di Flavia Schiavo
Densità urbane
È stato previsto che, all’incirca nei prossimi vent’anni, la densità di popolazione sul pianeta aumenterà in modo esponenziale; in termini generali ci avviamo, lo sappiamo da tempo, verso una macro e multietnica società tendenzialmente globale che graviterà ancor più sugli spazi urbani, abitati non solo dai residenti, ma da commuters, da pendolari.
Un fenomeno in corso, qui solo accennato, che implica numerose questioni, dalla densificazione, al consumo di suolo, alla necessità di affrontare i cambiamenti climatici e la moltiplicazione incrementale dell’impatto urbano sul pianeta. In tal senso uno dei nodi chiave è relativo all’interrelazione mutevole e sempre più problematica tra città e ambiente.
Proprio la città, il più imponente manufatto antropico e la massima opera collettiva nella fase dell’Antropocene, vive “con” e dell’ambiente e intrattiene con esso un rapporto che, a partire dalla rivoluzione industriale, ha manifestato effetti dichiaratamente prevaricanti e distruttivi. In alcune città mondiali dal forte potere attrattivo, come Londra o New York, la crescita richiede il sostanziale incremento di nuove abitazioni, di nuove infrastrutture, di luoghi che accolgano “cultura”, di innovativi Distretti finanziari, ma richiede, parallelamente, un continuo ripensamento, tra presente, passato e futuro, delle idee, della consistenza fisica, delle politiche, degli spazi e della materia stessa che compone la città, in modo proporzionale alla crescita accelerata che le metropoli manifestano e in relazione ai paradigmi che si sono specificati e affermati nel corso degli ultimi cinquanta anni.
Il “governo” del fenomeno macro-urbano dunque, per la sua complessità e per le contraddizioni attivate, è un tema studiato per ricercare soluzioni che affrontino le criticità all’ordine del giorno, tra adattamento e anticipazione: densità, estensione urbana, consumo di suolo, sprawl, clima, sostenibilità ecologica, sociale ed economica, diseguaglianza tra le persone e le condizioni di vita.
Alla mutazione urbana è connessa una crescita degli insediamenti che, oltre a porre interrogativi, produce concretamente un’estensione delle superfici e dei volumi edificati, una saturazione degli spazi aperti, una contrazione del paesaggio agrario e una frattura delle continuità ecologiche green e blue, una sostituzione dell’esistente anche storicizzato e una densificazione dell’ambiente costruito.
La necessità di ridurre il consumo di suolo e il bisogno di dotare la città di elementi polarizzanti conduce, inoltre, alla costruzione di edifici alti che, istituendo e a volte rinnovando alcuni skylines, presentano numerosi vantaggi, consentendo rispetto alla “floor area ratio” (rapporto tra sup. edificata e sup. del lotto) di occupare superfici inferiori in termini di area di sedime. Nel contempo estensione e incremento di edifici alti e “duri” (che utilizzano materiali come cemento, vetro, acciaio, non pensati in termini ecologici) producono un irrigidimento della struttura urbana, una modificazione delle morfologie storiche (il rapporto tra strade, spazi pubblici, isolati), agenti inquinanti, alterazioni del microclima, impermeabilizzazione delle superfici “verdi”, alterazione e copertura dei corpi idrici, e consumo di energia.
La forma urbana compatta ha dunque una doppia valenza, da un lato implica l’edificazione di edifici di elevata cubatura che causano gli effetti citati, dall’altro induce diminuzioni di consumo energetico, ad esempio riguardo ai trasporti: anche i comportamenti individuali e la “salute” collettiva ne beneficiano – nelle città più compatte si cammina più a piedi e in bicicletta – soprattutto se alla densità degli edifici si leghi la presenza di spazi pubblici, luoghi sociali per antonomasia, soprattutto se “verdi”.
Esiste, quindi uno stretto rapporto tra energia e densità (Rescha, et al.2016) che, insieme ad altri fattori, agisce sulla sostenibilità urbana. Se Londra (la “inner London”) ha una densità di 108 persone per ettaro, Parigi di 212 e Barcellona di 163, New York City (che conta 108 persone per ettaro, come la inner London) è tra le metropoli con maggior numero di grattacieli, ma non è una tra le città più dense (in media), pur avendo una elevata concentrazione di popolazione, soprattutto a Manhattan – tra i Five Boroughs quello a maggiore densità – parametro proporzionale alla superficie del proprio territorio e in virtù della presenza di edifici alti (soprattutto a Downtown e Midtown) che consentono di ospitare un consistente numero di residenti e di commuters soprattutto nelle ore lavorative.
Queste sintetiche considerazioni diventano più chiare se, chiudendo gli occhi, si pensi al paesaggio urbano di Manhattan che, in una area minuscola, appena 59 kmq (87 kmq in tutto, comprese le aree umide, i 28 kmq di acque interne), concentra un’estesa quantità di skyscrapers, punto di forza a livello “culturale”, estetico ed economico, ma elemento critico a livello ecologico. Il paesaggio dei grattacieli, immagine seducente e attrattiva è, nel contempo, un mostro che divora energia e produce emissioni, oltre a essere un catalizzatore di potenza economica. Rendendo chiara una delle radici urbane: il significativo, esplicito dialogo spesso espresso in termini di conflitto, tra la città e la “natura” che la accoglie.
