di Rosy Candiani
La figura di Giufà, anti-eroe della letteratura popolare orale di tutti i popoli che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, è a ragione considerata simbolo del Mediterraneo stesso, in quanto incarnazione della osmosi, della convivenza e dello scambio che da sempre accomunano le civiltà sorte sulle rive del “Mar Bianco”.
Presenza antichissima, Giufà può essere definito e identificato con la metafora del ponte: tra culture diverse ma connesse e comunicanti. Originario dei Paesi arabi, questo personaggio (come un po’ la figura di Pulcinella) ha viaggiato con le sue storie lungo le rotte commerciali e gli spostamenti verso i Balcani e attorno al Mediterraneo, toccandone tutti i Paesi, salvo Francia e Spagna. Proprio questo aspetto multiculturale, di avvicinamento e condivisione attraverso un personaggio fantastico, è uno dei motivi per cui, malgrado la personale e dichiarata incompetenza a riguardo del mondo delle tradizioni popolari e orali, e della fiaba, il progetto della Enciclopedia Treccani mi ha catturato da subito: allargare al bacino del Mediterraneo i «Sentieri della fiaba» già percorsi per l’iscrizione della fiaba a patrimonio immateriale dell’umanità; creare ponti culturali tra i diversi Paesi del Mediterraneo attraverso una figura chiave e ricorrente delle fiabe e tradizioni locali.
Ho sentito l’immediata armonia di questo progetto con due peculiarità dei miei studi e dei miei interessi: verso il Mediterraneo, come luogo di partecipazione culturale; e poi l’interesse per la oralità, ossia la impossibilità a fissare in un testo statico e univoco la molteplicità delle varianti di un episodio; e nello stesso tempo la assoluta unicità di ogni singola narrazione dell’aneddoto. Caratteristiche simili, per molti versi, alla unicità dell’evento teatrale performato, alla impossibilità, se non per approssimazione, di ricostruire, soprattutto quando si arretra nel tempo a epoche sfornite di strumenti di riproduzione, le modalità di realizzazione di uno spettacolo, di una esecuzione: il melodramma per esempio, nella irriproducibile armonia di voci, strumenti, scene, movimenti, pubblico, che un libretto o una partitura necrotizzano in una istantanea standardizzata e irreale: l’uno, per la staticità delle battute e l’impossibile riproduzione nelle interpretazioni attoriali e autoriali dell’universo delle didascalie implicite; l’altra, per la registrazione parziale delle variazioni vocali e dell’apporto di voce e musici a integrazione del dettato musicale.
Ma soprattutto ha fortemente catalizzato la mia attenzione la possibilità, attraverso questo progetto, di stabilire nuovi legami tra le rive del Mediterraneo, di fare emergere, da un percorso culturale dal basso, dalla cultura più vicina al popolo nelle diverse sfaccettature, i mille rivoli che uniscono la riva Nord e la riva Sud, accomunando nei secoli popoli diversi ma in ininterrotto rapporto e dialogo. Per quanto mi riguarda tra Italia e Tunisia.
La presenza di questo personaggio in Tunisia ha carattere emblematico del suo percorso: per questo ho pensato di poter contribuire al progetto, anche se con una semplice raccolta di testimonianze-campione, utili poi per le analisi degli specialisti della fiaba e delle culture orali tradizionali. In Tunisia Giufà è J’ha il personaggio di origini arabe, con varianti di pronuncia nelle diverse zone del Paese, esattamente come in Sicilia (Pitrè 1875); e forse proprio dalla Tunisia si è insediato in Sicilia con la conquista araba. Ma con l’esodo migrante di fine Ottocento e con lo stabilirsi di una popolosa comunità siciliana in Tunisia, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, J’ha, diventato Giufà torna a Tunisi sulle rotte siculo-tunisine e manifesta la sua presenza persistente nei racconti familiari, ancora vivo nelle generazioni di cinquantenni e più degli italiani di Tunisia da me ascoltati [2]. Vediamo i ricordi di Rita Strazzera:
«Mamma è nata a Marsala ma anche se è venuta molto piccola in Tunisia con tutta la sua famiglia, ha sempre mantenuto intatta tutta la sua sicilianità. Sicilianità che mi ha trasmesso, che custodisco preziosamente e che applico spesso e volentieri. Le feste religiose con le tradizioni culinarie ma anche la cucina di tutti i giorni, le abitudini delle piccole cose della vita, tutto era rimasto intatto esattamente come se la famiglia non avesse mai lasciato Marsala in quel lontano 1907. E Mamma aveva continuato anche dopo sposata la stessa identica vita. A casa i miei genitori parlavano siciliano tra di loro perché anche mio padre era figlio di un emigrante trapanese. Mamma mi parlava spesso della sua Marsala, a lei piaceva molto raccontare. A volte nominava un certo Giufà, personaggio buffo, un po’ cretinotto ma dotato anche di una certa furbizia, come si dice in siciliano fissa sperto ovvero stupido furbo (da non confondere con sperto fissa che è invece un furbo che può in certe circostanze comportarsi da sciocco). A volte quando facevo qualche sciocchezza Mamma mi trattava da ‘Giufà’ ma bonariamente e devo dire con una certa tenerezza».
