di Antonino Pellitteri
Non mi piace “tre in uno” [1] mi ricorda molto l’uno e trino santissimo mistero centrale della fede e della vita cristiana. Visto che qui si parla di dialogo, e aggiungo di comprensione (al-tafahum) tra diversi, preferisco far riferimento alla pluralità, ossia agli effetti che derivano dalla condizione di essere plurale, partendo dallo specifico della presenza molteplice e del ruolo delle comunità cristiane in terra d’Islam. Dalle campane d’Oriente, tanto per intenderci.
Mi pare opportuno cominciare con il citare il versetto 46 della sura del Ragno, la XXIX sura coranica, meccana (da Il Corano, traduzione di Alessandro Bausani). Iddio parla e l’uomo ascolta; il perimetro spaziale di tale rapporto uditivo non è un luogo determinato, ma è tutta la terra, che è di Iddio, uno e unico e a cui nulla va associato (la sharìk lahu):
«E non disputate con la Gente del Libro altro che nel modo migliore, eccetto quelli di loro che sono iniqui, e dite: «Noi crediamo in quel che è stato rivelato a noi e in quel che è stato rivelato a voi e il nostro e il vostro dio non sono che un Dio unico, e a Lui noi tutti ci diamo”».
La Gente del Libro è in arabo “ahl al-Kitàb”, e con essi bisogna dialogare nel modo migliore, che in arabo è reso “allati hiya ahsanu”. Ahsan è un superlativo relativo ed esprime l’idea di bontà, ma anche di bellezza, e soprattutto di azione giusta. Relativo dicevo, poiché Iddio sottolinea: eccetto quelli di loro che sono iniqui. In arabo: “illa alladhina zalamu minhum”. Dalla forma verbale <zalama>, agire ingiustamente, deriva zulm (ingiustizia, iniquità). In un hadìh (detto riferito al profeta) trasmesso da Abu Dharr al-Ghifari, tra i più vicini compagni di Muhammad, si recita:
«O miei servi! Ho proibito (harramtu) a me stesso l’oppressione (al-zulma) e la proibisco tra di voi. Quindi, non vi opprimete l’un l’altro…O miei servi! È delle vostre azioni che io terrò conto e vi ricompenserò. Così, chi troverà il bene glorifichi Iddio e chi troverà tutt’altra cosa non avrà che da biasimare sé stesso».
In un altro hadith riferito da Abu Hurayrah, Muhammad disse:
«Non invidiatevi l’un l’altro; non maggiorate i prezzi; non odiatevi l’un l’altro; non voltate le spalle l’un l’altro e non siate venali, ma siate fratelli, o servi di Iddio! Il musulmano è fratello del musulmano: non lo opprime (la yazlimuhu) né lo abbandona, non l’inganna né lo disprezza. Qui sta la devozione.»
Zàlim (oppressivo, iniquo e quindi empio) è il contrario di ‘àdil, ossia giusto; e ’adl giustizia è l’opposto di prepotenza, sopruso, tirannia (nel Corano in arabo taghiyah e/o tughiyàn), opposizione più volte rilevata nei versetti coranici. Ma torniamo al versetto qui riportato.
Noi, si recita, crediamo in quel che è stato rivelato, cioè in quel che è stato fatto scendere su di noi e su di voi (unzila ilaynà wa…ilaykum). La conclusione è manifesta: il nostro dio e il vostro dio è il Dio unico e a Lui ci diamo (ilah wàhidun wa nahnu lahu muslimuna). Quel «a Lui tutti ci diamo» esprime il senso profondo e vero dell’essere musulmani. Se a ciò si aggiungono una serie di detti riferiti al profeta, si capirà meglio l’etica che sorregge, o dovrebbe sorreggere, i comportamenti conseguenti:
«Orbene, nel corpo c’é un pezzo di carne che se è sano rende tutto il corpo sano, ma se è deteriorato tutto il corpo è deteriorato; e questo è il cuore»;
«Evitate ciò che vi ho proibito e fate ciò che vi ho ordinato, come meglio potete»;
«Sappi che la vittoria viene con la pazienza, il sollievo dopo l’afflizione e con la difficoltà la soluzione»;
«Dio onnipotente ha fissato dei limiti, non li oltrepassate»;
«Non causare danno e non rispondere al danno col danno» (La darara wa la diràra).
Furono proprio i commentatori musulmani a datare il versetto in cui per la prima volta si fa riferimento al gihàd come guerra legale, legato alla hijrah emigrazione del profeta (622). Si recita nei versetti 39/40 della sura del Pellegrinaggio (XXII sura, medinese):
«è dato permesso di combattere a coloro che sono stati oggetto di oppressione» (bi-annahum zulimu).
