di Valentina Richichi
Quando parliamo di migrazioni, siamo tendenzialmente portati a considerare la vicenda del viaggio, con le sue difficoltà e i suoi spesso tragici esiti, e le condizioni di vita nelle terre di approdo, sia nell’ambito delle politiche di accoglienza che per quanto concerne una successiva fase di stabilizzazione e inclusione sociale. Gli studi che affrontano l’analisi dei flussi migratori includono però anche le osservazioni compiute sui contesti di partenza, aspetto che ricopre una certa importanza per la comprensione degli sviluppi successivi: gli stessi luoghi valutati in via preliminare quali di partenza tout court si rivelano invece quali tappe soltanto intermedie delle cosiddette “migrazioni interne”, dove “interne” si riferisce allo spazio di un solo continente o di una ben più ristretta area territoriale che includa stati confinanti. Per meglio comprendere quanto appena detto, basti pensare alle partenze via mare dalle coste libiche, dove la Libia non è altro che un luogo di passaggio, una tappa che è stata preceduta da un viaggio cominciato già nelle regioni subsahariane dell’Africa.
Oltre che sui movimenti interni, lo sguardo antropologico ha la necessità di conoscere le realtà locali di partenza, dove vengono a determinarsi dinamiche culturali legate non soltanto all’esperienza di un progetto migratorio e del corollario di dimensioni immaginali e reti transnazionali di supporto, ma anche alle riconfigurazioni identitarie locali che scaturiscono proprio dall’esperienza di migrazione, dovute principalmente all’invio delle rimesse economiche. Queste ultime non sono, d’altra parte, mai sole: l’invio di denaro dall’estero e il conseguente incremento della capacità economica dei familiari degli emigrati – espressa attraverso l’acquisto di beni immobili, sontuose feste di matrimonio, e un generale miglioramento del tenore di vita – vengono a configurare un parallelo invio di rimesse culturali, mediate dalla narrazione delle proprie esperienze di vita nei paesi di arrivo e di una più o meno buona riuscita di un progetto migratorio che ha anche, come obiettivo implicito, l’aumento del prestigio della famiglia d’origine, come dell’intera comunità.
Alcuni interessanti studi che abbiano preso le mosse a partire da questa prospettiva di metodo sono quelli raccolti nel volume Migrazioni. Dal lato dell’Africa, a cura di A. Bellagamba (2011), in cui lo stesso sottotitolo esprime l’intento di documentare e discutere in maniera analitica i processi culturali interni alle vicende migratorie e ai rapporti di causa-effetto correlati alla vita sociale di territori di partenza come quelli di Benin, Somalia, Uganda, Mauritania e Sud Africa, contesti narrati anche nel nuovo Dossier statistico immigrazione 2015 (62-63). La curatrice del volume prima citato, nel capitolo introduttivo, precisa infatti che adottare una simile prospettiva, che parta dall’interno dei contesti di origine, sia funzionale al riconoscimento che la migrazione non sia semplicemente ciò che i suoi effetti producono, nell’altrove e nelle sue problematizzazioni del contatto tra diverse alterità, ma come una dimensione che «si colloca nella storia e nel quotidiano delle società africane contemporanee insegnando a considerare la migrazione come una strategia del vivere (prima ancora che del sopravvivere) sedimentata nel tempo e contraddistinta da una propria economia morale» (2011: 12-13).