Come nella tradizione in Sicilia, il Giufà arrivato a Tunisi è dunque un giovane buffo e ridicolo, sinonimo di gesti ingenui, talora stupidi; come ricorda Mohamed Mezli, la sua mamma, siciliana sposata a un tunisino, appena diceva «Giufà» si metteva a ridere, «e io ridevo delle sue risate»; talora era lo sciocco del villaggio, preso ad esempio negativo, ma bonariamente, per mettere in guardia e correggere i bambini. Ricorda Aldo Maniaci: «quando ero bambino e facevo una bêtise mi dicevano ‘fai come Giufà’». E la scrittrice Marinette Pendola ricorda come fosse comune, nel linguaggio familiare, soprattutto dei suoi nonni, l’espressione «Giufà» o «che Giufà», come dolce rimprovero:
«Abbastanza comune nel linguaggio familiare era l’uso dell’esclamativo “Giufà!” Oppure “Che Giufà!”, spesso rivolto a se stessi quando si faceva una stupidata. Quindi il personaggio era considerato soprattutto come uno stupido. Il mio bisnonno mi raccontava storie di Giufà ma non tante. Preferiva quelle sugli animali (Esopo). Pochi racconti, molte invece le espressioni con quel nome. “Sei come Giufà?” Diceva spesso mia madre, oppure “Non fare come Giufà “, e quando chiedevamo che cosa avesse fatto, rispondeva: “Quando sua madre gli ha detto di tirarsi dietro la porta quando veniva a messa, lui la scardinò e si presentò in chiesa con la porta in spalla”».
Per quanto riguarda invece i tunisini, Giufà, cioè J’ha, è un personaggio più complesso e dotato di sfumature, e si assiste quasi a uno sdoppiamento tra uno J’ha intelligente opportunista, con una logica apparentemente bizzarra ma sempre utilitaristica (la figura prevalente) e uno J’ha più ingenuo e forse apparentato o contaminato con la versione siciliana. La prima ricognizione di testimonianze [3] consente di raccogliere alcune considerazioni sull’ambiente sociale e sulle modalità di fruizione dei racconti nelle differenze e nelle analogie con la tradizione siciliana.
- J’ha è una figura conosciuta da tutti i tunisini adulti, di tutti i ceti sociali, ma non attraverso la trasmissione dei racconti familiari femminili; si tratta piuttosto di aneddoti di ambito maschile, delle chiacchiere da caffè per esempio, luogo privilegiato di socializzazione e dove si svolgono anche molte delle peripezie del personaggio.
- J’ha entra nell’immaginario dei tunisini fin da bambini: al kotteb, sui libri di scuola [4], nelle citazioni dei professori, per esempio di un professore di matematica, che ricorda le abilità di calcolo di J’ha, o ancora aneddoti di J’ha che vuol guadagnare senza sforzo.
