di Angelo Campanella
I colori della morte
La ritualità della morte in Sicilia non è dipinta soltanto di nero, ma presenta una varietà festosa di colori. Il due novembre, per la commemorazione dei defunti, le vetrine delle pasticcerie sfolgorano della vivacità della frutta martorana e dei pupi di zucchero: la pupa per le bambine e il cavaliere per i bambini. È una festa allegra, nella quale i morti entrano in contatto con i vivi, portando doni.
Ⓣ Quann’èramu nichi iu e li ma frati aspittàvamu li muorti ca nni purtàvanu li pupi di zùccaru. [Da piccoli, io e i miei fratelli aspettavamo i morti, che ci portavano i pupi di zucchero] (E. A.).
Non mancavano, naturalmente, i toni cupi delle vedove nerovestite, le cattive, delle dolenti (VS/I: 951) e degli specchi velati, il bottone nero da apporre come spilla sul bavero della giacca e, in tempi ancor più remoti, il fiocco nero da legare alla manica e da esporre dietro la porta, con la scritta «per mio marito, figlio, padre, ecc.».
Ⓣ Na vota nni li funerali èranu chiḍḍi di la famiglia stessu ca ittàvanu vuci e chiangìvanu dieṭṛu la carrozza. “Fratuzzu miu, fratuzzu miu, maritu…” e dicìvanu lu nomu e si pilàvanu tutti. E poi c’èranu anche li orfanelli di lu Culleggiu, chiḍḍi chi c’èranu a lu Càrminu, ca cci ìvanu appriessu pi lu funerali per accumpagnari. [Una volta per i funerali erano i membri della famiglia stessa che gridavano e piangevano dietro la carrozza. “Fratellino mio, fratellino mio, marito…” e dicevano il nome e si strappavano i capelli. E poi c’erano anche gli orfanelli del Collegio, quelli che erano al Carmelo, che seguivano il corteo funebre] (E. A.).
Nel romanzo A ciascuno il suo, Leonardo Sciascia descrive alcuni segni del lutto: «gli specchi erano velati di nero, ma più diceva del lutto il ritratto di Roscio, ingrandito a proporzioni naturali da un fotografo del capoluogo, così lugubremente ritoccato e alluttato nel vestito e nella cravatta» (Sciascia 2012: 539). Roberto Sottile, che nel suo Sciasciario dialettale dedica una voce alla parola alluttatu, precisa che «la consuetudine di velare gli specchi di nero è tutt’ora in uso, mentre si è protratta, grosso modo, fino agli anni Ottanta l’usanza di mettere sulla porta di casa un’insegna di lutto (in dialetto nzinga) consistente in un rettangolo di stoffa nera inchiodata o incollata sull’uscio. Una piccola nzinga, ma sempre abbastanza visibile, veniva altrimenti cucita sulla camicia o sulla giacca degli uomini, consuetudine, questa, poi sostituita con il bottone nero» (Sottile 2021: 44-45).
Si propone qui un piccolo corpus di proverbi e modi di dire sul tema della morte raccolti presso i comuni di Racalmuto e Caltanissetta nel 2023. Il rilevamento è avvenuto per mezzo di intervista ai parlanti con registrazione audio e successiva trascrizione degli etnotesti. Abbiamo inserito le sole iniziali di nome e cognome degli informatori: E. A., donna di 66 anni, nata e vissuta sempre a Racalmuto, dove risiede tutt’ora; M. S., donna di 65 anni, nata a Caltanissetta, la quale, dopo alcuni anni di lavoro a Bruxelles, è tornata nel villaggio Santa Barbara, dove vive. Nel caso di etnotesti un po’ più articolati del semplice motto, si è utilizzato il simbolo Ⓣ. Per la trascrizione delle interviste, si è tenuto conto del metodo in uso oggi per l’ALS (Atlante linguistico della Sicilia) del Centro di studi filologici e linguistici siciliani (Matranga 2007). I dati raccolti sono stati confrontati con quelli sui detti racalmutesi già pubblicati, con particolare riguardo per i libri di Leonardo Sciascia, il quale, oltre a inserire qua e là nelle sue opere narrative detti e modi di dire siciliani, ha anche dedicato alla paremiologia racalmutese la raccolta Kermesse (1982), poi ripubblicata in forma ampliata col titolo di Occhio di Capra (1984). Le occorrenze presenti in questi due testi paraletterari vengono indicate con la sigla L.S. Alla paremiologia racalmutese sono state dedicate successivamente due raccolte: Proverbi e modi proverbiali di Racalmuto, a firma di Sergio Borsellino (2000), e Frammenti. Raccolta di strambotti, motti e modi di dire racalmutesi, di Francesco Marchese (2020). La prima è indicata come S.B. e la seconda come F.M.