È interessante notare che non è la radice verbale <gahada> quella qui utlizzata, ma il verbo combattere è reso con yuqâtiluna, mentre subire oppressione è resa con la forma verbale zulimu, che indica, come si è detto, un sistema iniquo, contrario alla giustizia. E spiega: «alladhina ukhrigu min diyàrihim bi-ghayri haqqin», cioè coloro che sono stati costretti ad abbandonare le proprie dimore ingiustamente.
Alla vigilia dell’avvento dell’Islam nel VII sec. la penisola araba non era abitata da gruppi selvaggi transumanti dediti all’idolatria. Ma la realtà era più complicata sul piano sociale e su quello ideologico-religioso. Se l’ebraismo, o meglio gli israeliti, poiché pare che la maggioranza degli adepti fosse araba e non ebrea, era presente nelle oasi del Hijaz e soprattutto nello Yemen, il Cristianesimo era parte attiva tra le popolazioni semi-nomadi e sedentarie della penisola degli Arabi. Assumeva le diverse forme che erano diffuse nel Vicino Oriente in quell’epoca: monofisiti e/o giacobiti erano gli Arabi ghassanidi, mentre nestoriani erano in gran parte gli Arabi lakhmidi del nord dell’Arabia. Il cristianesimo aveva nella penisola un centro antico ed importante a Najràn, sede di vescovato, oggi tra Arabia saudiana e Yemen. Najràn è ricordata nello stesso Corano a proposito della strage di cristiani voluta dal sovrano yemenita Dhu Nuwàs, convertitosi all’ebraismo, nei primi decenni del sec. VI. Tali comunità arabo-cristiane e quelle israelite interagivano tra di loro, mantenevano strette relazioni con gli Arabi nomadi e seminomadi politeisti del Hijaz sul piano dei commerci carovanieri e delle relazioni umane. Tutti trasmettevano idee e saperi che avevano interessanti influssi nella vita quotidiana delle popolazioni della penisola, nella costruzione di spazi fisici e culturali comuni, non fosse altro per l’uso della lingua unitaria, che era l’arabo, pur con le sue varianti del Nord e del Sud arabico. Tutti sentivano il peso della situazione regionale, dominata a quell’epoca dallo scontro tra impero bizantino e quello persiano dei Sasanidi. Tale scontro ebbe ricadute politiche e dottrinarie sulle comunità cristiane, ma anche israelite.
A tale proposito va ricordato che l’esistenza delle chiese cristiane nel Vicino Oriente è molto antica e che all’interno del cristianesimo orientale, soprattutto nella regione della Siria, provincia bizantina e tra i più antichi centri della cristianità, si erano create fratture importanti nel V secolo, con la nascita del movimento monofisita, il quale attribuiva al Cristo la sola natura divina, e della tendenza nestoriana, formatasi dopo il Concilio di Efeso in opposizione al monofisismo. Il nestorianesimo assunse ben presto connotazione di “chiesa nazionale” e venne combattuto dalla chiesa ortodossa di Costantinopoli. I seguaci del nestorianesimo trovarono rifugio nella Mesopotamia e protezione da parte dei sovrani persiani sasanidi di religione zoroastriana, che a loro volta proteggevano anche le comunità ebraiche della Siria perseguitate dalla chiesa ufficiale bizantina. Fu così che si venne a formare una molteplicità di chiese e comunità cristiane in ambito siro-mesopotamico e nord-arabico che acquistarono sempre più la connotazione di Cristianesimo aramaico-arabo. La qual cosa venne valorizzata all’indomani delle conquiste musulmane del VII secolo. Basti ricordare che nell’avanzata degli arabi-musulmani in Siria e nella conquista di Damasco, il condottiero arabo-musulmano Khalid Ibn al-Walid (m. 642), tra i più vicini compagni del profeta, ebbe il sostegno di gruppi delle popolazioni locali israelita e cristiana.
L’Islam non si presentava e non rivendicava necessariamente uno spazio geo-fisico; tendeva ad affermare il rispetto della dignità di ciascuno insieme al riconoscimento che la pluralità delle religioni era una realtà, conformemente a quanto si recita nel su citato versetto della sura del Ragno. La semplice e rigida divisione tra dar al-islam (mondo dell’islam) e dar al-harb (mondo della guerra), che non trova riscontri nel Corano e nel costume o sunna del profeta, elaborata qualche tempo dopo da giurisperiti musulmani (fuqahà’), durante il califfato degli Abbasidi, ebbe nella storia scarse applicazioni. I musulmani non sostenevano uno spazio fisico dai confini delimitati, ma era dar al-islam ogni luogo in cui ai musulmani era permesso di rispettare la legge islamica. La detta dicotomia si rivelò pertanto assai riduttiva; non a caso vennero trovate soluzioni interessanti sul piano pratico delle relazioni con l’Altro non musulmano.