- Diventato negli anni Sessanta protagonista di un breve stacco radiofonico del periodo di Ramadan – Chaneb – subito prima la rottura del digiuno serale, e quindi ascoltatissimo, J’ha diventa noto a tutti, come ricorda il compianto Hichem Haissa:
«Il faut retrouver le générique qu’on entendait juste après le coup de canon pendant ramadan ….oui de bon souvenir: à la radio essentiellement avant la rupture de jeune….puis après chaque fois qu’il y avait une histoire bizarre on disait c’est une histoire de J’ha c’est même pas la peine de continuer…. Dans les soirées au Maroc il y a l’équivalent de J’ha, et toutes les histoires de Jomani sont numérotées, il suffit de crier un numéro pour quelques secondes après tout le monde rigole alors qu’il y avait le silence absolu. Par exempl: Jomani a voulu travailler au USA mais personne ne sonnait à son bureau; alors il a changé sa plaque sur sa porte et c’est appelé Joe Many et il a fait fortune».
- Quindi come per il Giufà siciliano, J’ha diventa riferimento per antonomasia: se qualcuno vuole evitare un problema o svicolare (banalmente salire sul tram senza pagare il biglietto) si dice «vuoi diventare J’ha»; oppure alle sortite stravaganti di qualcuno nella conversazione è ricorrente l’esclamazione «famma J’ha – c’è un Giufà»
- J’ha personaggio adulto è simbolo dunque di furbizia contadina inserito nel contesto della città, della capacità di cavarsela, di una mescolanza di ottusità, ingenuità, intelligenza e furbizia verso il profitto. Un personaggio proveniente dalla campagna, di ambito popolare, che ricorda per certi aspetti la figura di Bertoldo.
Con il Giufà siciliano J’ha condivide alcune caratteristiche: l’assenza della figura paterna e la presenza assidua della madre; il contesto popolare e non cittadino, anche se Tunisi fino agli anni Sessanta/Settanta conservava molti angoli semi-rurali, con la conformazione del borgo, ed era circondata da campi.
A Tunisi, J’ha e Giufà non si sovrappongono e non assimilano le loro caratteristiche: il dialogo tra questi due personaggi si gioca sui contenuti e sono le loro storie a mescolarsi, con un filo comune e talora con varianti molto interessanti dal punto di vista sociologico.
Tutte le testimonianze raccolte, italo-tunisine (meglio siculo-tunisine) e tunisine, concordano per esempio nel ricordare in particolare la storia di “Giufà – J’ha e la porta”, che si dimostra la più popolare e anche molto comica. Ecco la storia di Giufà e la porta raccontata con il garbo e con le sue sfumature di siciliano da Rita Strazzera:
«Un giorno la madre disse a Giufà: io vado al mercato, quando avrai finito di prepararti vieni a raggiungermi. Uscendo tirati la porta.
Al momento di uscire Giufà senza pensarci due volte toglie la porta, se la mette sulle spalle e si reca al mercato.
Giufà ma chi facisti disgraziato?
Fici chi mi dicisti, mi tirai a porta!
Di ritorno trovano la casa vuota, erano passati i ladri.
E così Giufà prese un sacco di bastonate».
La storia ruota come perno centrale sulla polisemia del verbo “tìrati” la porta e, naturalmente, sulla attitudine di Giufà a interpretare il mondo, e le parole che lo nominano, alla lettera. La variante tunisina invece [5], gioca la sua efficacia sulla caratteristica della lingua tunisina della espressione sintetica, che spesso elide il verbo. “Win el bab win enti”: “dove (è) la porta, là (sei) tu” dice la madre, spianando la strada al gesto di J’ha di portarsi in spalla la porta al caffè. E l’aneddoto, come spesso nelle storie tunisine di J’ha, si conclude al caffè, nelle risate dei presenti (e degli ascoltatori) lasciando in sospeso e alla loro immaginazione le conseguenze: per i gioielli e i risparmi nascosti in casa, per i ladri, per l’ira della madre…
Le storie tunisine di J’ha possono essere articolate sulla dimensione del racconto, ma spesso sono molto brevi, facezie da caffè o motti di spirito, dove il protagonista non ha bisogno di preamboli, presentazione o ambientazione.
Ne trascrivo alcune dalle testimonianze di Ismail Nacir e Jamel Chabbi.