La raccolta di Sciascia è organizzata come un lemmario, in ordine alfabetico. Prevalgono le interpretazioni dello scrittore sulla registrazione dei proverbi in sé. Le altre due raccolte, invece, hanno una struttura tematica e non contengono quasi mai spiegazioni e interpretazioni, se non una semplice traduzione, per cui hanno un intento prevalentemente conservativo. Dal confronto tra queste tre fonti documentarie e i dati raccolti sul campo emerge uno scarto quantitativo, poiché l’indagine diretta tra i parlanti ha consentito di registrare ulteriori proverbi che rientrano nella sfera concettuale della morte e dei suoi riti, non presenti nelle opere a stampa.
L’esame del materiale raccolto permette di cogliere le caratteristiche e le contraddizioni della mentalità siciliana attraverso usi e modi di dire della piccola area centrale tra Racalmuto e Caltanissetta, dove Leonardo Sciascia visse per tanti anni, prima di trasferirsi a Palermo. Racalmuto, il suo paese di nascita, costituì anche il suo buen retiro per tutta la vita: presso la casetta in contrada Noce passava le estati tra incontri con amici intellettuali e stesura dei libri che sarebbero stati pubblicati in autunno (Cfr. Agnello 2020; Picone e Restivo 2021).
A li muorti muorti unn’è: l’aldilà siciliano
Come accade sempre con i proverbi, a prima vista si è indotti a ritenere che essi contengano tutto e il suo contrario. Scrive Sciascia: «Si dice “a bon’è ca si mori” [meno male che si muore] a commento conclusivo delle proprie o altrui sventure» (L.S. 2014: 1138). La morte è in questo caso una liberazione dalle complicate e spiacevoli situazioni della vita, ma d’altra parte si dice «Amara cu mori» [Guai a chi muore] (M. S.), per sottolineare che di fatto il defunto ha perso delle occasioni, che solo restando in vita avrebbe potuto cogliere e che, ormai, divengono preda degli eredi, intenti a spartirsi i suoi beni: «A la morti si spinna u picciuni» [Dopo la morte, il piccione viene spennato] (M. S.), anche se talvolta l’uomo è una risorsa da vivo per i suoi familiari e cessa di esserlo dopo la morte: «Di lu vivu ci nn’è sempri, di lu muortu nun ci nn’è nenti» [Da un vivo si ricava sempre, dal morto non si ricava nulla] (S.B.). Per chi muore, non resta che una tomba: «Quannu murimmu, tutti un pirtusu amm’aviri» [Al momento della morte, tutti avremo solo un buco, la tomba] (M. S.), per cui è vano accumulare. La morte diviene l’evento a partire dal quale l’uomo elabora un pensiero profondo, che lo conduce gradatamente alla saggezza: «Avi la sapienza cu la morti sempri pensa» [Possiede la sapienza chi medita sulla morte] (M. S.).
Leonardo Sciascia riporta l’espressione racalmutese «A li muorti muorti unn’è» [Tra i morti dov’è] (L.S. 2014: 1139), che si usa quando in una conversazione viene rievocato il nome di un defunto del quale, di fatto, non si è certi che sia stato ammesso alla beatitudine del paradiso. Interessante anche la nota linguistica di Sciascia: «La ripetizione della parola – “a li muorti muorti” – serve a dare il senso della vastità, del numero; e anche dello stato d’animo di chi in mezzo vi si trova: di smarrimento, di sgomento» (L.S. 2014: ivi). La condizione del defunto dopo la morte si identifica, dunque, con un angoscioso vagare senza direzione né meta. La replicazione, morfologicamente con valore di movimento per luogo (ess: casa casa, riva riva, campagni campagni, timpuna timpuna, ecc.), di solito si riscontra con lessemi indicanti spazialità. Invece, nella formula idiomatica consegnataci nel repertorio sciasciano e ancora in uso sembra indicare una assolutezza della condizione di defunti. Sotteso a tale espressione è il sentimento di una morale adogmatica, per cui chi la pronuncia di fatto non si pone da una prospettiva di giudizio, al punto che nel dialetto racalmutese il defunto guadagna comunque l’appellativo di bonarma, buon’anima (VS/I: 430). Sciascia aggiunge un ulteriore presupposto di tali usi linguistici: situare i morti in un aldilà. Dei tre mondi proposti dalla religiosità popolare, è il purgatorio ad avere la prevalenza:
Ⓣ Ristammu comu l’armuzzi di priatoriu, si dici quannu unu resta a mani vacanti. [Siamo rimasti come le anime del purgatorio, si dice quando si resta a mani vuote] (E. A.).
