A cuccos è un modo di acconciarsi i capelli tipico delle donne di Dorgali, unico in Sardegna. Giuseppe Boeddu, nativo di Dorgali e residente a Roma dal 1995, dove lavora come cineoperatore e Dop per la Rai realizzando programmi televisivi e documentari, ha pensato bene di documentare quel che resta nel presente di questa usanza. Dopo una lunga ricerca in seno alla comunità e negli archivi, il lavoro prende il via nel 2023, realizzato con i fondi del bilancio partecipativo del Comune di Dorgali, e viene presentato per la prima volta al pubblico nel teatro comunale del paese il 25 dicembre del 2024. Il docufilm A cuccos (Produzione: Terza Comunicazione srl e Comune di Dorgali-Bilancio Partecipativo 2022; 4K Colore; Durata: 68 min.) racconta attraverso le testimonianze e filmati storici la vita trascorsa e quella attuale di alcune donne che portano l’abito tradizionale e sono pettinate a cuccos, ma anche ultime testimoni di un modo di essere femminile ormai sul viale del tramonto.
La proiezione a Dorgali – tenutasi alla presenza del regista, della Sindaca Angela Testone e del Presidente dell’I.S.R.E. (Istituto Superiore Regionale Etnografico) Stefano Lavra – è stata accolta calorosamente dai numerosi concittadini di Giuseppe Boeddu. Alla scrivente è stato affidato il compito di presentare il documentario in quell’occasione, e il testo che segue è uno sviluppo della relazione svolta.
Innanzitutto, il tema del documentario, pur non essendo io dorgalese, mi ha riportato alla memoria ricordi infantili sui periodi di villeggiatura a Cala Gonone, frazione balneare del Comune di Dorgali; più esattamente, mi ha riportato al mondo, ricco di storie, delle comari e dei compari dorgalesi dei miei genitori, che si chiamavano così, appunto, “comare e compare”, fra amici. Cala Gonone, ancora oggi – e immaginiamoci quando ero bambina, a cavallo tra i sessanta e i settanta – era la località vacanziera più etnica dell’isola, con le donne che prendevano bagni di sole, di sabbia e di mare vestite di tutto punto con l’abito tradizionale. Un mondo pre-turistico, che parlava ancora interamente in sardo, e che affascinò Henri Cartier-Bresson e diversi altri fotografi e artisti che passarono di là e che ci hanno lasciato immagini di straordinaria bellezza e di grande interesse antropologico. Per me quel mondo era anche i cuccos perfetti di zia Callina Fronteddu, la migliore amica dorgalese di mia madre: una signora alta, bella ed elegante, con l’abito tradizionale, austera e dolce a un tempo, orecchini in filigrana e spilla d’oro e gocce di acquamarina appuntata sulla blusa, la sera, quando si usciva a passeggio da Palmasera a Macallè, con sosta al bar “La siesta” per vedere i ragazzi e le ragazze ballare il twist e il rock and roll al suono della musica del jukebox o di qualche fortuita orchestrina. La visione del film “A cuccos” ha arricchito i ricordi di un’infanzia tutto sommato mitica – lontana nel tempo e nello spazio, perché da allora tutto è cambiato, persino il paesaggio di Cala Gonone –, stimolando la riflessione su tanti aspetti mostrati o anche solo accennati nel documentario.
Nelle testimonianze raccolte nel docufilm, la tipica acconciatura dei capelli si presenta come una sorta di tessera di riconoscimento di un mondo complesso, di cui sono peraltro consapevoli le anziane donne intervistate, che parlano in sardo e sono le ultime a vestire quotidianamente l’abito tradizionale e a essere pettinate a cuccos da quando erano poco più che delle bambine. Avere i cuccos «v’it una cosa naturale», sostiene una, «chie los aviat batios non l’ischiana mancu sas mannas, e nois semus andadas ifattu e su tempus. Iti gasi e bastada». Era “naturale”, nessuno sapeva da dove arrivava l’usanza di acconciarsi i capelli in quel modo: era così e basta. Il tempo conosciuto è il tempo eterno dei cuccos. E i cuccos nel tempo eterno danno una collocazione spaziale. Cuccos significa infatti durgalesa (sono di Dorgali), come afferma la signora che li ha smessi quando ha iniziato a lavorare come albergatrice; vale a dire significa una collocazione certa nel vasto mondo, coincidente con un’identità geografica ma non soltanto geografica. I cuccos si pongono infatti come un segno che veicola a un mondo di significati formativi delle bambine e delle ragazze, e in tal senso sono leggibili come un vero e proprio rito di iniziazione alla vita adulta femminile, ma ancora più precisamente a un ruolo nella vita adulta: un ruolo di donna completa, per usare un’espressione presente nelle testimonianze per ben due volte. Completa etimologicamente è compiuta, che ha tutte le sue parti, intera; intrèga, dice una delle signore intervistate: «Chin sos cuccos da femina parìat prus intrèga. E amus cominzau gasi». Cioè, abbiamo iniziato così ad accedere all’apprendimento di un complesso (universus) di conoscenze, di pratiche, di esperienze che hanno delineato una paideia, ossia una dimensione educativa di forte valenza sociale, intellettuale e morale: la valenza che ha il ruolo della cura.
