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A casa. I rifugiati tra senso di perdita e luoghi della nostalgia

COPERTINA

Reuters/L.Foeger

  di Chiara Dallavalle

In un interessante saggio sulle possibili etichette attribuite ai migranti forzati, Peter Loizos mette in evidenza come quella di rifugiato non sia un’idea universalmente riconosciuta e dal significato condiviso. Al contrario, essa «è il risultato di decisioni politiche ed amministrative a volte arbitrarie» (Loizos 2006: 67). I migranti forzati vengono classificati o meno come rifugiati sulla base di procedure esclusivamente amministrative, spesso regolate da logiche di potere, che esulano dall’universalità di tale categoria, e al contrario spingono sulla sua costruzione sociale. Diventa quindi importante provare a riconcettualizzare la nozione di rifugiato, partendo non tanto da una prospettiva giuridica o politica, ma dalle pratiche quotidiane che i migranti condividono dal momento in cui smettono di essere semplicemente cittadini del proprio Paese e intraprendono la marcia forzata che li porterà altrove. Una di queste esperienze che li accomunano è la perdita della casa.

L’idea può sembrare banale ma in realtà il fatto di aver perso la propria casa ha un impatto sconvolgente sulla capacità delle persone di rimettere insieme i frammenti della propria identità e di riallacciare tessuti relazionali importanti. La casa è innanzitutto qualcosa di estremamente concreto e tangibile, un luogo ancorato ad elementi spaziali riconoscibili e affettivamente connotati. Le stanze in cui si è cresciuti, la strada su cui si affacciava il nostro balcone, il letto in cui dormivano i nostri figli, tutte queste immagini sono impresse indelebilmente nella memoria di chi ha abbandonato quei luoghi, ed il fatto che possano non esistere più nel presente non fa altro che relegarli con ancora maggiore intensità in un passato idealizzato. Al tempo stesso, però, la casa trascende il semplice spazio fisico, e acquisisce un carattere intangibile, immaginario, che la trasforma in una dimensione simbolica. Non è soltanto lo spazio concreto abitato da un individuo o da una famiglia, ma diventa al contrario una delle immagini fondamentali dell’umanità, un luogo attorno al quale si aggregano sentimenti fortissimi. Lì, in quel luogo al tempo stesso tangibile ed etereo, l’individuo sperimenta la connessione con forti elementi identitari, sia individuali sia collettivi, e riceve quel senso di protezione e sicurezza che gli permetterà di affrontare le incongruenze della vita.

È facile intuire che perdere il luogo fisico significhi interrompere anche la connessione con il luogo simbolico, facendo quindi esperienza di una mancanza profonda di riferimenti affettivi ed identitari. Le implicazioni psicologiche di questa lacerante condizione sono facilmente riscontrabili nell’atteggiamento dei rifugiati quando si trovano ad interfacciarsi con i nuovi contesti di accoglienza. Renos Papadopulos, figura di spicco nell’assistenza terapeutica ai migranti forzati nel Regno Unito, spiega bene come la perdita della casa comporti la privazione di un’esperienza basilare per l’essere umano, su cui si fondano importanti sentimenti di sicurezza. Papadopulos ritiene che esista

«uno strato primario di base, nella maggioranza dei casi né visto né sentito, che forma ciò che può essere definito il substrato dell’esperienza umana, sul quale si innestano tutte le altre esperienze e caratteristiche visibili e tangibili» (Papadopoulos 2002: 41).
Sawssan  Abdelwahab, who fled Idlib in Syria, walks with her children outside the refugees camp near the Turkish-Syrian border in Yayladagi

Reuters/ Z. Bensemra

  Il senso di casa fa parte di questa condizione primaria, e rappresenta tutto ciò che garantisce un senso profondo di stabilità e continuità, che permette di conciliare gli opposti e le contraddizioni, e quindi di affrontare anche le esperienze faticose e dolorose della vita. Nel momento in cui il senso di casa viene minato o perduto, come nel caso dei rifugiati, nell’individuo si crea una sensazione di vuoto inspiegabile e tuttavia estremamente profondo, di mancanza di qualcosa di cui la persona non era nemmeno consapevole di possedere. Per Papadopoulos questo tipo di perdita viene definita primaria, perché riguarda l’assenza di quell’elemento stabilizzante e fondante il senso profondo di fiducia nella vita.