QUANDO A J’HA RUBARONO L’ASINO
Un giorno J’ha al risveglio scopre che gli hanno rubato l’asino. Esce e gira tutto il villaggio gridando: “se non mi rendete il mio asino farò come ha fatto mio padre! Vi avviso!” e lo ripete ovunque. Il ladro lo sente e gli rende l’asino, chiedendogli perdono ma poi chiedendogli: “che fece tuo padre quando non gli hanno reso l’asino?” J’ha gli rispose: “È semplice, ne ha comprato un altro”
J’HA CANTANTE
Un giorno J’ha va all’hammam; si ritrova solo e si mette a cantare. L’eco della sua voce gli torna e J’ha è molto soddisfatto della sua voce; allora più tardi al caffè con gli amici si lancia a cantare a squarciagola. Gli amici inorriditi gli chiedono di smettere che la sua voce è un disastro. Tranquillo J’ha risponde: “se venite con me all’hammam ad ascoltarmi mentre canto, vedrete bene la bellezza della mia voce”.
J’HA E IL DINARO
Un giorno un amico si reca a casa di J’ha e gli chiede in prestito un dinaro. J’ha gli chiede: “quando me lo rendi?” “la settimana prossima”. J’ha gli presta il dinaro e l’altro la settimana dopo torna per rendergli il dinaro. J’ha gli dice di metterlo sotto l’angolo della stuoia. Dopo un po’ di tempo l’amico torna e gli dice di prestargli un dinaro che gli avrebbe reso la settimana seguente. J’ha gli dice: “cerca sotto l’angolo della stuoia”. L’amico cerca e prende il dinaro, ma non torna la settimana seguente come promesso. Poi dopo un po’ di tempo torna da J’ha e gli domanda ancora un dinaro in prestito. J’ha gli dice di andare a prenderlo sotto l’angolo della stuoia. Il tipo alza l’angolo ma dice “ma non c’è niente qua!”. J’ha gli risponde: “se l’avessi restituito lo avresti trovato al suo posto”.
J’HA E IL CORTEO FUNEBRE
Al caffè gli amici chiedono a J’ha: a un funerale preferisci essere davanti o dietro la bara?
E J’ha risponde: non è molto importante, l’essenziale è non essere al centro.
J’HA E LO SCARAFAGGIO
J’ha ha fame ma è senza soldi, allora ha un’idea: mette nella tasca un grande scarafaggio morto e va al ristorante. Poi ordina il menù più ricco, mangia a sazietà e per finire chiede una zuppa (chorba); quando arriva e il cameriere si gira, J’ha mette lo scarafaggio nella zuppa, gira il cucchiaio, lo prende e chiama a gran voce il proprietario. Gli mostra lo scarafaggio, dicendo: “volete che faccia uno scandalo?” il proprietario gli chiede per favore di perdonarlo e in cambio gli offre di non pagare la cena. J’ha se ne va simulando di essere sdegnato; poi al caffè racconta l’accaduto a un amico. Questo il giorno dopo pensa di imitare J’ha, mette uno scarafaggio nella tasca e va al ristorante dove ordina anche lui come J’ha tutto il meglio; poi quando alla fine domanda la zuppa, il cameriere gli risponde che quel giorno non c’è nel menù. Allora l’amico di J’ha deluso gli chiede: “e io allora dove metto lo scarafaggio?”
Per quanto riguarda le storie di maggior respiro, ne scelgo, tra quelle che ho raccolto dai miei novellatori, tre che toccano in qualche modo il rapporto di J’ha con l’autorità, o con un rappresentante di un ceto più elevato del suo. Le storie mi giungono da Mohamed Mezli (dalla parte del padre), Jamel Chabbi, Ismail Nacir e Hichem Haissa.