La condizione delle anime purganti diviene simbolo di una condizione esistenziale: quella di coloro che stanno in attesa di una grazia che può provenire solo dall’esterno e sulla quale essi sono impotenti. Le anime del purgatorio, nella cultura popolare racalmutese, si mettono in contatto con i vivi e chiedono di essere ricordati oppure ringraziano chi se ne ricorda e prega per loro donando in cambio i numeri al lotto. Con la consueta ironia, Sciascia scrive: «Ma si incorre di solito nell’errore di non giocarli per tutte le ruote e di non giocarli assiduamente, una settimana dopo l’altra: sicché si scopre o che i numeri erano buoni per la ruota di Bari e non per quella di Palermo o che per quella di Palermo valevano a distanza di un mese o di un anno» (L.S. 2014:m1140). Nella cultura racalmutese ci sono anche gli spiriti burloni, li signureḍḍi, le piccole signore, spiriti dediti a scherzare coi vivi facendo volare una stoviglia, spostando un lenzuolo. La regola è non averne paura e accattivarsele. «Ben diversamente agisce, verso coloro che abitano la casa in cui è morto, il fantasma di un ammazzato: implacato, non si decide a lasciarli in pace […] se non dopo scongiuri, benedizioni e messe in suffragio» (L.S. 2014: 1215-1216).
Li cattivi cercanu carni: la tragedia di chi resta
Di fronte alla morte non si è mai colti impreparati: «Lu stessu murtu mpara a chiàngiri» [il morto stesso insegna a piangere] (M. S.) è un detto particolarmente profondo, perché la morte è il simbolo di ogni situazione inattesa. Per le questioni ultime della vita, l’uomo non ha bisogno di prepararsi razionalmente. Sarà la situazione stessa a spingerlo adeguatamente all’azione: «Ncapu lu muortu si canta la sequia» [Le esequie si cantano dinnanzi al defunto] (E. A.), come dire che non è necessario essersi preparati prima.
Nella Sicilia di un tempo, almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, che col suo boom economico smosse la stagnante economia familiare in direzione di un benessere diffuso, la morte di un uomo rappresentava una tragedia familiare: moglie e figlie sprofondavano immediatamente in un abisso di povertà, percepito come una prigione. La vedova era chiamata cattiva, dal latino captiva, prigioniera (Cfr. VS/I: 633). Scrive Sciascia: «Prigioniere di sé e dell’“occhio del mondo” (gli altri, coloro che spietatamente osservano e giudicano) erano ancora negli anni della mia infanzia le vedove: nerovestite; chiuse in casa (e soltanto per altri lutti di parenti o di amici ne uscivano); le finestre mai spalancate nei primi tre anni, ma aperte a spiraglio […]. A meno che non si risposassero: fatto che riscuoteva sempre una più o meno aperta riprovazione» (L.S. 2014: 1157).
Ⓣ Certu ca ma zia quannu ristà vedova e aviva li figli nichi, comu fici? S’appi a sbrazzari. Faciva la sarta, ma tannu li fìmmini un travagliàvanu, un niscìvanu. Mancu un cafè a lu bar si putìvanu pigliari, sannò ci dicìvanu ca era na fìmmina tinta. Vidi ca la disperazioni viniva. Lu maritu ci murì cu l’incidenti, a du iorna un ci fu cchiù. [Per esempio, come ha fatto mia zia quando è rimasta vedova ed aveva le figlie piccole? Ha dovuto darsi da fare. Faceva la sarta, ma allora le donne non lavoravano, non uscivano. Non potevano nemmeno prendere un caffè al bar, altrimenti l’avrebbero additata come una poco di buono. Vedi che c’era da disperarsi. Il marito morì in un incidente, nell’arco di due giorni] (E. A.).
La vedova viveva, dunque, in una condizione molto precaria, perché l’unica fonte di reddito della famiglia era rappresentata dal marito. La situazione descritta nell’etnotesto, con la vedova che si crea un lavoro da sarta per sopperire alle esigenze delle figlie e di se stessa, è già un caso raro. In genere, la vedova era costretta a ripiegare su un secondo matrimonio, accontentandosi dell’uomo che le veniva proposto: talvolta un parente scapolo o un altro vedovo.
