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Suggestioni giovanili nella Sicilia degli anni Sessanta e Settanta

COPERTINAdi Rosario Atria

In Pittata d’argento (Ancona, Italic Pequod, 2014), opera d’esordio di Aldo Pera, rivive la Sicilia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, una Sicilia marinara e contadina, legata a usanze e segreti che si tramandano di generazione in generazione e retta su valori antichi: l’amicizia, la lealtà, l’ospitalità, la solidarietà tra classi sociali che si fa solidità del corpo sociale.

L’autore, classe 1948, concepisce un romanzo corale, ambientando la vicenda nella piccola borgata marinara di Selinunte, dove ha trascorso la propria giovinezza e dove tutt’oggi risiede. La narrazione si sostanzia della rievocazione, sempre condotta con leggiadria, di momenti di vita, ora lieti ora drammatici, attraverso poche, precise istantanee: così, ad esempio, la notte in cui la terra tremò, lasciando scaturire dalle sue viscere un’energia di cui nessuno aveva fino a quel momento fatto esperienza, distruggendo in un solo interminabile minuto sogni e cose, è ovviamente la notte del terremoto che colpì la Valle del Belice, tra il 14 e il 15 gennaio 1968.

Se gli eventi storici, filtrati attraverso la memoria collettiva, funzionano come bussola interna al racconto, permettendo l’orientamento nel tempo della narrazione, l’ordito romanzesco trova il proprio asse portante nella storia intensa e commovente di due ragazzi, colta nel trapasso dall’adolescenza all’età adulta, momento che si aggancia alla rivoluzione giovanile e alla graduale affermazione di nuovi modelli socio-antropologici e culturali.

Sulle note dei Beatles e di altri gruppi che hanno fatto la storia della musica di quegli anni, la vicenda di formazione di Cola (un umile pescatore) e di Giovanni (l’io narrante, figlio della buona e solida borghesia locale), incrocia quella di tanti altri caratteri, in un’alternanza di pagine intrise di dolore e di sequenze che sono un inno alla libertà degli anni verdi della gioventù (tra queste, da segnalare le scorribande sulla mitica Vespa, uno dei simboli del miracolo economico italiano). È un’amicizia autentica quella che lega i due giovani, un vincolo forte, indissolubile, segnato dalla condivisione di emozioni e sofferenze (di passioni, in senso etimologico), un’unione capace di vincere la differenza di classe e colmare ogni distanza, sociale e fisica. Quando Giovanni, che discende da due generazioni di medici, andrà a studiare fuori, avviandosi a divenire medico a sua volta, mentre Cola resterà ancorato – per usare una metafora marinara – al borgo natio, il loro legame, se possibile, si rafforzerà. Siciliano di mare aperto l’uno, di scoglio l’altro: così li avrebbe definiti Vittorio Nisticò. Dallo scoglio, a un certo punto, Cola proverà ad allontanarsi; un tentativo vano, destinato ad infrangersi tra i flutti, giacché il senso dell’esistenza di alcuni siciliani si definisce nell’appartenenza a quell’entità talattica, per dirla con Manlio Sgalambro, su cui incombe incessante il pericolo del naufragio. C’è l’eco della Teoria della Sicilia enunciata dal filosofo di Lentini dietro la parabola di Cola, la cui vita «si sorregge sui flutti, sull’instabile» e finisce per «inabissarsi». Sulla scorta di queste suggestioni, nelle pagine finali del romanzo si staglia, potentissima, l’immagine del mare che si fa tomba, abisso.

Altre dimensioni testuali si raccordano alla vicenda di formazione che vede protagonisti Giovanni e Cola. Pittata d’argento è, in questo senso, un sapiente incastro di storie, offerte al lettore con partecipazione emotiva e con diffuso ricorso alla chiave dell’ironia: storia d’amore è quella che fiorisce tra Sara (la madre di Cola, troppo presto rimasta vedova) e Robert (giunto su un veliero battente bandiera straniera, sottratto a naufragio certo dal coraggio di Cola); storia viscerale, d’amore e di tradimenti, dal valore evidentemente allegorico, quella che lega Cola alla luna, dal giovane apostrofata come la propria fidanzata; storia di promesse e di sogni appena accarezzati, dal terribile epilogo, quella che unisce Cola e Giselle, la ragazza radiosa e bellissima, che illumina di una luce nuova, solare, in contrapposizione al chiarore argenteo della luna, la vita del pescatore selinuntino, e lo spinge a sognare.

 Selinunte Marinella, cartolina anni 60

Selinunte Marinella, cartolina anni 60

C’è poi un’altra storia, che tutte le precedenti tiene insieme: la storia di una piccola comunità solidale, quella del borgo di Selinunte, ove gran parte della vicenda è ambientata, con le sue tradizioni, i suoi ritmi lenti e cadenzati, i suoi profumi, i suoi aromi, un microcosmo del quale Aldo Pera riesce a cogliere l’anima più intima e riposta e su cui aleggia, neanche a dirlo, l’ombra della mafia. Un’ombra appunto: avvicinato da personaggi di malaffare, Cola rifiuterà ogni compromissione, assurgendo ad emblema dei tanti siciliani che combattono un cancro difficile da estirpare con la serietà e l’onestà del proprio impegno quotidiano. Una scelta che gli costerà la vita e che permette di registrare una circolarità di temi e motivi in Pittata d’argento, formula che è al contempo titolo ed explicit: l’opera si apre nel dolore della prematura dipartita di Peppe, il padre di Cola, avvenuta in mare, e si chiude verghianamente con la morte di Cola stesso, ancora nelle acque del litorale selinuntino.