LA STORIA DEL MOUADHEN (MUEZZIN) CHE CHIAMA ALLA PREGHIERA
J’ha abita con la madre che è molto credente e che quando c’è l’appello alla preghiera dell’hob, la prima del mattino, si alza, si prepara e prende la coperta in cui J’ha è avvolto e dorme ancora, per coprirsi; J’ha resta al freddo, le mani tra le gambe, nel letto, ogni mattina. È molto arrabbiato e cerca una soluzione per mettere fine a questa sofferenza. Una mattina molto presto, prima dell’appello alla preghiera, quando la madre dorme ancora, esce e si dirige verso la moschea, aspetta il muezzin nel minareto e gli taglia la testa; poi la avvolge in un telo, la getta nel pozzo di casa e se ne torna a dormire. La madre aspetta aspetta l’appello alla preghiera che non viene e poi gli dice: “J’ha credo che il tempo della preghiera è passato e non c’è. Che succede?” J’ha risponde: “gli ho tagliato la testa e gettata nel pozzo per restare tranquillo”. La madre prima pensa che J’ha scherzi, ma poi, quando esce al caffè, la madre nel dubbio che il figlio, stupido, lo abbia fatto davvero e se ne vanti con gli amici, va a controllare il pozzo. Mette la scala, scende, e trova la testa; allora cerca una testa di capra con lunghe corna, toglie la testa del muezzin e getta nel pozzo l’altra. Nel mentre J’ha nel caffè si gloria de aver tagliato la testa e di essere tranquillo ora che è nel pozzo. La storia arriva al khadi – il giudice – e alla polizia che vanno a interrogarlo. J’ha risponde che la madre non ha sentito l’appello, mi ha domandato come mai e io ho risposto che avevo tagliato la testa al muezzin e l’avevo gettata nel pozzo. Allora il khadi, anche se tutti sanno che J’ha è stupido, con una pattuglia va a casa di J’ha, con la scala fa scendere uno a cercare la testa e il kadi chiede: “hai trovato la testa?” “sì, l’ho trovata: ha la barba vero? E sapete cos’ha anche? Ha le corna”, e fa salire la testa della capra nell’ilarità generale. E tutti dicono “J’ha ci fai sempre divertire con le tue trovate ingenue!!!”
IL CHIODO DI J’HA [6] (moshmar J’ha)
Un proprietario decide di mettere in affitto la sua casa. J’ha va a vederla e osserva un chiodo nel muro della sala e domanda di poter affittare il chiodo per mettere i suoi panni e chiede il prezzo. Stupito e divertito per la richiesta bizzarra, il proprietario gli fa il prezzo. J’ha appende il burnous e se ne va. Poi, dopo alcuni giorni, J’ha porta un montone morto e lo appende al chiodo. Alle proteste del proprietario, J’ha gli fa osservare che è nel suo diritto e se ne va. Quando il montone è in decomposizione lo chiamano di nuovo ma J’ha rifiuta di toglierlo e così con un gallo e altri animali, fino a quando il proprietario e la sua famiglia, per disperazione, lasciano al casa e J’ha imperturbabile se ne appropria.
J’HA E GLI ABITI SPECIALI [7]
J’ha viene a sapere che vicino alla sua casa si svolge un grande banchetto con invitati molti suoi conoscenti e tutte le autorità, e decide immediatamente di recarsi e partecipare. Quando il maestro della cerimonia lo vede entrare con i suoi panni dimessi e polverosi, fa sedere J’ha in un angolo poco visibile, lontano dal tavolo del governatore, el ouali, e delle persone importanti a cui erano servite con diligenza dei cibi migliori. J’ha allora si alza e torna a casa: si abbiglia con una jebba ricamata e preziosa e con una chechia e torna alla festa. Appena si presenta i cerimonieri lo ossequiano come un grande personaggio e il maestro di cerimonia in persona lo accompagna al tavolo del ouali. Subito gli vengono serviti i piatti più succulenti e raffinati. Senza perdere tempo, J’ha incomincia a immergere la manica della jebba nel couscous e attende. Costernato il ouali gli chiede se è folle a mettere la manica nel cibo. Ma J’ha pronto gli risponde: “non c’è niente di speciale: mi avete accolto grazie a questa jebba e dunque è giusto che sia lei a mangiare”.
Un altro aspetto molto interessante della fortuna del personaggio J’ha nella cultura e nell’immaginario del popolo tunisino, e sicuramente meritevole di un approfondimento, riguarda l’incrocio tra il piano «basso», del racconto e dell’aneddoto popolari orali, e il piano «alto» della letteratura, del racconto scritto, che ci si propone, in un certo senso, come incontro di due anime.
La concezione di vita di J’ha, la sua visione concreta, sia pure un po’ stralunata, e fuori dagli schemi delle norme sociali comunemente accettate riaffiorano nel realismo sornione e ironico del grande Ali Douagi, fine fotografo e narratore della quotidianità tunisina piccolo-borghese e popolare degli anni Venti-Trenta. Spesso calato nei panni dell’io narrante protagonista di storie, aneddoti, sketches, Douagi ci propone un ritratto di sé forse non casualmente simile al mitico J’ha: maldestro e disincantato osservatore e non attore del mondo, con alcuni tratti di the Trump di Charlie Chaplin, Douagi si ritrova involontario protagonista di storie e disavventure ma se la cava sempre, con un dolceamaro lieto fine.