A New York, per affrontare le urgenti questioni connesse al clima, l’amministrazione e il suo Mayor, Bill de Blasio, stanno introducendo una nuova proposta di legge – il Climate Mobilization Act – che vieterebbe, più precisamente condizionerebbe (tramite alcuni requisiti e specifiche caratteristiche), la costruzione di nuovi grattacieli che abbiano requisiti non sostenibili e che producono gas serra, richiedendo un adeguamento per quelli esistenti, per soddisfare le nuove linee guida più rigide sulle emissioni di carbonio in una città che è la numero uno nella scala di produzione di gas serra causati dal costruito. Come afferma de Blasio: «But putting up monuments to themselves that harmed our earth and threatened our future that will no longer be allowed in New York City».
Gli obiettivi del “New Green Deal” [1] (creato nel 2006 in USA; vd. Climate Mobilization Act) come è stato ribadito dal sindaco, rinnovano un “patto” e includono una programmazione mirata anche a utilizzare fonti di energia pulita, come quella idroelettrica canadese, riciclare i prodotti organici, eliminare gradualmente gli acquisti urbani di prodotti alimentari e carne processata avvolti in plastica monouso.
Ma New York City non è fatta solo di grattacieli o dell’algida materia con cui questi sono fabbricati. Dura e compatta solo in apparenza, è costituita da cinque boroughs molto differenti tra loro, una sorta di “isole” costellate da una innumerevole quantità di attività, miste, in cui convivono, in modo fluido e tendenzialmente impermanente, edifici industriali, spazi interstiziali, aree inedificate, aree in trasformazione, infrastrutture, parchi e giardini, flussi umani.
La città, infatti, cambia con grande velocità e ha una consistente quota di aree verdi e parchi piccoli e grandi (come Central Park e Prospect Park), diffusi sull’intero territorio dei Distretti. Giardini quasi sempre originati da azioni bottom-up (Schiavo, 2017), o da interventi comunitari, quasi totalmente svincolati, soprattutto in fase iniziale, dall’azione istituzionale. Tra essi i “community gardens” (Schiavo, 2017) che, soprattutto nel Bronx, moltissimi nel Lower East Side o a Brooklyn, interrompono la continuità del ferro, del vetro, della “brown stone” e del cemento. Tale presenza non solo mostra un dato quantitativo, ma evidenzia un fattore qualitativo: sia a livello dell’amministrazione ma soprattutto a livello “comunitario” la cultura urbana è tendenzialmente orientata al mantenimento, alla riconversione e alla costruzione di spazi verdi intraurbani, aree verdi, a livello del suolo, per strada, e sui tetti, che “rubano” territorio al mercato immobiliare. Si tratta, ovviamente, di un bel match, in quanto la rendita di posizione e la spinta del real estate, a Manhattan soprattutto, sono tra le più forti sul pianeta. Moltissimi – Companies, abitanti, business operators, gallerie d’arte, teatri, librerie, ristoranti – ambiscono a un posizionamento newyorchese, per le caratteristiche che la città continua a rivestire, anche nel XXI secolo quando le economie si sono spostate ad est.
La presenza “verde” ha tante sfumature, tra esse l’edificazione dei Green Buildings che, a NYC, è diventata non solo una “best practice” ma un affare: gli operatori del real estate, anche gli investitori, oltre agli architetti, o ai politici promuovono “guideline” e propongono edifici a basso impatto, anche in virtù di alcuni decreti, della domanda del mercato, della tendenza a livello mondiale che a volte si trasforma in retorica. Di Green Buildings a New York ne sono sorti parecchi negli ultimi anni, anche se alcuni mirano, con le loro caratteristiche, a giustificare operazioni immobiliari che hanno, invece, un impatto fortissimo e per nulla sostenibile dal punto di vista sociale, come ad esempio Hudson Yards (Schiavo, 2017a).