I cambiamenti che intervengono nella vita di coloro che sono rimasti diventano così un interessante spunto di indagine, volta a individuare gli aspetti cardine di una configurazione sociale dell’esperienza migratoria: i migranti non restano, dunque, che gli attori principali della partenza, affiancati però da chi resta e diventa coprotagonista di una vicenda che è in grado di mutare la percezione dell’altrove, della collettività di appartenenza, addirittura del paesaggio. Tenere debitamente conto di quanto premesso ci consente di guardare a determinati fenomeni riscontrabili nelle comunità che hanno conosciuto una storia dell’emigrazione e di maturare un approccio analitico nei confronti di forme discorsive mantenute nel tempo, anche quando sembra che la vicenda migratoria sia ormai cronologicamente troppo distante perché trovi dei riscontri nel presente. Esemplare, in tal senso, è la ricerca condotta da Maria Minicuci (1994) sulla comunità calabrese di Zaccanopoli, emigrata in Argentina nei primi decenni del XX secolo, dove i rapporti familiari e amicali hanno messo in atto dei dispositivi di accesso alle risorse occupazionali, al reperimento di una soluzione abitativa e all’invio delle rimesse nel paese di origine, determinando mutamenti e riconfigurazioni semantiche dell’area interessata: lo studio verte infatti sul luogo di origine e non su quello di arrivo, condizione necessaria alla comprensione dei network sociali in cui si struttura la vicenda migratoria nella sua genesi locale. Ed è questo anche il caso di Bolognetta, comune del Palermitano situato nell’area della Rocca Busambra in cui, tra il 2015 e il 2016, ho condotto una ricerca volta a individuare come si configuri l’identità locale in risonanza con l’esperienza dei propri emigrati.
La storia dell’emigrazione italiana verso altri continenti è documentata dalle fonti ufficiali che partono dal 1876, anno in cui il governo italiano intraprende una sistematica campagna di raccolta di dati a cui si fa riferimento per compiere delle stime quantitative e qualitative dei grandi movimenti che hanno condotto, già in una prima fase che arriva fino al 1915, ben 14 milioni di emigranti verso gli Stati Uniti, l’America latina e l’Australia. A fasi alterne e tra il primo ed il secondo conflitto mondiale, le quote dell’emigrazione subiscono delle oscillazioni, ma mantengono costante il livello di importanza del fenomeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, momento in cui il flusso non raggiunge più numeri così significativi e dunque si arresta. Sin dai primi anni dell’emigrazione storica, nel continente di approdo furono costituite le società di mutuo soccorso per garantire ai nuovi arrivati un supporto economico e morale. Il carattere di coesione maturato in seno a queste realtà associative, tenuto insieme anche dal culto del santo patrono venerato nella comunità di origine, ha fatto sì che i club italoamericani rimanessero importanti punti di riferimento per le cosiddette “comunità derivate”: attorno al culto di Sant’Antonio da Padova, patrono di Bolognetta, la comunità emigrata trovava una dimensione coesiva che non si esprimeva soltanto nella realizzazione dei festeggiamenti, ma anche attraverso momenti ludici e conviviali che coinvolgevano le intere famiglie. Col passare degli anni, quando ormai il sistema di sostegno ai famigliari e compaesani migranti non costituiva più un bisogno di prima necessità – per via, come abbiamo detto, del calo dei flussi migratori – delle società di mutuo soccorso, l’ambiente dei club non aveva affatto perso la sua titolarità di fulcro di aggregazione per i membri delle comunità ormai insediatesi negli Stati Uniti e all’interno delle quali l’esigenza di mantenere un costante ponte comunicativo con le comunità di origine in Italia nasceva in particolar modo in favore degli italoamericani di seconda generazione.
Intanto, dai luoghi di partenza, ormai in una situazione di stabilità demografica dovuta al rientro del fenomeno dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, si partiva verso i poli industriali del nord Italia e dell’Europa, ma con progetti limitati a brevi finestre temporali. Il contatto stabilitosi tra le comunità di origine e quello dei club d’oltreoceano ha, nel tempo, favorito la crescita di una dimensione di collaborazione sistematica nella creazione di manifestazioni ed iniziative che a vario titolo hanno provveduto a inscrivere nelle identità dei due differenti luoghi geografici, speculari retoriche e progetti di divulgazione culturale, dinamiche che hanno costituito l’oggetto della mia ricerca. Nella fattispecie, il comune di Bolognetta è un caso di studio interessante per via del carattere fortemente identitario che ha nel tempo edificato a partire dalla vicenda dei propri emigrati, sia per la costante comunicazione con il Club del New Jersey, che per iniziative puramente locali che, a loro volta, hanno avuto la loro risonanza anche negli USA.
