sacralità si presenta, sotto le più svariate forme, in numerosissime feste tradizionali siciliane. Ciò vale anche per la frutta, ritualmente consumata nelle tavolate di San Giuseppe come nel banchetto dei Morti, nei momenti di ristoro della mietitura come nelle serate d’inverno seduti davanti a un fuoco.
Le denominazioni dialettali
I frutti antichi, per la consuetudine comunitaria di tramandarli sono noti con almeno un nome proprio riconosciuto e usato dalla gente. Il periodo di maturazione scalare delle varietà antiche viene scandito dalle numerose denominazioni dialettali di natura “temporale”.
La cirasa maiulina, ad esempio, matura a fine maggio mentre il piru e il pumu di San Ciuvanni si iniziano a consumare intorno al solstizio d’estate. I piridda (o pirazzola) di san Pietru e il prunu sampitranu maturano a fine giugno, nei giorni della festa di san Pietro, mentre il pircocu di sant’Anna nella seconda metà di luglio. Varietà precoce è la fastuca agostana mentre tardivo è il prunu sittimbrinu. Alla stagione più fredda rimandano i peri e i meli autunnali da conservare, la sorva natalina e l’ultimo frutto dell’anno, la ficu natalina.
Altre denominazioni tradizionali si legano alla “provenienza”, all’areale di irradiazione originario. È il caso, ad esempio del santagilisi, impollinatore maschile del pistacchio (da Sant‘Angelo Muxaro, nell’agrigentino), del pumiddu di Salemi, di area trapanese, del varcocu sciddataru (da Scillato) di area madonita, della cirasa capizzota (da Capizzi) di area nebrodense, del prunu i Murriali, originario della Conca d‘Oro. Meno frequentemente la denominazione rimanda al nome (al podere) di chi l’ha per primo selezionato (es. piru Mastrunatali, mandorlo Don pitrinu; limone Interdonato).
Talvolta, il nome prende origine dalla colorazione della buccia, della polpa o del mallo. L’aspetto esteriore (a facci) costituisce una sorta di carta d’identità che consente di riconoscere quella singola varietà fra tante: è il caso, ad esempio, dell’albicocco o del piru facci russi, della fastuca (pistacchio) bianca, dell’oliva bbianculidda. In altri casi la facci non è segnata dal colore ma da alcuni tratti distintivi che solo a chi è in grado di leggerli risultano riconoscibili: così è, ad esempio, per il piru facci ri ronna e il piru facci di còriu.
Altre volte a suggerire il nome è il colore della polpa: così è per la ficudìnia surfarigna che ricorda il colore dello zolfo o per quella sanguigna che, come per le arance sanguigne o le pesche sanguinelle, richiama, invece, il colore del liquido rosso della vita.
I sapori dei frutti antichi risultano essere molto vari: a maturazione completa oscillano dal dolce all’ amaro, dall’aspro all’acidulo. Il prunu muscateddu evoca il sapore dell’uva moscato; il pumu cannameli è dolce al palato come la canna da zucchero; l’arànciu vaniglia ricorda il dolce della vanillina. Ma non tutti i sapori sono gradevoli al palato: la miennula amara, adoperata egregiamente nella pasticceria tradizionale, è amara come il fiele; il piru aglisi ricorda il sapore dell’aglio.
Molto di frequente, il nome trae origine dalle caratteristiche morfologiche del frutto messe in relazione, per somiglianza, a parti del corpo umano e animale, o alla forma di altri frutti. Esempi del primo caso sono il fico nero minna di sciava (mammella di schiava), il prunu occhiu di voi (occhio di bue), il melograno dente di cavallo, l’uva cori i palumma (cuore di colomba), il prunu capicchi i vacca (capezzoli di mucca), la mandorla pizzu di corvu (becco di corvo). Appartenenti al secondo caso sono, invece, il prunu varcucaru (a forma di albicocca), il prunu cirasolu o ciraseddu (a forma di ciliegia), la mìennula fastuchina (a forma di pistacchio), l’albicocco minnulìcchia (a forma di mandorla) e la fastuca cirasola (a forma di ciliegia).
La bellezza e la grossa pezzatura di alcuni frutti li rende degni di personaggio di alto rango o li paragona ad essi: è il caso del piru imperiali, del piru papali e dell’albicocco rreggina. Appariscente d’aspetto come questi ultimi ma non particolarmente buono è invece il piru baggianellu (lett. millantatore), una rara varietà di pera autunnale. Un frutto di pezzatura molto piccola, tanto da riuscire a farne entrare contemporaneamente “sette in bocca” è il piru settimmucca, una varietà precoce di pere a grappolo molto dolce e gradita ai bambini.
Alcune denominazioni dialettali, infine, attribuiscono a delle singole varietà di frutta virtù magiche o medicinali: il piru sanamalati, ad esempio, porta con sè la virtù di curare i mali; il prunu sanacori allevia i problemi cardiaci; il prunumprenavecchi ha il potere di fecondare le donne anziane; il piru pisciazzaru favorisce la diuresi.
Le varietà antiche oggi
Bruciate o estirpate, relegate ai margini di un modello di agricoltura che predilige la quantità di prodotto alla sua sostenibilità, le varietà di frutta della tradizione alimentare siciliana si sono ridotte notevolmente, fin quasi a scomparire. Con esse si stanno perdendo una varietà di sapori, aromi e profumi; di caratteristiche morfologiche specifiche di ogni varietà. Di alcuni frutti antichi oggi rimangono pochi esemplari che risultano di non facile riconoscimento e anche le denominazioni dialettali sono cadute nell’oblìo o vengono confuse.
Tuttavia, ormai da anni, i frutti dimenticati conoscono un crescente interesse da parte dei consumatori più avvertiti e il mondo della ricerca scientifica guarda con attenzione ad esse, anche al fine di un loro riutilizzo nell’agricoltura ecosostenibile e nelle biotecnologie. È all’interno di questa fase di reintroduzione che trova un senso la nascita del nostro campo aziendale di conservazione del germoplasma. La biodiversità ha garantito nel tempo un’elevata capacità di adattamento e la possibilità di superare cambiamenti ambientali o particolari pressioni fitopatologiche. Al contrario, l’impoverimento biologico comporta un rischio enorme per l’equilibrio ambientale.
Oggi il nostro compito è quello di ridare significato ai frutti antichi; recuperarne conoscenze intorno ai nomi, agli usi, agli aspetti agronomici; contribuire alla reintroduzione; riassaporarli e condividerli. Gli alberi della tradizione alimentare dovrebbero essere considerati veri e propri beni culturali da tutelare in quanto patrimonio collettivo: ricominciare a coltivarli oggi significa riallacciare un legame identitario con un’agricoltura del passato che vive assieme alla natura che la circonda, rispettandola e costituendone parte integrante.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
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Nicola De Gregorio, vive a Cammarata, nella campagna agrigentina. Laureato in Beni demoetnoantropologici presso l’Università di Palermo, per più di dieci anni ha effettuato ricerche sul campo per conto dell’Atlante Linguistico della Sicilia. Con l’ALS ha pubblicato una monografia sulla Cultura alimentare a Cammarata, la sua comunità di origine, e un saggio areale sulle carni rituali di capra nei monti Peloritani. Attualmente gestisce un’azienda agraria biologica che coltiva e tutela la biodiversità autoctona siciliana. Assieme ad altri giovani ha scelto di ritornare a produrre grani antichi in maniera eco-sostenibile e recuperare le varietà di frutta e legumi in via di estinzione.
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