Le conseguenze sulla vita delle persone sono facilmente immaginabili. Sentimenti quali angoscia, depressione, ansia e “congelamento” della capacità di svolgere anche i compiti più semplici della quotidianità, si mescolano ad un profondo senso di struggimento nostalgico per ciò che si è perduto. Tale perdita non riguarda soltanto il luogo fisico, ma è in un certo senso multidimensionale, cioè riguarda la combinazione di elementi tangibili ed intangibili che caratterizzano l’immagine di casa. In questa prospettiva la casa diviene un insieme estremamente complesso di dinamiche psicologiche, che influenzano il senso di sé e la possibilità di ricomporre le parti smembrate della propria personalità, oltre che di riconnettere l’individuo a sentimenti di appartenenza collettivi.

Queste considerazioni lasciano facilmente intuire come l’inserimento dei rifugiati nel tessuto delle società di accoglienza sia un processo estremamente complesso. Nel momento in cui i migranti vivono un sentimento di congelamento dovuto alla perdita primaria del senso di casa, solo con molta fatica saranno in grado di affrontare le gravose richieste poste dal contesto di accoglienza in termini di integrazione economica e sociale. Può essere che le energie richieste dal contesto siano ben superiori a quelle che l’individuo è in grado di mettere in campo. Da qui spesso gli esiti problematici dei vari percorsi di integrazione proposti dai servizi si accoglienza, che non sempre tengono conto delle conseguenze sul piano personale della perdita della propria casa.

L’esperienza della perdita tuttavia non è mai solo individuale, ma al contrario si fa sempre collettiva, proprio perché la casa non è mai uno spazio abitato in solitudine ma rimanda sempre ad una dimensione di relazione. Nei movimenti migratori diasporici, quando intere popolazioni sono costrette ad abbandonare forzatamente la propria patria, le immagini della casa perduta sono profondamente intrise di nostalgia, un sentimento che viene vissuto collettivamente e che stimola forti sentimenti di affiliazione ad una data comunità. Nei processi di idealizzazione messi in atto dal migrante forzato, la casa acquista la valenza di un porto sicuro in cui i legami di appartenenza primaria alla propria cultura sono privi di elementi problematici (Graham e Khosravi 1997: 125). La realtà è ovviamente ben diversa e coloro che riescono a realizzare concretamente il ritorno a casa, spesso vivono un vero e proprio shock culturale, nel fronteggiare l’immagine ideale del proprio Paese in aperto contrasto con quella reale. Tuttavia chi non ha la possibilità di sperimentare il processo del ritorno, opera un processo immaginifico di ricostruzione della propria cultura, appellandosi ad elementi di autenticità che non trovano corrispondenza nel reale (Graham e Khosravi 1997: 128). I ricordi e gli elementi costitutivi del proprio Paese vengono creativamente ricostruiti nel tentativo di fissarli nella memoria, e la patria assume una valenza quasi mitica, un’entità avulsa da tempo e spazio dove nessuna forma di cambiamento e di contaminazione ha luogo.

FOTO2  Il legame fondamentale tra migrante e immagine idealizzata della propria casa perduta va inoltre collocato all’interno della più ampia dinamica tra individuo ed ambiente, proprio in virtù del fatto che sia tale legame a creare profondi nessi identitari. La percezione di se stessi infatti viene definita proprio in base al rapporto con l’ambiente circostante, e tale rapporto non è mai solo fisico, ma anche e soprattutto emotivo e simbolico. Abitare un luogo, e nello specifico quel luogo chiamato casa, significa sviluppare un’abitudine ad esso, conoscerlo, creare delle mappe relazionali che permettono di orientarsi e di sentirsi parte di esso. L’esperienza dell’appartenenza ad un luogo non è mai individuale ma sempre comunitaria, tanto che nelle società tradizionali la scelta del luogo in cui costruire la propria casa, oltre ad essere un vero e proprio atto sacro, ha anche una valenza collettiva, ed è legata a processi di affiliazione al gruppo oltre che all’ambiente.