Dar al-sulh (casa della tregua o accomodamento): era considerato il territorio non controllato dal potere musulmano, ma in cui venivano affermate relazioni amichevoli con i territori musulmani. Secondo la tradizione islamica il precedente del Dar al-sulh fu individuato nel patto che il profeta Muhammad strinse con i cristiani della già ricordata città stato di Najran. Dar al-sulh era il paese della tregua, territorio non conquistato, ma pagante un tributo per la garanzia della tregua stessa (al-hudna). Dar al-amàn fu poi il territorio della sicurezza, mentre con dar al-silm si indicava il territorio della pace. Con dar al-muwada’ah si fece riferimento al territorio i cui i rapporti erano improntati a mutuo accordo di pace.
Dar al-‘ahd era infine la terra del patto. Secondo al-Shafi’i, giurista musulmano morto in Egitto nel 820 e fondatore di una della quattro scuole giuridiche sunnite, quella shafeita, esso va inteso come territorio di statuto temporaneo e intermedio tra dar al-islam e dar al-harb. Mentre al-Mawardi, giurisperita shafeita morto a Baghdad nel 1058, scriveva che era dar al-‘ahd quell’insieme di territori, che, attraverso un accordo giuridicamente accettato, veniva lasciato in mano agli antichi proprietari dopo la conquista musulmana. In epoca più recente, negli ‘ahdnamè ottomani, il patto con il principe cristiano contemplava che il principe tributario andasse considerato «il nemico dei nemici del sultano e l’amico dei suoi amici».
Nelle relazioni con gli Altri non musulmani, ahl al-kitàb, veniva in genere presa in considerazione, come si può notare, un punto di vista improntato a pragmaticità ed aderente alle novità e ai bisogni che via via si andavano presentando. Il referente restava comunque l’idea coranica del rapporto condotto nel migliore dei modi. Riguardo a quanto considerato è utile citare una storia molto significativa, che i musulmani considerano all’origine della predicazione del profeta dell’Islam. Si racconta che un giorno Abu Talib, zio del profeta, portò con sé Muhammad, ancora molto giovane, in un viaggio carovaniero dalla Mecca in Siria, a Bosra. Qui giunti, un monaco di nome Bahira volle invitare Abu Talib e suo nipote Muhammad a cenare presso la sua povera dimora. Il cristiano Bahira cominciò a parlare dell’attesa di un nuovo profeta da parte dei cristiani della regione. Quindi chiese a Muhammad di mostrargli la schiena, e tra le scapole il monaco vide il segno che i suoi libri indicavano come “marchio del profeta”. Bahira rivolto allo zio Abu Talib disse che un destino particolare attendeva il nipote e che occorreva proteggerlo.
Più o meno veritiero che sia questo racconto, accertate storicamente sono invece le relazioni tra Arabi carovanieri e monachesimo orientale in epoca pre-islamica, esso testimonia che presso i musulmani la rivelazione divina si presenta nella forma di un ciclo continuo della profezia, di cui Gesù prima e Muhammad dopo furono le ultime manifestazioni. Il monaco Bahira è considerato simbolo di un cristianesimo d’Oriente che non solo riconosce in Muhammad l’ultimo dei profeti, ma che ne conferma la validità della missione. Ne derivò un sistema di relazioni tra musulmani e genti del Libro, fin da quando Muhammad era ancora in vita, improntato al rispetto e al riconoscimento dell’Altro, che prese il nome di dhimmah o protezione. Si trattò di istituzione giuridica, perfezionata col passare del tempo, che considerava le comunità non musulmane presenti in terra d’Islam come dhimmi o protetti, i quali, in cambio della libertà di culto e dell’autonoma gestione della comunità stessa all’interno della più vasta comunità musulmana, pagavano un tributo (jizyah) implicante il riconoscimento del potere politico dei musulmani. Lo scopo pratico era quello di costruire, in adesione alla variegata società che componeva lo Stato islamico, e utilizzando una forte dose di sano empirismo, la convivenza in un quadro di chiare regole giuridicamente affermate. Ognuno al suo posto, e insieme per il benessere della comunità degli uomini «che invita al bene, promuove la giustizia e impedisce l’ingiustizia» (Corano, sura della Famiglia di ’Imran, III/104). Niente a che vedere con il moderno concetto europeo di “tolleranza” octroyée.
Va detto che le comunità cristiane orientali, variamente articolate al loro interno, svilupparono sempre più forme e tendenze disciplinari, spirituali e teologiche che risentirono molto della componente semita e araba, all’indomani dell’arabizzazione, in contrasto con l’egemonia culturale greco-latina, che nel medio evo cristiano sviluppò forme di polemica dura, come a molti è noto, nei confronti dell’Islam e della profezia muhammadica. Le Chiese orientali guar- davano ad orizzonti propri, aderendo al sistema islam affermatosi a partire dal califfato umayyade di Damasco, e poi più compiutamente durante il lungo califfato degli Abbasidi. Non furono rari i casi in cui vescovi cristiani arabizzati divennero ministri dei califfi e figure importanti nelle Istituzioni musulmane.