Va ulteriormente sottolineato che il recente provvedimento di legge agisce specificamente sui grattacieli perché le grandi altezze e i grandi volumi influiscono sul consumo energetico: la perdita di calore infatti è direttamente collegata alla superficie. Il rapporto tra area dell’involucro e volume deve essere, quindi, il più basso possibile per ridurre al minimo l’aumento e la perdita di calore. Nonostante le contraddizioni rilevabili riguardo alla progettazione, utili a centrare meglio gli obiettivi se esaminate criticamente, alcuni tra questi edifici meritano di essere citati:
- The Greenwich Lane (raccolta acque piovane; materiali eco-compatibili; materiali riciclati);
- The Hearst Tower (tra i 10 migliori immobili commerciali in tutto il paese; programma di compostaggio; ridotti consumi di acqua: 100% di utilizzo di acqua non potabile recuperata per tutte le operazioni di pulizia e manutenzione);
- One World Trade Center (il più alto edificio dell’emisfero occidentale a possedere la certificazione LEED Gold; la sua “glass skin” regola l’ingresso delle radiazioni solari e ha funzione termoregolante, garantendo basse emissioni);
- The 225 Columbia (riduzione dei rumori; raffrescamento naturale; isolamento termico; finestre con triplo vetro; recupero calore);
- The Schermerhorn (a Brooklyn; non ha certificazione LEED Gold; è il risultato di una collaborazione tra il settore pubblico e privato; ha solo 11 piani e le sue 189 unità sono occupate da persone che hanno un vissuto di disagio: senzatetto, l’HIV positivi, basso reddito; ospita un laboratorio di danza del Brooklyn Ballet; possiede una caldaia ad alta efficienza; ha utilizzato materiali da costruzione riciclati e ha un giardino sul tetto);
- The Bank of America Tower (certificato LEED Platinum; gli immobiliaristi hanno promosso l’edificio sostenendo che fosse improntato alla cosiddetta “biophilia”, la necessità innata delle persone di connettersi al proprio ambiente naturale; uso di luce e raffrescamento naturali);
- The Empire State Building (certificazione non recente; inaugurato nel 1931; ma dotato come quasi tutti gli altri citati del certificato LEED Gold dal 2011; flusso d’acqua basso nei wc; rivestimenti a bassa emissione; controllo dei parassiti con metodi eco-compatibili; riciclaggio dei rifiuti);
- The Toren (a Brooklyn; raffrescamento con schermi fatti da piante; riutilizzo energia e acqua);
- The 10 Hudson Yards (controllo temperatura; sistemi di ventilazione; riuso acqua piovana; “smart soil” per prevenire l’erosione e per la areazione);
- The Perch Harlem (tra gli edifici newyorchesi più efficienti dal punto di vista energetico; tenuta d’aria senza ponti termici; riutilizzo calore di scarto degli elettrodomestici; risparmio sino al 90% dell’energia).
La ricerca, a volte tecnicamente orientata, che mira a proporre e implementare nuove forme di abitare e ragiona sulla densità, sulla zonizzazione, e sugli strumenti tradizionali dell’urbanistica, deve oggi – e a più livelli, dalla grande scala strategica al puntuale progetto di un singolo edificio – tenere conto delle urgenze della contemporaneità ripensando i sistemi urbani secondo un’ottica interscalare innovativa e sostenibile: la piccola dimensione del progetto, infatti, è altrettanto importante quanto il ridisegno della area vasta. È il pensiero sulla città come macrostruttura comprensiva, interconnessa al paesaggio inteso in senso generale, che cambia, sostenuto sia da regole sia da paradigmi che pongono natura e persone dalla stessa parte.
Il “verde” è di certo una risposta ai problemi prima enunciati, non solo per la sua valenza risolutiva, ma per i costi, non troppo elevati di alcuni interventi, e forse soprattutto per l’azione comunitaria più istintivamente attiva. Il giardino, lo spazio pubblico “verde”, il parco, sono luoghi presenti in ogni tipo di immaginario personale o sociale: se dovessimo usare una metafora potremmo dire che la natura, e non solo in città, è come la musica, è cioè immediatamente comprensibile come ogni linguaggio universale.
New York City ci dà, in tal senso, una lezione: osservare gli esiti riguardo alle aree verdi, esprimendo talvolta pareri critici (come nel caso dei side effects dell’High Line, vd. Schiavo, 2017a), ci mostra quanto anche in una metropoli ambita, con un real estate market che rappresenta uno dei maggiori capitoli di bilancio, in cui vige la sostituzione e la trasformazione di aree che potrebbero essere definite “in transito”, è possibile agire in termini consapevoli e attenti in un contesto dove sono fortissime le pressioni antropiche e la capacità auto organizzativa sia degli stakeholders sia della gente comune. Se presente questo vitale scontro, come accade a NYC, la trasformazione e la sostituzione seguono altre strade, come quelle relative ai “green roofs” oggi diffusi e resi obbligatori, grazie al già citato Climate Mobilization Act, appena approvato dal New York City Council.
Si tratta di un “pacchetto legislativo” integrato che include numerose risoluzioni che rappresentano il tentativo più forte e completo di ridurre i gas serra a New York. La legge fissa i limiti e le restrizioni riguardo alle emissioni di carbonio: secondo l’Urban Green Council [2], New York produce 50 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno, il 67% di tale cifra è causa delle emissioni degli edifici, soprattutto quelli alti che sviluppano superfici oltre i 25 mila mq. La legislazione da poco approvata riguarderà circa 50 mila edifici e sarà sviluppata nel tempo, anche grazie alla creazione di specifici dipartimenti e comitati consultivi deputati per regolamentare e far rispettare i nuovi standard. La legge entrerà pienamente in vigore nel 2024, entro il 2030 le emissioni degli edifici dovranno essere ridotte del 40% rispetto ai livelli rilevati nel 2005. Il Climate Mobilization Act fa un ulteriore passo avanti e richiede che questi stessi edifici riducano le loro emissioni dell’80% entro il 2050.