Un elemento determinante, nella configurazione identitaria di Bolognetta come paese di emigrazione, è la figura di Tommaso Bordonaro, emigrato nel New Jersey nel 1947, dove, grazie alla rete di appoggio costituita da parenti ed amici ha costruito la sua personale vicenda e conformato il destino dei suoi successori. Le memorie della sua esperienza, raccolte in un diario, hanno guadagnato il Premio Pieve Santo Stefano, sede dell’archivio diaristico nazionale, e sono state successivamente pubblicate (Einaudi 1991; Navarra 2013) sotto il significativo titolo La Spartenza, espressione individuata dallo stesso autore per indicare il senso dello strappo e della separazione che la partenza per luoghi lontani procura agli emigranti.
La notorietà raggiunta dal libro e le successive rappresentazioni teatrali, messe in scena anche dagli stessi bolognettesi, hanno, contestualmente ai continui viaggi delle delegazioni delle due comunità da un punto all’altro del mondo, edificato nel tempo una forma di consapevolezza collettiva di come e quanto il fenomeno dell’emigrazione abbia mutato l’identità stessa di Bolognetta. Viene eretto su una pubblica piazza un monumento all’emigrante, apposta una targa commemorativa sulla casa natale di Bordonaro, a cui è inoltre intitolata la biblioteca comunale, e, in ordine alla reciprocità con la Bolognetta drive presente nel New Jersey, l’amministrazione comunale ha intitolato una strada alla cittadina di Garfield, sede statunitense della comunità bolognettese d’America.
Insieme al flusso intinterrotto di memorie scritte e orali che si affiancano al caso eclatante di Tommaso Bordonaro, flussi di immagini, suoni e oggetti, scorrono tra gli Stati Uniti e la Sicilia e vengono custoditi in un primo momento dalle famiglie, in una forma intima e privata, poi presi sotto la tutela delle pubbliche amministrazioni. L’allestimento graduale di una memoria corale all’interno della realtà cittadina, nei suoi spazi pubblici e privati, fatta anche di collezioni fotografiche – si rimanda ad un precedente articolo di Dialoghi Mediterranei (n.10, nov. 2014) sul fotografo bolognettese Antonino Castelbuono – archivi sonori e raccolte di oggetti emblematici dell’identità locale e dei trascorsi migratori, edifica nella coscienza collettiva una consapevolezza storica ed un intero patrimonio valorizzato dalla comunità stessa. A partire proprio da queste motivazioni, le comunità, attraverso l’autorevolezza dei propri intellettuali locali, collaborano alla costruzione dei musei dell’emigrazione e alla loro promozione sul territorio. Un aspetto che non è trascurabile è la dimensione assolutamente narrativa di simili musei, dove l’allestimento necessita di pannelli contenenti testo e immagini che raccontino la storia dell’emigrazione, accompagnati da oggetti collocati intorno che richiamino i tratti peculiari dell’economia locale e oggetti che siano sintesi simbolica del viaggio, quali valigie, passaporti, locandine di compagnie di navigazione, etc.
Fattore imprescindibile è la presenza di elementi che è consueto trovare nei musei della civiltà contadina, e ciò non fa che ribadire l’importanza che riveste il porre in primo piano l’economia, le risorse agropastorali, le strategie di sussistenza delle famiglie e le difficoltà quotidiane che hanno costituito fattori propulsivi alla partenza. Le diverse economie locali e i diversi modi di produzione forniscono, dunque, alle singole realtà museali dell’emigrazione degli elementi distintivi deputati a conferire una cifra singolare alle storie raccontate. Anche a Santa Ninfa, in provincia di Trapani, numerose sono le vicende narrate nei memoriali e sugli altri, spicca la vicenda dell’emigrato Saverio Giacalone, che fu tra i fondatori del Galileo Temple, la sede della società di mutuo soccorso dei santaninfesi a Brooklyn, le cui foto e pagine sono esposte nei locali del museo.