Ⓣ Ti ricuordi la za Rusalia? A lu maritu ci niscì lu sensu e poi murì picciuottu. Avìvanu quattru figli fìmmini. Tri si nni ieru all’èsteru e una si fici mònaca. [Ti ricordi la zia Rosalia? Il marito uscì di senno e poi morì giovane. Avevano quattro figlie. Tre emigrarono all’estero e una divenne suora] (E. A.)
La condizione della vedovanza, autentica prigione sociale, diveniva un assetto esistenziale, al punto che c’era il detto «Li cattivi cèrcanu carni e li vuccera si tròvanu ammazzati» [Le vedove cercano carne e si scopre che i macellai sono morti ammazzati] (E. A.), a indicare una condizione immutabile e fatale. La carne era bene di lusso nelle famiglie contadine, per cui già le normali famiglie andavano dal macellaio molto di rado, nelle feste comandate. Una vedova, verosimilmente, non ci andava quasi mai e se, per una concorrenza di casualità avesse trovato un giorno le risorse economiche per acquistare della carne, i macellai sarebbero stati tutti morti.
Un’interessante elaborazione letteraria in chiave ironica della vedovanza in Sicilia è presente nel romanzo A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia, nel quale sono in scena due vedove: Teresa Spanò, bella e pettegola, e Luisa Roscio, bruttina coprotagonista che Rossana Cavaliere ha di recente paragonato alla manzoniana monaca di Monza: «Luisa Roscio è in realtà una vedova nera, che, dopo aver cinicamente mandato a morte suo marito, in nome del buon nome della famiglia di origine e della sua peccaminosa liaison con il cugino Rosello, si prepara a intrappolare Laurana nella sua mortale ragnatela di menzogne e di blandizie» (Cavaliere 2020: 82). Nel romanzo, la vedova Roscio ostenta tutti i segni del lutto stretto tipici della Sicilia contadina, al punto da apparire caricaturale. E tali certamente dovevano apparire questi segni agli occhi di Sciascia, nella sua Racalmuto.
La morte e i comportamenti sociali
Se è vero che la morte giunge di solito come un evento inatteso e semmai scongiurato, per cui si dice «Morti e patruni, nun aspittari quannu veni»[1] [Morte e padrone, non aspettare quando arriva] (E. A.), con la variante «Morti e maritu un spiari quannu veni» [Morte e marito, non aspettare che arrivi] (M. S.), è anche vero che talvolta il peso della vita è difficile da trascinare e allora «Cchiù facili è a mòriri ca a campari» [Morire è più facile di vivere] (M. S.), ma anche la vita di coppia può essere pesante: «Migliu mòriri ca stari cu tia» [Meglio morire che stare con te] (M. S.), e, dopo una lite, «Mancu si ti vidu mortu a fazzu a paci» [Non faccio la pace nemmeno se ti vedo morto] (M. S.), fino alla morte che giunge liberatoria, «Morti a tia e saluti a mia» [Morte a te e salute a me] (M. S.), o che viene augurata al fine di liberarsi di qualcuno: «A mòriri tu cu tutti i santi» [Devi morire tu con tutti i santi] (M. S.). Tali auguri, però, sono gravidi di pericolo, in una società attenta alle superstizioni: «Cu desidera a morti di l’antru, chiḍḍa su’ e darrì a porta» [Chi desidera la morte altrui, ha la propria dietro la porta] (M. S.), «Murì unu: ora nantri tri n’ann’a mòriri» [È morto uno: ora devono morirne altri tre] (M. S.), «Morti e malasorti unni vai ti la porti»[2] [Morte e malasorte te le porti ovunque vai] (M. S.).