Le azioni finalizzate al rispetto dei parametri non avranno solo effetti sull’emissione del gas serra, ma offriranno opportunità di lavoro ad architetti, tecnici, ingegneri e lavoratori edili. Per le strutture che non possono essere adeguate la legge propone una compensazione, per es. i proprietari dovranno acquistare energia rinnovabile. Secondo la legge tutti i nuovi edifici dovranno avere spazi verdi, pannelli solari e/o piccole turbine eoliche sul tetto, e tetti verdi; una vera rivoluzione diffusa per il futuro sostenibile, come ha affermato uno dei membri del City Council: «the Climate Mobilization Act is a down payment on the future of New York City — one that ensures we lead the way in the ever-growing fight against climate change».
Non si tratta di utopia, ma della ricerca di un bio-equilibrio di una metropoli in cui i cambiamenti urbani non sono unicamente guidati dalle ragioni del mercato spesso dotato di una miopia culturale. Per assicurare la vita del sistema, esso deve essere necessariamente sostenibile; in esso coesistono le ragioni dell’economia tradizionale, la ricerca sul bene comune e il confronto tra le persone. Un universo in cui le forze hanno un differente peso e capacità di azione, ma dove (detto in termini generali) [3] la “partecipazione” è meno gerarchizzata e meno soggetta a canali istituzionali di quanto non sia in Europa. Notazione che mette in evidenza quanto un contesto sociale in grado di organizzarsi, sia più democraticamente vitale e reattivo, se capace di strutturare in modo efficiente il dissenso e le azioni.
Per comprendere il senso della concreta “risposta” sia del governo urbano che delle indicazioni del Sindaco riguardo al “verde”, ai green buildings o ai roof gardens, e cosa stia accadendo a NYC, occorre ricordare che la relazione tra le politiche pubbliche, le azioni private e le pratiche comunitarie è storicamente diversa da quella italiana: le persone dimostrano, è un fatto endogeno e storicizzato, una grande capacità di azione e coordinamento; il “piano”, a NYC, inoltre, non ha lo stesso valore e non assume la medesima forma della tradizione italiana, fin dal XIX secolo. Poche norme, molti gradi di libertà, visioni generali e specifiche furono e sono intrecciate in uno spazio fluido e complesso in cui il controllo e la previsione hanno caratteri meno vincolistici e rigidi.
La gestione sostenibile delle città, va dunque condotta attraverso l’implementazione di strumenti di legge, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione in settori quali i trasporti, l’energia, il ciclo dell’acqua, l’automazione, il commercio sostenibile, la logistica, la pianificazione e la partecipazione dei cittadini. Coniugando la cultura civica con quella legislativa o tecnologica, con gli aspetti culturali e sociali, in combinazione con la trasformazione urbana accelerata, questa fase apre nuove opportunità per le città. E conduce verso una maggiore consapevolezza sociale e a una crescente domanda da parte delle imprese, delle organizzazioni civiche al fine di interpretare e soprattutto gestire l’urbano, attraverso tecnologie innovative, oltre la retorica e il feticismo tecnologico, a volte nascosto nel concetto di “smart city”.
Abitare il futuro
New York City – dove avvengono continui processi di trasformazione, sostituzione, saturazione e riconversione territoriale e dove il “rango” ha avuto e ha una notevole importanza a livello globale e un’indiscussa continuità nel tempo – rappresenta, quindi, uno stimolante caso studio per esaminare i modi, spesso esterni agli strumenti di pianificazione di matrice istituzionale, ma in un certo dialogo con essi, messi in atto per ridisegnare assetti di “paesaggio” e di luogo (luoghi pubblici o privati), per attivare dinamiche sociali e per implementare economie socialmente ed ecologicamente sostenibili.
Tali modi, come già detto, sono sovente generati e promossi dalla base che – intendendo l’iniziativa bottom-up complanare o a volte prioritaria rispetto a quella istituzionale e seguendo una tradizione “partecipativa” tendenzialmente poco retorica – muove e prospetta azioni di recupero, ri-significazione, riuso, riconversione di specifici luoghi o di alcuni edifici, attivando percorsi di gestione.
Questi processi – che comunque vanno di pari passo ad altri di differente “segno” (come The Big U [4] o alcuni grandi ridisegni per i waterfront, per es. a Brooklyn o in altre porzioni di Manhattan), promossi da varie Associazioni private o dalle Istituzioni – sovente si avvalgono di un’immaginazione non convenzionale (quella della “base” appunto), che implementa network e rappresenta livelli di significatività, sia in sé, sia se osservati in termini comparativi con altri esempi europei, mostrando quanto si possa e debba riflettere sul concetto di partecipazione, sull’efficacia dell’opporsi, sul confronto, sul ruolo del conflitto urbano. La “partecipazione” più significativa a NYC, è proprio quella che sorge dalla base, e non frutto di processi retorici, alla ricerca di consenso, spesso organizzati dalle Istituzioni o dai portatori di interesse.