Con la penetrazione coloniale da parte delle potenze europee agli inizi del sec. XIX si registra la novità e prende avvio la discontinuità con il passato, venendosi a configurare una situazione di contrasti all’interno delle comunità cristiane e tra esse e il potere musulmano, esercitato in quest’epoca dalla Sublime Porta. L’europeizzazione imposta porta con sé nel Vicino Oriente arabo-ottomano la latinizzazione sul piano dell’appello missionario rivolto ai cristiani d’Oriente, ancora mumerosi ed attivi nel Bilad al-Sham (Siria, Libano, Palestina), nella regione mesopotamica o Iraq, e nello stesso Egitto dove vive una numerosa comunità cristiano-copta. In vista della spartizione dei territori del “grande malato” ottomano, Gran Bretagna e Francia, e la Russia zarista per quel che riguardava le comunità ortodosse, cercarono di imporre nuove ricomposizioni e dipendenze all’interno delle antiche chiese orientali in un quadro in cui divisioni, scontri e protezioni, da parte delle potenze europee “cristiane” tra loro rivali, diventarono elementi del gioco coloniale più vasto, con grave danno per le comunità locali. Ciò provocò acculturazione subita nel campo delle relazioni con la chiesa di Roma, e produsse nello stesso tempo movimenti di resistenza a difesa dell’autonomia delle proprie campane d’Oriente. I resoconti di viaggio dell’abate milanese Antonio Stoppani (Da Milano a Damasco, ricordo di una carovana milanese nel 1874, Milano Cogliati ed. 1888) possono considerarsi sotto tale profilo illuminanti. Che Babilonia! Sottolineava Stoppani riferendosi alle comunità cristiane nella regione siriana. Una babilonia imposta dall’esterno, che si ritorse contro le stesse chiese orientali all’indomani della spartizione della regione dettata dagli accordi franco-britannici di Sykes-Picot (1916) e dopo la fondazione degli Stati arabi indipendenti. Basti pensare per fare un esempio alla lunga guerra civile libanese, iniziatasi nella primavera del 1975, e al disastro che essa ebbe a produrre anche all’interno del composito mosaico delle chiese e delle comunità cristiane del Libano e della Siria.
Oggi, e mi avvio a concludere questo breve intervento, si assiste nel Mondo arabo e islamico alla diffusione di movimenti takfiriyya, rozzi culturalmente ed attivamente violenti, sostenuti da alcuni Paesi dell’Occidente e da ricchi Stati arabi della regione, che utilizzano l’Islam, ma in verità di Islam conoscono molto poco, per collocare gli altri musulmani, maggioranze e minoranze, nel ghetto del dar al-kufr o mondo dell’empietà. In tale progetto, fuori dalla storia, ma purtroppo di drammatica attualità, stanno anche i cristiani d’Oriente, che dal 2011 subiscono gravi persecuzioni ed umiliazioni da parte dei gruppi jihadisti e takfiri. Una risposta, che non sia soltanto quella militare, è necessaria, non solo da parte dei musulmani in generale, cosa che per esempio l’Università teologica sunnita di al-Azhar del Cairo considera non più rinviabile sul piano della ri-elaborazione dei sistemi educativi, e che l’Iran shi’ita ha in questi anni sollecitato, ma anche da parte dei diversi Occidenti.
Il “tre in uno” non è una risposta, come qui si è tentato di dimostrare, anzi potrebbe avere effetti contrari. Il volgersi allo studio della storia potrebbe invece indicare soluzioni di dialogo e di comprensione reciproca, senza astratte e inutili fughe in avanti, che possono compiacere solo pochi. Non il “tre in uno” si chiede quindi, ma che ognuno stia al suo posto e faccia la sua parte, con la sua storia e nella storia dell’umanità, che è storia di aree comunicanti.
In un recente articolo pubblicato dal giornale arabo-libanese al-Safir (23 Settembre 2016), scritto da Sarkìs Abu Zayd si fa riferimento al problema del dialogo con riguardo particolare alle relazioni tra Islam e Cristianesimo e con la finestra aperta alle campane d’Oriente in Libano. L’autore critica le forme e le modalità con cui il dialogo si è sviluppato negli ultimi decenni e si propone un nuovo tavolo di discussione e di elaborazione di lavoro comune: quello cioè della scrittura a più mani, quindi pluralità e molteplicità, di seri saggi e di testi scolastici sull’idea di religione e sul valore della pluralità delle religioni. L’Italia ne avrebbe certamente un gran bisogno.