Se Pittata d’argento è un romanzo, o un racconto romanzato – per riprendere la formula riportata in seconda di copertina, che esemplifica la mistione di realtà e finzione, memoria e invenzione, che caratterizza queste pagine –, un accento lirico si insinua in molti quadri, sottolineandone la gravità, la solennità e, per certi versi, la sacralità. Accade così anche in conclusione della vicenda, e addirittura le parole si dispongono in versi.

Quali i modelli di Aldo Pera? Quando uno scrittore siciliano fa capolino sulla scena letteraria nazionale, è inevitabile provare ad identificare i legami con la tradizione. E la tradizione  italiana di Sicilia è costellata di illustri precedenti: da Verga a Pirandello, da Tomasi a Sciascia, da Consolo a Bufalino. Ma nel romanzo inevitabilmente operano suggestioni e contaminazioni di diverso stampo, che hanno a che fare con l’esperienza di lettore dell’autore stesso, un’esperienza che evidentemente va oltre i modelli geograficamente più vicini (e molto guarda, ad esempio, alla narrativa americana otto-novecentesca, in particolare ad Hemingway, come Pera ha avuto modo di rimarcare nel corso di alcune presentazioni).

Roberto Carnero, recensendo il romanzo sulle colonne del Domenicale de “Il Sole 24Ore”, ha definito Pittata d’argento «opera di interessante sperimentalismo», evidenziando come l’autore si muova «tra la lingua nazionale e, soprattutto nei dialoghi, un dialetto siciliano non strettissimo, a volte più fraseologico che lessicale». Aldo Pera attinge, quando serve, al vernacolo, di cui fa rivivere le coloriture e le sfumature semantiche. Sovente i due registri si incontrano e si mescolano, come accade nella quotidianità di molti ambienti isolani, dove, un po’ alla volta e spontaneamente, la conversazione slitta nel dialetto. Il dialetto è la lingua del sentimento, diceva Pirandello, l’italiano quella della ragione: e così il dialetto è la lingua di Zu’ Simuni, che qualche tratto condivide con Padron ’Ntoni dei Malavoglia, ad esempio nella tenace volontà di tenere unita la famiglia, devastata dalla perdita di Peppe. L’unione delle cinque dita della mano, la preservazione degli affetti rimanenti, non riuscirà all’anziano pescatore.

 Marinella scalo di Bruca,  figli di pescatori, anni 70 (ph. B. Caime)

Marinella scalo di Bruca, figli di pescatori, anni 70 (ph. B. Caime)

Nell’epilogo, sarà la luna, «vestita di niente e pittata d’argento», a posare il suo sguardo su Cola, che quello sguardo non potrà più ricambiare. Il viandante per mare trova in mare la sua fine. «Come un viandante passi dall’altra parte del mare con la tua pallida lanterna oscillante»: sono versi di Tagore, versi d’amore. La poesia si intitola Notte di luna: un’eco geograficamente lontana, ma forte, fortissima nel romanzo di Aldo Pera. La luna, presenza costante all’interno della narrazione, nell’explicit e così per tutto il romanzo, è spettatrice silente, custode degli umani segreti. Gli antichi la consideravano una divinità e a lei guardavano consapevoli della sua intangibilità. Le parlavano, sapendo che non avrebbero avuto risposta. Nel Canto notturno di Leopardi, per richiamare uno dei testi più noti e filosoficamente più densi della nostra civiltà letteraria, essa è muta, oltre che solinga, eterna peregrina; e ancora vergine, intatta (non toccata dall’uomo). Cola, che degli antichi conserva l’istinto e la semplicità genuina («Bello come un dio greco. Fiero come un antico guerriero. Povero come un pescatore»), nelle notti in cui va per mare a guadagnarsi da vivere sul “Chiaraluna”, la barca che era stata del padre, fatta dipingere al migliore tra i pittori di carretti del paese, sussurra all’astro dolci parole, ignaro del monito attribuito a Shakespeare, posto in esergo all’opera: «Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto». Sono parole d’amore, quelle dell’umile pescatore, che a don Cosimo, il parroco del borgo, confida: «Alla luna non importa se sono povero».

La notte del primo allunaggio, Cola il pescatore avverte un brivido lungo la schiena: vive fisicamente tutta la violenza che discende dal fatto che l’uomo moderno abbia raggiunto la luna e, posandovi il proprio piede, l’abbia violata: «In quel preciso momento in cui quell’astronauta con la sua tuta e il casco spaziale scese in lei, giurò di aver sentito un urlo straziante che gli raggelò il sangue. Si sentì impotente ed inutile alle sue invocazioni d’aiuto. Nulla poteva fare per fermare quella violenza. Nulla se non piangere con lei».

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

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Rosaro Atria, laureato in Letteratura presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ha poi conseguito un dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo. Si è occupato di studi  sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storica dell’Ottocento, sulla lirica leopardiana (con particolare riferimento al nucleo dei pisano-recanatesi), su Sciascia e altri scrittori siciliani. Collabora con diverse riviste.

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