Cura della persona, della casa, della bellezza, della salute, delle relazioni. Cuccos, uguale durgalesa, dunque. E Dorgali è il microcosmo entro il quale si compie l’incipit di un percorso formativo affidato soprattutto alla influenza e alla autorevolezza di maestre (nel filmato di cita, per quanto riguarda la tessitura, una certa “signora Emilia”), che sono sagge depositarie di un sapere atavico sapientemente custodito e altrettanto generosamente offerto e condiviso come tesoro prezioso di insegnamenti. L’itinerario formativo delle ragazze accomuna Dorgali a tante realtà della Sardegna [1], ed è appunto in quel contesto che si collocano i cuccos come rituale di iniziazione anche alle tecniche che andavano a integrare il ruolo di fiza ’e vamilia, sposata o non sposata. La formazione per molte giovani includeva infatti la tessitura, il ricamo, l’intreccio, la panificazione, la messa in opera di tutta una serie di rituali tradizionali, anche legati ai culti religiosi, che richiedevano abilità, cura e puntualità. Le donne erano lì, c’erano sempre, erano le fondamenta della tenuta sociale.
I cuccos incutono rispetto perché a tutto questo alludono: a un mondo dove la donna è fondamentale cardine di sicurezza per la comunità. Nel bellissimo spezzone del filmato di repertorio – proveniente dall’archivio della Cineteca Sarda / Società Umanitaria –, integrato nel docufilm di Boeddu, le giovani donne che sfilano nella processione, con i loro pannuzzos che fluttuano in perfetto equilibrio sul capo, quasi sospesi, sembrano davvero delle regine. Molto bella è anche la sequenza che mostra la realizzazione dei cuccos, peraltro con una ginnastica posturale mattutina, che coinvolge muscoli e articolazioni, mobilitando braccia, spalle, schiena, polsi, dita delle mani per almeno mezzora, quando si tratta di fare anche le trecce e racchiuderle in sa perrichedda, o alla pratica quotidiana di sistemare sos ruffos, i ciuffi della parte anteriore del viso che vengono tirati, fissati all’altezza delle tempie e fatti ricongiungere nella stessa perrichedda. Nella stessa sequenza, il sibilo dei nastri che si tirano e si intrecciano nei capelli rende la visione del rituale dei cuccos ancora più suggestiva (la tecnica del suono è Beatrice Mele).
«Dopo avermi fatto i cuccos da ragazzina, mama no mi lassavat andare pius a locu: severa a più non posso», racconta una delle signore intervistate. Cuccos come autorevolezza, quindi, anche come imposizione autoritaria. Come vivevano, di fatto, le giovani donne, quella pratica tradizionale di acconciare i capelli? Su questo aspetto le testimonianze sono diverse e il discorso è articolato. «Sos cuccos cambiaiant sa vida a una minore», racconta una testimone, e ad alcune bambine il cambiamento piaceva, altre ne erano spaventate. In generale tutte apprezzavano i cuccos, e c’era un certo conformismo, tant’è che la signora Maura, a cui il padre proibì i cuccos mentre invece desiderava moltissimo averli, racconta di essersi sentita «menomata» rispetto alle sue compagne che li portavano o che erano in sicura attesa che le venissero fatti. Un’altra testimone racconta, al contrario, che sua madre pianse per un mese, dopo che le ebbero fatto i cuccos, perché essi erano il marchio che non avrebbe potuto continuare a studiare. E infatti «lasciò la scuola dopo la sesta e per tutta la vita ci raccontò di quel dolore», dice la figlia nel film: «Mamma era una studiosa nel DNA». E anche qui c’è di che riflettere, e mi viene in mente un aneddoto dell’artista oranese Costantino Nivola, che raccontava di come le donne di Orani fossero belle ed eleganti sino al giorno in cui in paese arrivò «Tony il parrucchiere» e tutte vollero «masochisticamente» seguire la moda “civile” tagliando trizas e cucuros (trecce e chignon). Da allora, per non rovinarsi la messa in piega, nessuna ha più voluto mettere sul capo su titìle (il cercine) per portare le brocche dell’acqua e le corbulas del pane, e le ragazze hanno iniziato a curvare le spalle e sono diventate sgraziate; era la pratica di portare pesi sul capo, infatti – raccontava l’artista alle compaesane divertite –, che le aveva abituate a mantenere la schiena dritta. E aggiungeva che in America, a New York, per diventare belle ed eleganti le donne camminavano con i libri in testa!