La morte è attesa anche per una compensazione cosmica, per una sorta di legge naturale che accomuna tutti gli uomini: «Murtu un papa si nni fa n antru» [Morto un papa se ne fa un altro] (M. S.), proverbio presente anche in lingua e diffuso in varie regioni; «La morti tutti attrova e lu munnu si rinnova»[3] [La morte trova tutti e il mondo si rinnova] (M. S.). «E lu cuccu ci dissi a li cuccuotti a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti. […] Per dire dell’appuntamento che tutti abbiamo con la morte. […] Al chiarchiaru, dunque, è come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo» (L.S. 2014: 1172). Letteralmente il chiarchiaru è una pietraia, ma diviene metafora di un luogo di morte probabilmente perché per la sua configurazione geomorfica era un luogo spesso eletto per far scomparire i cadaveri. Su questo uso, si sofferma anche Andrea Camilleri: «venne ammazzato e il suo corpo fatto scomparire in qualichi chiarchiaro» (Camilleri 2007: 80); «Montalbano sapiva che i chiarchiari erano cimiteri d’ossa senza nomi» (Camilleri 2009: 60). Inoltre, «A morti un talia a nuḍḍu nna facci» [La morte non guarda in faccia a nessuno] (M. S.), «Sulu a morti un c’è rimediu» [Solo alla morte non c’è rimedio] (M. S.), «Si sapi unni si nasci ma nun si sapi unni si mori» [Si sa dove si nasce ma non si sa dove si muore] (M. S.), «La morti l’a d’incuoddru e nun ti ‘nnadduni, l’ha scritta nni la chianta di li mani» [Hai la morte addosso e non te ne accorgi, ce l’hai scritta sulla pianta delle mani] (F.M. 2020: 50).
Il carattere imprevedibile della morte è sottolineato da alcuni detti: «A morti piglia u giòvani e lassa a vecchia» [La morte prende il giovane e lascia la vecchia] (M. S.). Ci sono anche consigli sul ben vivere: «C’è pinzari mentri ca sunnu vivi, no quannu murimmu» [Bisogna pensare a loro finché sono in vita, non quando moriremo] (M. S.), «Cu si ferma mori» [Chi si ferma, muore] (M. S.), «Cu disperatu campa, disperatu mori / cu di speranza campa, disperatu mori» [Chi vive disperato, muore disperato / chi vive di speranza, muore disperato] (M. S.), «Cu campa paga, cu mori è curnutu» [Chi vive paga, chi muore è cornuto] (M. S.), nel senso che i debiti vanno saldati se si è in vita, dopo la morte non più, ma si va incontro agli insulti dei creditori. In tema di debiti e crediti, c’è anche «L’omu ca è ‘ngalera è miezzu muortu, l’omu ca nun avi dinari è muortu tuttu» [L’uomo che è in galera è mezzo morto, l’uomo che non ha denaro è morto del tutto] (F.M. 2020: 51).
E c’è spazio anche per ironizzare sulla morte: «Cu nasci tunnu un pò muriri quatratu» [Chi nasce rotondo non può morire quadrato] (S. B.), «L’erba tinta un mori mai» [L’erba cattiva non muore mai] (M. S.), «Ti murì l’aciḍḍu?» [Ti è morto l’uccello?] (M. S.), «Chiù gilusu unu è, chiù curnutu mori» [Più uno è geloso, più cornuto muore] (S.B.), variante di «L’omu gilusu mori curnutu» [L’uomo geloso, muore cornuto] (E.A.), «Viegnu di lu muortu, e mi dici ch’è vivu» [Vengo dal vederlo morto, e tu mi dici che è vivo] (L.S. 2014: 1228) per apostrofare chi nega l’evidenza. Per tirare un sospiro di sollievo, per un pericolo scampato si dice: «Vitti a morti ccu l’ucchi» [Ha visto la morte con gli occhi] (M. S.) o per essersi sbarazzati di un clan, sia in senso letterale sia in senso figurato: «Murì u figliuzzu cu tutti i cumpari» [è morto il figlioccio con tutti i suoi compari] (M. S.).
Concludiamo con un indovinello sul tema: «Cu lu fa lu vinni, cu l’accatta ‘un l’usa, cu l’usa ‘un lu vidi» [Chi lo fa lo vende, chi lo compra non lo usa, chi lo usa non lo vede] (L.S. 2014: 1236). La soluzione è il tabutu, la cassa da morto (VS/V: 496).
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Presente anche in Pitrè 1969b: 105.
[2] Una variante è riportata in Pitrè: «Morti e sorti unni vai ti la porti» (Pitrè 1969°: 114).
[3] Registrato in Pitrè 1969°: 113.
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Angelo Campanella, dottorando in Scienze Umanistiche presso l’Università di Palermo, ha pubblicato libri di testo per la scuola e, di recente, le monografie Raccontare Sciascia (Navarra, 2021) e DATOS Grotte e Racalmuto (CSFLS, 2023). Il suo attuale campo di ricerca è l’analisi linguistica e retorica dei racconti inchiesta di Leonardo Sciascia. Collabora con il CSFLS per il rilevamento dei toponimi orali in Sicilia (Progetto DATOS).
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