Ciò spinge a osservare quanto in ambito newyorchese le idee di trasformazione e di riconversione emergano in contesti comunitari. Portatrici di un immaginario progettuale, le persone dimostrano di essere in grado di trasformarlo in concrete realizzazioni. In tal senso la comunità in azione punta all’attuazione non solo definendo e delineando gli obiettivi e il “re-design” di un luogo ma contribuendo al farsi del progetto, attivando la ricerca di capitali (tra cui quelli privati), agendo negoziazioni in una conflittualità abbastanza esplicita e gestendo gli esiti, a volte di concerto con le Istituzioni (es. chiave i Conservancies di alcuni Parchi, come il Central Park e Battery Park), a volte in termini decisamente più autonomi.
Il concetto di Comunità e di Community Planning, che a NYC presenta numerosi gradi di intensità e numerose sfumature, alcune controverse, introiettato e riconosciuto dalle Istituzioni, trascende quindi gli orizzonti teorici, pur interessanti, e assume un valore differente: riguarda le persone, le idee, i “bersagli” e quelle azioni sovente auto-generate, mirate a raggiungere specifici obiettivi. Esse, definiti in itinere – tramite aggregazione spontanea, laboratori di progetto, feedback, strumenti istituzionali di partecipazione alla scelta, come le Community Boards [5] in alcuni casi marginalizzati e inefficaci [6]in altri, invece, più efficienti – possono essere considerati un punto intermedio tra lo start del progetto e la gestione, cioè il management del luogo riqualificato, gestione anch’essa passibile di evoluzione e occasione per attivare lavoro, socialità, consapevolezza civica. Una cifra stimolante che si manifesta anche nella gestione e nella presa in carico dei luoghi dismessi o sotto utilizzati che in certi casi si trasformano in spazi pubblici (come per i giardini comunitari), in altri casi essi diventano luoghi “diversamente” produttivi, in termini sostenibili ed ecologici.
Se realmente autoprodotte da gruppi attivi tali azioni assumono, inoltre, un valore teorico e una valenza “politica”, sia un ruolo formativo e di esemplum, manifestando una concreta energia trasformativa sociale che in certi casi riesce a opporsi con efficacia alle dinamiche poste in atto dagli stakeholders economicamente dominanti. In altri casi attiva, invece, effetti di segno opposto, come a Hudson Yards terminale nord dell’High Line, dove a fronte di una iniziativa formalmente, ma non unicamente, bottom-up tesa al recupero e alla riqualificazione del vecchio viadotto trasformato poi in giardino lineare, si sono attivati incontrollati rialzi dei valori immobiliari, gentrification e speculazione, esterni a ogni checkup istituzionale, e semmai favoriti dalla istituzione municipale. Oltre ciò, uno degli aspetti interessanti è, infatti, il feedback tra i comportamenti insorgenti e la redazione delle leggi, che configura una tra le qualità più interessanti della città, se generi azioni “sostenibili”. In questo caso la pubblica amministrazione può imparare dalle azioni degli abitanti, mentre gli abitanti imparano dalle istituzioni, trasformando un circuito coattivo in uno collaborativo.
Oltre all’analisi di alcuni casi studio, soprattutto relativi alla riconversione di ex edifici industriali che vengono trasformati in “orti” urbani (parecchi sui tetti degli edifici) – che mostra come tali azioni inneschino micro economie fortemente ramificate e di segno crescente, cioè tendenti alla stabilità e alla diffusione – va ribadito che tali best pratices riguardino e abbiano riguardato anche molti “giardini” comunitari [7]: un fenomeno assai interessante e presente, a NYC, fin dalla metà dei critici anni ’70. Questi giardini, che comparvero in fase iniziale in Lower East Side, sono diffusi soprattutto a Manhattan, Brooklyn, nel Bronx e nei Queens. Tali riconversioni e presa in carico di “piccoli” spazi trasformati in community gardens, originano, come per gli orti sui tetti, dal ripensare aree abbandonate o dismesse con obiettivi d’uso e con significative ricadute sociali.
Un aspetto comune, probabile conseguenza del feedback che contraddistingue quasi tutti gli interventi mossi dalla base, è che i soggetti delle trasformazioni (quasi sempre volontari), cercano, spesso, un’interconnessione con le Istituzioni nonché il coinvolgimento di “attori” che investano i propri capitali privati, attivando una negoziazione. L’osservazione di tale processo aiuta a ragionare e comprendere anche quanto la retroazione tra i differenti soggetti (istituzionali, economici, sociali) inneschi una trasformazione delle “pratiche” e degli “strumenti” di progetto e di gestione del territorio di matrice istituzionale: le Istituzioni favoriscono, oppongono, imparano dalle pratiche bottom-up e i cittadini si contrappongono ma imparano dalle Istituzioni con cui si confrontano e si interrelano, a volte in modo dichiaratamente antitetico.
La progettualità e la reale riconversione dei luoghi, che vengono restituiti alla città e agli abitanti, si misurano quindi con una conflittualità urbana abbastanza esplicita destinata a comporsi spesso tramite un duro scontro che produce sia fortissime sperequazioni che un maggiore equilibrio fluido tra forze difformi.
