di Nino Giaramidaro
A “binturi”. Accadeva, doveva accadere qualsiasi cosa a venti ore cioè alle sedici circa secondo l’orologio ancora ottocentesco di mia zia Maria. Mia madre, io e mia sorella più piccola la trovavamo che girava la manovella del marchingegno portatile per abbrustolire il caffè oppure che badava alla sorte delle “lubbie”, alias fagioli, odorosi e fiammeggianti sulla brace del “fucularo” alimentato dal “muscaloro” che seppure nato per debellare le mosche accudiva al suo mestiere in seconda con maggiore successo. Nulla poteva contro il fumo se nel “coppo” del carbone era stato assestato un “fumaloro” capace di asfissiare l’intera stanza. Stanco e distratto dall’affumicato ricordo guardo la chiesa di san Michele: non c’è più il recinto di ferro che isolava il sagrato – poi diventato piazza – da quei pochi gradini che immettevano alla bussola di quel piccolo duomo. E secondo un ministro dell’Interno – non ricordo quando mise nero su bianco l’illustre ordinanza (o altro dispositivo) – si poteva entrare nelle chiese solo se erano sulla «strada per andare al lavoro, dal medico, in farmacia o al supermercato».
Insomma, qualunque precetto sostenga la Costituzione non bisogna consumare in maniera clericale le suole delle calzature. Probabilmente saranno mobilitati uomini e mezzi per far rispettare l’iniziativa sociale con aspettative economiche.
Niente ori e argenti da vedere in quella antica chiesa che da cappella delle benedettine – di clausura – è diventata il sacrario mazarese. Tombe illustri, reliquie del protettore san Vito e pure la sua argentea statua marittima, stucchi di grandi firme così come le sculture. Un bagliore che dall’alto della navata si effonde, scende sino a noi: sui radi capelli, sul volto rigato, sulle mani avvinghiate nelle rughe e nelle macchie che nella “’nciuria” vernacolare vengono dette “fiorellini di cimitero”.
Questa chiesa che custodisce nomi e passati abbandonati – anche del pittore mazarese Tommaso Sciacca – dentro il suo bianco – delle pareti, degli stucchi, delle monumentali opere e della luce – cattura ineluttabilmente come ipnosi, forse grazia, anche chi sia capitato lì dentro col disagio dei non credenti.
Ora c’è un’altra ruota. Il rumore legnoso che quel cilindro cavo produceva nel mezzo giro per andare dalle monache ai golosi in attesa dei biscotti duri e “a cavalluccio”, della forma di pandispagna odorosa di uova e colorante, dei costosi “muccunetta” con dentro la zuccata, e dei friabili biscotti all’anice. Dalla clausura degli sfuggenti volti dietro ad una piccola grata non veniva altro se non quello che era prescritto dall’economia domestica.
Non so se la ruota accogliesse anche neonati come accadeva in qualunque altro paese ma la città non ha mai disdegnato nomi che sembrano usciti dalla fantasia burocratica degli addetti all’anagrafe.
Quando l’“ingegnere” chiedeva all’esaminando quale segnale fosse una luce rossa in mezzo alla strada, la risposta era fulminea: “putia di vinu”. E sì, le taverne erano segnalate da lampade rosse come quella che al crepuscolo si accendeva al confine fra la piazza San Michele e la via Goti, sull’imboccata a sinistra. Ma non c’era bisogno: l’effluvio dei tannini mortificati ubriacava l’atmosfera e accelerava il passo anche dei posapiano più rinforzati. Ora il bettoliere era pronto ad affrontare il contrasto con i suoi avvinazzati sul livello nel bicchiere ottagonale: il vino senza traboccare doveva lambire l’orlo del vetro per giustificare il costo del quartino.
Mi pare lo chiamassero Vito “La Fame”. Naturalmente il cognome rimane nelle nebbie della dimenticanza e credo che neanche i suoi contemporanei ne avessero memoria. I soprannomi alimentavano il dialetto del dialetto e ci voleva una fine conoscenza della lingua popolare per comprendere le trappole che il vocabolario del “tocco”, gioco liquido, riservava: “ùimmu” difficile non solo a capire ma persino a pronunziare chiarissimo però nei suoi effetti: non bagnarsi nemmeno le labbra.
“Ziki Paki Ziki Pu”, forse era questo il refrain patriottico che la Bontempi a valvole soffondeva. O forse era un altro. Il panegirico sugli “Schillicchi” si imponeva alla musica a bassissimo volume. Per me sono rimasti sempre un’espressione linguistica come “li schicchirinnardu”.
Erano donne che reggevano botteghe e negozi. Tutte amiche di mia zia, e a “binturi” avrebbero cercato di capire perché si dovesse chiudere san Francesco, la bella chiesa dove le celle dei francescani erano diventate carcere con i carcerati che si alternavano dietro alla grata affacciata sul corso Vittorio Veneto.
Padre Graffagnino si muoveva agile e silenzioso lungo la navata in attesa di officiare la messa mentre il pubblico – anziani fedeli e avventori senza devozione – prendeva posto oppure errava con gli occhi spalancati tra affreschi, stucchi, marmi. Sui cornicioni alti da secoli si erano schierati francescani della prima ora; volti emaciati, a volte biechi ma tutti riscattati dalla modesta luce che li sfiorava a tutte le ore e dal silenzioso canto della miriade di angioletti, cherubini e probabilmente amorini. E poi le statue con i significati sempre morali come le venti candide virtù di san Michele precipitate su immobili nuvolette.
Una scoperta degli anni Ottanta dell’architetto e docente universitario Michele Argentino, intellettuale curioso con il dono di saper trasmettere il suo cangiante entusiasmo. Duomi e basiliche sono fra le chiese più belle d’Italia; c’è un elenco, probabilmente partigiano perché senza le due mazaresi. Barocche.
Questo stile sospinge lungo i prospetti delle scuole elementari – maschili e femminili – i due campanili di Santa Veneranda, tutto arrossato dalle ore del vespero che giungono, scoperte, dal mare. Il barocco siciliano avvolge e ci sorprende sulla piazza del Duomo, poi Municipio e poi della Repubblica dove c’è la statua di san Vito protettore con il suo cane, barocco di Ignazio Marabitti del tardo Settecento, come la facciata del seminario e il palazzo vescovile. Si vive del passato.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio, 2024
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
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