Non stupisce dunque di ritrovare, nel ricchissimo repertorio di situazioni e storie assurdamente quotidiane e reali quale è la rivista «Essourour», diretta e in buona parte redatta da Douagi per la brevissima esperienza dei sei numeri tra settembre e ottobre del 1936, la ripresa di una delle storie di J’ha : nel tono alto della poesia, ma nel genere popolare della malzouma in derja, la lingua tunisina, Douagi, che si firma con lo pseudonimo Abou el Foudoul, sfrutta le sue doti di giocoliere delle parole, dei sottintesi e dei bisticci e rivisita e riorganizza la storia di “J’ha che cerca la fidanzata”, dove il ruolo della madre nella società matriarcale nella scelta della sposa e nell’organizzazione del matrimonio si arricchisce del risvolto autobiografico del rapporto personale tra lo scrittore e la madre.
Riportiamo il testo su Giufà- J’ha nella trascrizione di Contarino 1988 (25-27)
«Giufà doveva sposarsi. La madre e la sorella gli avevano scelto la sposa. Lui, secondo la consuetudine, l’avrebbe vista la sera stessa delle nozze. La sua impazienza era grande e, venuto il momento, lo si fece entrare nella grande stanza dove doveva incontrare l’eletta. La stanza era piena di belle ragazze, una più bella dell’altra. Nei loro visi Giufà cercava quello a lui destinato. Scorse una magnifica bruna dagli occhi neri e disse: – È sicuramente quella…che mia madre sia benedetta per aver scelto una così deliziosa sposa –. Ma, nel momento stesso in cui si avvicinò, la simpatica bruna si coprì con il mantello, si diresse verso la porta e rivolgendosi alla madre di Giufà esclamò: – Arrivederla, gentile signora, che sia felice! – Giufà era molto deluso, ma ben presto posò gli occhi su un’altra ragazza, più bella ancora della precedente. – Non può essere che quella là….conosco i gusti di mia madre. Che Dio la benedica! – Ma anche quella si avvolse nel mantello e rivolgendosi alla madre di Giufà disse: – Arrivederla gentile signora, che sia felice! – Quando tutte andarono via, si ritrovò con una ragazza brutta, senza denti, con il viso marcato dal vaiolo, che si avvicinò a lui ; era la sua promessa sposa. Giufà si alzò, si coprì con il mantello e rivolgendosi alla madre disse: – Arrivederla gentile signora, che sia felice! ».
Nella sua malzouma, Douagi non altera l’impianto della storia e l’effetto comico a sorpresa del finale, ma sposta l’attenzione sui preliminari del matrimonio. Preceduta dalla sentenza moraleggiante «mi han detto sposati e pentiti e chi non si è sposato non ha visto niente di bizzarro», la poesia è un dialogo con la madre cui l’io-poeta affida la ricerca della moglie, e le sue richieste: una ragazza «non ignorante, con la voce non acuta, il viso luminoso la notte come una lampada». Dopo una settimana di ricerca senza risultati e molte offerte a ogni zaouia della città nonché voti a Lella Manoubia, la fanciulla si trova: figlia di buona famiglia di Jendouba, padre agricoltore e commerciante, casa grande con fontana in marmo, e uccellini e un pozzo e un albero di carrube. Il suo nome è Hassina (la bella). Alla richiesta di dettagli sulla ragazza, la madre la descrive in modo allusivo, «occhi belli e capelli neri come la notte, viso raro», giocando sulle interpretazioni dell’ingenuo figlio secondo le attese. I preparativi si susseguono: il regalo per l’Aid (una parure di anello, bracciale e orecchini in oro), un mese a spendere «fino a stancare le sue tasche», la festa per la sera del matrimonio con «musica scelta di cinquanta trombe e danze». Entrato nella stanza il bisticcio si spiega: lo sposo scopre la sua haroussa seduta e abbigliata: «viso rotondo e piatto come un bendir (un tamburo), il collo corto, la carnagione nero sporco come il carbone». Nascosto in un angolo assiste agli arrivi degli invitati che si felicitano con la sposa, e se ne vanno augurando buona serata. Poi, rimasto per ultimo nella sala, si mostra, dice «mia bella Hassina, buona serata e buona notte» e se ne va» [8].