Trasformare il presente
I Five Boroughs si sono sviluppati e fortemente differenziati, fin dal XIX secolo. Si tratta quasi sempre di territori eterogenei, di dimensione e consistenza variabili che, soprattutto per quanto attiene Manhattan e Brooklyn, contengono un mix di funzioni; esse, nell’intera metropoli, non sono state né sono, come già detto, unicamente prefigurate da strumenti di pianificazione. Le trasformazioni, dunque, hanno dato vita a strutture flessibili e mutevoli, composte attraverso “occasioni”, iniziative, puntuali o estese, di matrice collettiva o individuale, massive e progressive (come quelle connesse alla subway, dal 1904 in poi), strumenti di sviluppo e pianificazione istituzionale [8]; un insieme guidato anche da una efficiente ergonomia del Capitale con conseguenti disparità e allocazioni funzionali fluide, frutto di una dinamica che persegue un rapporto positivo tra costi e benefici, agìta da una molteplicità di soggetti e di “pensieri attivi” sulla città.
Concentrandosi sullo sviluppo di Manhattan e Brooklyn (i boroughs in cui il cambiamento è stato ed è più forte) va detto che in entrambi i distretti non abbia prevalso una funzione specifica, come quella residenziale o produttiva: il territorio appare frammisto, poroso, ricco di funzioni adiacenti, apparentemente incompatibili ma integrate in un paesaggio tensivo, polimorfo anche a livello percettivo. A Manhattan, settori di produzione soft hanno convissuto e convivono con altri ambiti, come quello residenziale, come lo stoccaggio della carne e dei generi alimentari, insieme all’alta finanza, o a piccoli e grandi parchi, a quartieri etnici, o a vaste aree pulsanti, localizzate in Lower East Side o a Brooklyn, dove, oltre alla vasta e diramata presenza residenziale, si localizzarono le industrie pesanti frammiste a una trama agricola e a un tessuto abitativo misto, fortemente caratterizzato dalla componente etnica dei workers e in misura minore da una fascia medio alta che alloggiava in poche aree di grande pregio, come Brooklyn Heights o come alcune enclave immediatamente a ridosso di Prospect Park.
In tale quadro la variazione urbana ha un segno costante e incrementale, e presenta molte sfumature: in epoca storica agiva per saturazione, edificazione, sostituzione, attualmente agisce anche per riconversione. In tal senso l’agricoltura urbana e gli orti, i giardini, le urban rooftop farms e le urban farms, diffusi sia a Manhattan che a Brooklyn (dove la presenza è maggiore), spesso, riconfigurano aree dismesse. Contenute in aree nevralgiche riutilizzate, di differenti dimensioni, tra esse la Eagle Street Rooftop Garden a Greenpoint (a Brooklyn), tali farms nascono perlopiù dal basso, reclutano volontari, attivano una ricerca di capitali (per la realizzazione e il flusso delle donazioni di sostegno), si aprono al territorio con la vendita dei prodotti coltivati, con le attività nelle scuole (tra cui i programmi di rieducazione alimentare), dando vita a un circuito germinativo civico-sociale-economico/ sostenibile.
Alcune di queste farms, come la King County Distillery (nell’area del Brooklyn Navy Yard), hanno una valenza produttiva ed ecologica sia per soluzioni a bassissimo impatto, sia per l’attivazione di un indotto economico: dagli artigiani ai piccoli ristoranti Zero Miles, ai luoghi di ritrovo. Anche se in sintesi vanno menzionate alcune iniziative istituzionali, a varia scala, precedenti al Climate Mobilization Act, mirate a incentivare le farms, tra esse: The Urban Agriculture in New York State, un programma relativo all’implementazione di attività connesse all’allevamento di animali, produzione di vegetali, distribuzione e vendita del cibo prodotto, riuso dei rifiuti e delle acque piovane, attività di formazione.
Un risultato emblematico è Brooklyn Grange, una bio-fattoria di 2.5 acri che produce ortaggi e miele di alta qualità venduti anche ad alcuni ristoranti. La fattoria è dislocata su due “tetti”, uno su un edificio di 43 mila sq. ft. tra Astoria (Queens) e Long Island City, l’altro nell’area del Brooklyn Navy Yard. Si tratta della più vasta rooftop farm nel mondo ed è dotata di circa trenta alveari. Fu avviata nella primavera del 2010 e, post formazione del team, furono investiti capitali dai membri del gruppo, furono reperiti fondi che finanziassero il progetto, tra essi 592.730 dollari, dati dal NYCDEP’s Green Infrastructure Grant Program. La farm, oltre a produrre cibo (l’anno scorso 15 mila libbre), ricicla i rifiuti, massimizza la produzione agricola, distribuisce il cibo agli acquirenti utilizzando le biciclette, ricicla le acque piovane, fornisce servizi di consulenza per l’istallazione di tetti verdi e per agricoltura urbana, ha clienti in tutto il mondo e collabora con numerose organizzazioni non-profit a NYC al fine di promuovere le comunità locali sostenibili. Il City Planning Department e il recente Climate Mobilization Act, inoltre, incentivando le rooftop farms, hanno proposto alcune norme relative alla creazione di orti e serre (tra esse, The Bright Farms Greenhouse, sempre a Brooklyn) sui tetti restringendo, ma solo inizialmente, tali incentivi agli edifici commerciali.