Abitare ha il significato di organizzare l’ambiente e creare quindi una struttura di riferimento al cui interno agire le relazioni tra individui e spazi. Questo anche attraverso la definizione dei confini con l’esterno e con la diversità dell’Altro, che inevitabilmente si incontra quando si abbandona la familiarità dei luoghi noti per inoltrarsi nell’ignoto. Perdersi fuori dai confini del gruppo, nello spazio non domestico, e quindi selvaggio, diviene così il modo attraverso cui si ridefinisce la propria identità individuale e collettiva, conoscendo se stessi e differenziandosi dalla diversità di chi sta fuori (La Cecla 2005). In questo senso perdersi ha una connotazione positiva, perché permette anche di ritrovarsi e di ristabilire la struttura di relazioni che ci lega all’ambiente circostante. Il senso di spaesamento è quindi una condizione naturale quando ci si avventura nell’ignoto, e si ha bisogno di riorientarsi con punti di riferimento differenti. Il ritorno a casa segna il rientro in uno scenario familiare, dove ci si orienta nuovamente senza difficoltà.

Tuttavia oggi l’idea di luogo è profondamente cambiata, si è relativizzata perdendo quei connotati assoluti che invece permettevano in passato di distinguere chiaramente un luogo da un altro. Al contrario, oggi i confini sono sempre più sfumati, il domestico non è più nettamente differenziato dal selvaggio, e questo fa sì che anche le nuove pratiche per orientarsi nell’ambiente siano cambiate. Ne segue che il perdersi moderno abbia mutato completamente il proprio significato, e che al tempo presente ci si senta spaesati anche laddove ci si dovrebbe invece sentire a casa. L’antica continuità tra se stessi ed il proprio spazio vitale si è rotta, ed oggi l’individuo vive invece una netta separazione tra questi due elementi. Lo spaesamento non è più funzionale al ritorno al noto, mettendo così in discussione il processo stesso di reintegrazione nel proprio ambiente. Questo non può che sottoporre a profonda revisione la percezione stessa della propria identità, compromessa da uno spaesamento costante anche nello spazio in cui le nostre radici dovrebbero invece ancorarsi più saldamente. Secondo Franco La Cecla (2005), questo processo di sradicamento dell’uomo moderno porta inevitabilmente ad una sua incapacità a fare esperienza dell’alterità, e a relazionarsi al diverso, causa e conseguenza al tempo stesso dell’impossibilità di ridefinire se stessi.

L’esperienza della perdita della casa da parte dei migranti forzati non è allora tanto diversa da quella dell’uomo moderno occidentale, che a volte sembra avere la stessa incapacità di ritrovarsi e orientarsi in un ambiente che al contrario dovrebbe essergli famigliare. Come ben dice il geografo Yi-Fu Tuan, la cui esistenza è da sempre vissuta in bilico tra Cina e Stati Uniti, «un paradosso peculiare del nostro tempo è che la spinta a “cercare le nostre radici” può risolversi, al contrario, in un ulteriore sradicamento, vanificando l’intimo legame col luogo in cui effettivamente stiamo» (Tuan 1996:186). I rifugiati sono dunque simbolicamente molto più vicini a noi, abitanti delle società di accoglienza, di quanto possiamo superficialmente immaginare. L’anelito a ritrovare una casa, in un ambiente dai contorni sempre più sfumati e meno definiti, fa parte del nostro essere umani, e rende le esperienze di chi una casa l’ha perduta davvero un poco più vicine anche alle nostre.

Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Riferimenti bibliografici
Graham, M. Khosravi, S. 1997, ‘Home is Where You make It: Repatriation and Diaspora Culture among Iranians in Sweden’, in Journal of Refugee Studies, vol.10 n.2.
La Cecla, F. 2005, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari: Laterza.
Loizos, P. 2002, ‘Un Fraintendimento dei Rifugiati?’, in Papadopoulos, R. K. (a cura di), 2002 (2006). L’Assistenza Terapeutica ai Rifugiati, Roma: Edizioni Magi.
Papadopoulos, R. K. (a cura di), 2002 (2006), L’Assistenza Terapeutica ai Rifugiati, Roma: Edizioni Magi.
Tuan Y. 1996 (2003), Il Cosmo ed il Focolare. Opinioni di un Cosmopolita, Milano: Elèuthera.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.

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