Le storie si potrebbero moltiplicare, le varianti, le interpretazioni e le improvvisazioni fanno parte del gioco, della vena comica e dell’abilità dei narratori. In conclusione di questo excursus tra le due sponde del Mediterraneo attraverso la figura di Giufà, vorrei ribadire l’intento di testimonianza e non di indagine critica, anche se una considerazione provvisoria si affaccia e sollecita gli approfondimenti della ricerca.
Nei suoi spostamenti spazio-temporali, il personaggio di Giufà ha cambiato nome e caratteristiche e si è adattato ai luoghi, ma ha anche mantenuto qualcosa di sé, tra saggezza e ingenuità; giostrando volta a volta tra potenti e miserabili, imperturbabile e armato solo della sua arguzia dialettica, Giufà-J’ha mostra la strada per vivere insieme: anti-eroe perché vincitore ma, nel quotidiano, riesce a cavarsela e a superare le difficoltà, magari in modo goffo o casuale, ma riuscendo talora a mettere in crisi i valori, le norme o le consuetudini che cristallizzano il gruppo o la comunità.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Il progetto “I sentieri della fiaba” vede collaborare l’associazione Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile e l’Enciclopedia Treccani, con l’intento della stessa Enciclopedia di ottenere dall’UNESCO il riconoscimento della Fiaba come Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Allargato a diverse regioni italiane, ora il progetto è arrivato in Sicilia, ma con l’intento di estendersi al bacino del Mediterraneo, appunto attraverso la figura di Giufà, poiché questa figura è presente con varie sfaccettature, nella cultura fiabistica e tradizionale.
[2] I testimoni che hanno aderito alla mia inchiesta sono: Marinette Pendola, Edoardo Migliore, Rita Strazzera, Aldo Maniaci, Mohamed Mezli e Daniel Passalacqua.
[3] Hanno risposto con i loro ricordi: Hichem Haissa, Mounir Jabri, Mohamed Mezli, Jamel Chabbi, Ismail Nacir; negative le risposte al femminile: Aida Bellagha, Dorra Mahjoubi e Saida Ben Zineb.
[4] Per esempio, Joie de lire, manuale del sesto anno delle primarie (12 anni); ma anche il libro Nawedr Jouha El kobra, pubblicato a Beirut dal dr. Derwish Jaouidi e noto in Tunisia.
[5] La storia è ricordata da Hichem Aissa, Jamel Chabbi, Ismail Nacir e Mounir Jabri.
[6] Questa storia presenta alcune varianti nelle modalità in cui J’ha esplica il suo diritto a utilizzare il chiodo.
[7] Si veda anche in Contarino 1988:15-16.
[8] “Essourour”, n.4, 30-9-1936: 7.
Riferimenti bibliografici
CANDIANI Rosy 2019, Dell’identità di Ali Douagi tra marginalità e avanguardia culturale, in “Dialoghi Mediterranei”: 37, maggio 2019.
CONTARINO Angelo 1988, L’ironia nei racconti popolari. Giufà, eroe mediterraneo, ride anche del codice d’onore, “Il Corriere di Tunisi. Supplemento n°3”: Tunisi, Finzi.
CORRAO Francesca Maria 2001, a cura di, le storie di Giufà: Palermo, Sellerio.
PITRÈ Giuseppe 1875, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani: Palermo, Pedone Lauriel.
www.thegiufaproject.com
www.messana.org
www.goccediperle.it/terra-di-sicilia
www.terralab.it
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Rosy Candiani, studiosa del teatro e del melodramma, ha pubblicato lavori su Gluck, Mozart e i loro librettisti, su Goldoni, Verdi, la Scapigliatura, sul teatro sacro e la commedia musicale napoletana. Da anni si dedica inoltre a lavori sui legami culturali tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle affinità e sulle identità peculiari delle forme artistiche performative. I suoi ultimi contributi riguardano i percorsi del mito, della musica e dei concetti di maternità e identità lungo i secoli e lungo le rotte tra la riva Sud del Mediterraneo e l’Occidente.
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