Grazie alla proposta del Dipartimento e ai recenti provvedimenti di legge, riguardando anche agli edifici residenziali, e secondo alcuni studi [9], potrebbero essere reperiti più di 3 mila acri in grado di accogliere farms on the top; cifre che verranno incentivate dal recente pacchetto di legge. I vantaggi sarebbero enormi, ancor più se tale pratica si diffondesse anche agli edifici residenziali, soprattutto in ambiti, come Manhattan, fortemente saturi. Le fattorie e gli orti sul tetto, infatti, avvalendosi di alcuni accorgimenti, potrebbero non solo agire sul micro clima o sulla percezione del cityscape, ma potrebbero raccogliere e riutilizzare le acque piovane e dotare di spazi pubblici quartieri meno fortunati.
Oltre a quelle già indicate, l’agricoltura urbana presenta numerose potenzialità: ad es. la riduzione dei costi di trasporto di alcuni generi alimentari, la diminuzione dell’impatto ambientale, lo sviluppo economico, la mitigazione della sperequazione relativa all’accesso ai cibi sani agendo in tal modo sul tasso epidemico di obesità e diabete (assai diffusi tra le popolazioni a basso reddito che spesso si nutrono di junk food), le interazioni sociali tra le persone, lo sviluppo di “professioni” innovative.
Gli studi mirati a comprendere quali porzioni di suolo e di “tetti” possano essere impiegati vanno di pari passo con l’emanazione dei provvedimenti legislativi e con gli incentivi proposti dalle Istituzioni riguardo all’agricoltura urbana. Già nel dicembre del 2017 il New York City Council aveva approvato all’unanimità il primo disegno di legge sull’agricoltura urbana. Esso prevede un Data base sulle organizzazioni esistenti e su quelle interessate a intraprendere attività agricole in città, servizi di consulenza e una guida a chi intendesse aprire aziende agricole in ambito urbano. Tali azioni istituzionali seguono la tradizione comunitaria che ha una lunga e “felice” storia nel coltivare cibo nei piccoli giardini e in grandi lotti, come a Red Hook a Brooklyn, o a Battery Park a Manhattan e più recentemente proprio sui tetti, (pratica diffusa anche per la promozione di associazioni come Brooklyn Grange o Gotham Greens). Brooklyn, che è stata la centrale agricola nel XIX secolo per NYC, attualmente è diventata un modello di business in cui il cibo viene coltivato e venduto direttamente nella comunità.
In questo contesto vitale un buon numero di imprenditori ha iniziato a convergere anche sull’agricoltura high-tech (sistemi idroponici, ad es.), mentre alcune forze politiche stanno lavorando al fine di sviluppare un’agenda politica e un organico piano urbanistico che renda chiare le regole e gli incentivi per le imprese esistenti e per le start up. Anche tenendo conto dei problemi tecnici connessi alla realizzazione che, nel contempo, rappresentano una sfida e una opportunità per creare posti di lavoro.
La volontà di promulgare specifiche leggi non è solo connesso alle potenzialità economiche e sociali dell’ambito, ma a carenze legislative che non fanno fronte all’innovazione, lo Zoning in vigore, che non è stato sostanzialmente aggiornato dal 196. Infatti, non contiene indicazioni su urban farm, rooftop farm, indoor farm, vertical farm. Alcune forze private e politiche, dunque stanno operando affinché ci sia maggiore apertura al tema e flessibilità anche riguardo all’uso degli spazi residuali e soprattutto dei tetti residenziali, pur con la consapevolezza che le fattorie urbane non possono, da sole, risolvere il nodo relativo alla qualità e alla distribuzione alimentare in una città dove i consumi sono altissimi. Le urban farms, che devono essere rafforzate, vanno intese come uno tra i canali che integri e che potenzi l’autodeterminazione e l’empowerment in sede locale, nei quartieri, tra gli abitanti.
New York ha il sistema di agricoltura urbana più esteso degli States: tale sistema rappresenta un contraltare attivo al consumo di suolo, reggendo, anche se con fatica, a volte, le spinte immobiliari del real estate. L’urgenza di agire in termini generali ha dato vita a progetti, come Five Boroughs Farm (elaborato da un team misto che vede associazioni, Enti di ricerca e Dipartimenti della Città), una sorta di piano strategico operativo esteso a tutta NYC che punta, alla definizione di percorsi di azione e alla identificazione di modelli di finanziamento sostenibile, individuati soprattutto su base empirica. Particolare attenzione viene data all’agricoltura sui “tetti”, “tema” come già detto presente fin dal 2012, quando un emendamento di Zoning rese possibile non conteggiare nella valutazione delle altezze degli edifici le serre, stabilendo un massimo per esse di 25 piedi di altezza e un arretramento di 6 m. dal bordo del tetto. Ciò per far fronte alle leggi municipali che impongono alcune limitazioni rispetto alle altezze in alcune aree e alle scelte degli speculatori immobiliari, i quali tendono a edificare alla maggiore altezza consentita, cosa che rendeva pressoché impossibile la costruzione di serre, prima dell’emendamento.