Vedendo il film “A cuccos” mi è venuto da credere che forse sull’eleganza del portamento Nivola avesse ragione: anche da sedute, le signore intervistate nel film, nonostante l’età, conservano una postura corretta. Ed è vero che da un certo punto in poi, le donne, brocche piene d’acqua in testa hanno iniziato a portarne molte meno; quasi niente a cavallo tra i ’60 e ’70, in pieno boom economico e anche nel pieno degli anni in cui si conclamò il fenomeno che Michelangelo Pira – riferendosi alle mutazioni sopravvenute dall’ultimo dopoguerra in poi – definì “catastrofe antropologica”. Il salto, infatti, è stato notevole, e si è prodotto un mutamento mai visto prima in tempi storici nell’isola. Ne accenna nel film l’intervistata che ricorda in particolare l’avvento del turismo negli anni ’60. Insomma, dopo che arrivò l’acqua nelle case, niente più trasporto di brocas e corbulas sul capo, ma libri in testa se ne misero parecchi pure le giovani donne sarde – in senso soltanto metaforico, stavolta – dato che è all’epoca che si può far risalire l’ingresso massiccio delle donne agli studi superiori.
Ciò detto, niente o quasi niente che non abbia una funzione si sviluppa nel remoto villaggio sardo. Perciò, anche per quanto riguarda i cuccos penso sia improprio ricondurli a una mera questione estetica, o comunque bisognerebbe specificare, dato già Senofonte, nel V° secolo a.C., nei Memorabilia, distingueva almeno tre categorie estetiche: così, più che una bellezza ideale o spirituale (la donna angelica degli stilnovisti), per quanto riguarda i cuccos emerge anche dalle testimonianze del filmato una bellezza utile, o funzionale. Si può forse affermare, infatti, che essi servivano per avere sempre il capo pronto ad accogliere un peso, tant’è vero che soltanto le popolane, o sas rusticas, le donne della vita rustica – per dirlo con il titolo di una nota opera di Max Leopold Wagner – erano pettinate a cuccos. Le aristocratiche, le donne de su sinnorìu no, per il semplice motivo che a esse i cuccos non servivano, dato che non dovevano portare dei pesi. Le figlie dei signori non facevano lavori pesanti e dunque i cuccos non rientrano nella loro formazione educativa. In questo senso l’acconciatura è dirimente.
Abbiamo diverse testimonianze di come spettassero alle donne dei lavori anche molto pesanti. Nelle fotografie della straordinaria fotografa tedesca Marianne Sin-Pfältzer, che documentò la vita nei paesi sardi nella seconda metà degli anni Cinquanta [2], vediamo donne adulte ma anche minori che operano da muratrici e manovali, che trasportano mattoni, derrate dalle campagne, che sono alle prese con l’abitacolo domestico, intente a cucinare, a trasportare ceste, brocche o fascine dei legna, e anche, drammaticamente la piccola bara di un neonato, posta sul capo, in equilibrio, nel triste tragitto verso il camposanto. Esplicita in questo senso è anche l’opera di Maria Lai intitolata “Maria Pietra”, una scultura in terracotta smaltata in cui la leggerezza della testa della giovinetta contrasta con il grosso pesante masso che reca sul capo. La stessa artista commentava la sua scultura sostenendo che le donne, anche quando non recavano un peso fisico sul capo, non smettevano mai di averlo, avvertendone sempre la gravità.