Quando ho cominciato a svolgere la mia ricerca nel paese di Bolognetta, sapevo di dover cercare dei documenti e di dover intrattenere dei colloqui con gli abitanti e, grazie alla loro mediazione, con i loro parenti emigrati, che avrei avuto modo di incontrare proprio grazie ai loro lunghi periodi di vacanza trascorsi in Sicilia. Fermandomi, però, per le strade, anche per fare dei piccoli acquisti personali al termine di un’intervista, ho constatato come sia impossibile non imbattersi nella stessa dimensione discorsiva che cercavo all’interno delle cucine e dei salotti in cui venivo ospitata per condurre le mie interviste. L’emigrazione dei bolognettesi non è un semplice affare documentario o da museo: è forma discorsiva viva che si incontra nel quotidiano. Nell’attendere il mio turno presso un ambulante che vendeva del pesce fresco, un palermitano che compie il suo giro quotidiano con la motoape da un comune all’altro della Busambra, ascoltare i dialoghi dei clienti mi ha messo davanti una piccola parte di questa realtà: C’a fazzu a manciari i trigghi prima ca mi nni vaju? – ovvero: “Riuscirò ad assaggiare delle triglie prima che me ne vada?” – è la domanda che pone, in un dialetto siciliano dalla forte intonazione americana, un uomo sulla sessantina. Poco distante, nel bar dove consumo un caffè rapido, altri clienti di mezza età stanno decidendo quali dolci acquistare, davanti al bancone in cui spiccano coloratissime cassate siciliane, torte e crostate di vario genere: No, questo no. Portiamo qualcosa di tipico.
In una dimensione così evocativa e imbricata nella quotidianità, non si può affatto parlare della vicenda migratoria di una singola comunità come di un fatto storicizzato e magari anche dimenticato dalle generazioni più giovani. Le maglie delle reti sociali che sembrava dovessero allargarsi dai luoghi di partenza a quelli di approdo, sono invece strette in inedite riconfigurazioni semantiche, agiscono in contesti che hanno mutato il loro volto proprio in relazione ai fatti che hanno coinvolto le intere comunità e sono ancora oggi specchio di identità dislocate e ri-collocate in cui il presente si riconosce e parla di sé in relazione al proprio intimo, alla collettività, alla ricerca antropologica.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
Riferimenti bibliografici
Bellagamba A., (a cura di,) Migrazioni. Dal lato dell’Africa, Edizioni Altravista, Lungavilla (PV), 2011.
Idos (in partenariato con Confronti), Dossier statistico immigrazione 2015, Edizioni Idos, Roma, 2015.
Minicuci M., Qui e altrove. Famiglie di Calabria e di Argentina, Franco Angeli, Milano, 1994.
Richichi V., Dalla Rocca Busambra al New Jersey. Memoria dell’emigrazione in una comunità siciliana, tesi di laurea magistrale discussa al Dpt. di Scienze della Formazione “Riccardo Massa”, Università degli studi di Milano-Bicocca, a.a. 2015-16.
Richichi V., Immagini dell’emigrazione. Antonino Castelbuono tra Bolognetta e gli USA, in: Dialoghi Mediterranei n. 10, novembre 2014, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/immagini-dellemigrazione-antonino-castelbuono-tra-bolognetta-e-gli-usa/
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Valentina Richichi, laureata in Beni demoetnoantropologici presso l’Università di Palermo e specializzata in Antropologia culturale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, si interessa di educazione nelle classi multietniche, di processi migratori e retoriche geopolitiche. Ha svolto ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti e si occupa di progetti di cooperazione internazionale. È attualmente impegnata in uno studio sulla fotografia in età coloniale e sull’emigrazione siciliana negli Stati Uniti.
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