In tale spazio fluido di trasformazioni, spinte immobiliari, suolo conteso e proposte sostenibili, in una città come NYC le politiche e le azioni bottom up che promuovono l’agricoltura urbana rivestono un enorme valore ecologico e sociale, facilitando i rapporti tra soggetti diversi e la formazione di accordi formali e non per l’uso dello spazio e dell’acqua, riducendo, così, inquinamento e contaminazione delle acque stesse. Un enorme opera di recupero, riqualificazione, riuso che si sta ampliando a tutta la città, caratterizzata da uno spazio denso ma fortemente interstiziale e da una specifica innovazione sperimentata in prima persona dalla “base”.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note
[1] Un pacchetto integrato che fa fronte ai cambiamenti climatici e alla disuguaglianza economica. Il nome rimanda al New Deal, cioè a quell’insieme di riforme sociali ed economiche e di progetti pubblici implementati dal presidente Franklin D. Roosevelt in risposta alla Grande Depressione del ‘29. Il Green New Deal integra l’approccio economico di Roosevelt con idee più innovative relative all’uso di energia rinnovabile.
[2] Una organizzazione non-profit, composta anche da volontari che mira ad agire sul patrimonio edilizio per un futuro sostenibile.
[3] Si tratta di un’affermazione che va circostanziata, per eludere il rischio di superficialità. In questo caso si intende marcare la relazione tra attività ed effetti conseguiti in base ai rapporti di forza tra l’azione comunitaria e quella dei gruppi potenti dal punto di vista sociale, politico o economico.
[4] Implementato dalla The City of New York e con una previsione di spesa di 335 mln di dollari, The BIG U è un vasto progetto di sviluppo e protezione per Lower Manhattan da inondazioni, alluvioni e tempeste e impatti connessi ai cambiamenti climatici. Si tratta di un progetto unitario per il waterfront di Lower Manhattan (circa 10 miglia) e comprende un’area che va dalla West 57th Street, fino a Battery Park, giungendo a East Side, all’altezza della 42nd Street.
[5] Le Community Boards nei Five Boroughs di NYC sono 59: 12 a Manhattan, 12 nel Bronx, 18 a Brooklyn, 14 nel Queens e 3 a Staten Island. Sono gruppi consultivi, esprimono pareri, discutono su uso del suolo e zonizzazione, partecipano al “city budget process” (bilancio comunale e destinazioni riguardo ai capitoli di bilancio). Sono organismi che agiscono su due fronti: mobilitano la popolazione che si oppone a progetti specifici; e, attraverso quanto consentito dalla City Charter, attivano processi di partecipazione alle scelte, presentando alla Città piani e progetti (sviluppo e il miglioramento delle comunità insediate) elaborati dalla “comunità”.
[6] Un esempio riguarda l’imponente trasformazione della vasta aree terminale nord dell’High Line, Hudson Yards, dove le istanze emerse dentro la Community Board 4 furono totalmente disattese. Vd. F. Schiavo (2017a), in: https://iris.unipa.it/retrieve/handle/10447/280726/546051/Contato_Atti_XX_SIU.pdf
[7] Vd. F. Schiavo (2017).
[8] Oltre al Commissioners’ Plan del 1811, un semplice street plan, lo Zoning (il primo è del 1916); gli interventi trasformativi promossi da Robert Moses; o alcuni Piani generali come il recente PlaNY2030, un Master Plan varato nel 2007 da M. Bloomberg, sindaco della città per tre mandati prima di B. de Blasio eletto nel 2014.
[9] Vd. The Potential for Urban Agriculture in New York City, Report redatto dal Urban Design Lab (UDL), unità di ricerca della Columbia University.
Riferimenti bibliografici
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Foderaro L. W., Huge Rooftop Farm is set for Brooklyn, April 5, 2012, disponibile sul New York Times site, https://www.nytimes.com/2012/04/06/nyregion/rooftop-greenhouse-will-boost-city-farming.html
Giordano C. (2019), New York set to ban glass skyscrapers in bid to tackle climate change, «Indipendent», 23 April, 2019; https://www.independent.co.uk/news/world/americas/new-york-skyscraper-ban-glass-greenhouse-emissions-climate-change-a8882241.html
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Reynolds K., Cohen N. (2016), Beyond the Kale: Urban Agriculture and Social Justice Activism in New York City, University of Georgia Press, Georgia.
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Schiavo F. (2018), Alberi sul tetto: uomini e donne in azione a NYC, Atti della XXI Conferenza Nazionale degli Urbanisti, SIU, confini, movimenti, luoghi politiche e progetti per città e territori in transizione, Firenze, 6-8 giugno 2018.
Schiavo F. (2017), Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, Castelvecchi, Roma.
Schiavo F. (2017a), Per un’arte dell’equilibrio in moto. Giardini e parchi, politiche urbane, azione pubblica e azioni comunitarie a New York City, Atti della XX Conferenza Nazionale degli Urbanisti, SIU, urbanistica è/e azione pubblica, la responsabilità della proposta. 12-14 giugno, 2017, Roma, disponibile in Planum Magazine, http://www.planum.net/xx-conferenza-siu-2017-pubblicazione-atti.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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