Leggibile in chiave simbolica, a mio avviso, è la realizzazione simmetrica dei cuccos sul capo. Umberto Eco fa risalire al Rinascimento l’importanza della simmetria nell’acconciatura femminile. La simmetria rappresenta proporzione tra le parti ed equilibrio tra gli opposti: bene e male, luce e buio, forma e caos [3]. La simmetria è la risposta alla ricerca di questo equilibrio. Forse i cuccos hanno anche questo significato simbolico, che rafforzano il suo essere un bene immateriale nell’immenso patrimonio culturale della Sardegna. E la stessa postura dettata dal portare sos cuccos, resa esplicita dal pannuzzu disposto ben dritto sul capo, è la più esplicita esibizione della ricerca di questo equilibrio. L’equilibrio è un valore enorme nel mondo contadino e pastorale, lo è nel mondo etnografico, o nel mondo magico, il mondo delle credenze popolari che attribuivano gli avvenimenti inconsueti a forze inspiegabili, diaboliche o divine, il mondo pre-medicina, dove si è sempre in bilico, un mondo che patisce quel fenomeno che Ernesto De Martino definì “crisi della presenza”; uno stato di spaesamento conseguente agli eventi imprevisti, spesso dolorosi, come la morte, il conflitto, l’emigrazione e altri traumi causati da una perdita che può essere non solo oggettiva e reale, ma intorno alla quale ruotano anche aspetti profondi e simbolici della propria esistenza: geografici, storici, culturali, personali. La perdita della presenza – lo spaesamento – è un rischio radicale a cui è esposto l’essere al mondo di quella determinata umanità nella storia. Da ciò deduciamo quanto l’equilibrio fosse desiderato, ambito, cercato, sperato, e quanto si ponesse come obiettivo nelle diverse pratiche tradizionali, a partire proprio dalla costruzione delle simmetrie. Insomma, dietro un’apparente semplice acconciatura che resiste ai secoli possono esserci tante cose, e se ha resistito ai secoli tanto semplice non dev’essere stata, tanto semplice non è: bellezza, eleganza, rispetto, utilità, sofferenza anche, genealogia, equilibrio, certezza in un mondo dove le certezze erano sempre in bilico per le difficoltà del vivere. Un mondo, insomma, anzi: un’acconciatura mondo.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Cfr.: Bastiana Madau, Maestre dell’università sconosciuta, Isolapalma, Cagliari 2024.
[2]. Marianne Sin-Pfältzer, Sardegna, paesaggi umani, Ilisso, Nuoro 2012.
[3]. Umberto Eco, Storia della bellezza, Bompiani, Milano 2018.
______________________________________________________________
Bastiana Madau, laureata in Filosofia all’università La Sapienza di Roma, ha diretto la biblioteca di Orani e Orgosolo, facendole diventare dei centri di eccellenza culturale in Sardegna. La specializzazione in biblioteconomia e in bibliografia e la pluriennale esperienza l’hanno portata a tenere numerosi laboratori e seminari di educazione alla lettura rivolti a insegnanti, genitori e operatori culturali e a insegnare nei corsi di formazione per bibliotecari. Dal 2001 lavora come editor per la Ilisso Edizioni occupandosi di diverse collane e curando la serie di narrativa internazionale “Contemporanei/Scrittori del mondo”. Ha all’attivo il romanzo, Nascar (Poliedro, 2003), che ha avuto interessanti riscontri critici, e i saggi Simone le Castor. La costruzione di una morale (CUEC, Cagliari 2016, premio “Osilo” per la saggistica) e Maestre dell’università sconosciuta (Soter, Villanova Monteleone 2023; 2a ed. Isolapalma 2024; Premio Letterario Nazionale “Grazia Deledda” 2024, segnalazione speciale per la saggistica). Suoi articoli e recensioni sono stati pubblicati in diverse riviste e quotidiani. È coautrice di Orgosolo: omaggio a Franco Pinna (Frigidaire-Primo Carnera, 1997) e autrice di diversi apparati critici, tra cui la postfazione al volume della fotografa Sebastiana Papa Orgosolo (Fahrenheit 451, 2000) e le introduzioni ai volumi Il filo della pietra di Bachisio Zizi (Ilisso, 2012) e Intervista a Maria di Clara Gallini (Ilisso, 2003).
______________________________________________________________
