«Il volume della verità, svolto nei paesi e nelle anime della gente, traccia segni: leggili; per farlo bisogna sapersi aprire un varco lungo i crateri della vita, essere capaci di gettarsi nel fuoco, come vi si gettò Empedocle, unendosi alle forze primordiali.
- Lo desideri?-
- Sì-
- Mettiamoci dunque in cammino»
Quando Andrej Belyj e la sua compagna Asja compiono il loro cammino in Italia – avvenuto nel 1910 e condiviso con i lettori circa dieci anni dopo – non sono attratti dall’arte cristallizzata nei musei, né dalla storia di monumenti immobili nei secoli. A spingere i due viaggiatori è il desiderio di leggere in prima persona i segni tracciati dalla storia nei luoghi e nelle anime della gente, nei retaggi della cultura che ancora testimoniano i transiti, i contatti, le conquiste, il sangue mischiato. La loro meta è il mondo siciliano, da indagare per trovarvi le tracce delle collisioni tra Arabi, Normanni e la Grande Bisanzio.
Pagina dopo pagina, la sensazione è quella di partecipare alla esecuzione di un enorme dipinto, o alla composizione di una lunga poesia: tutto ciò che coinvolge i sensi e la mente di Andrej Belyj durante il suo andare, viene comunicato al lettore con maestria. Ogni sfumatura, qualsiasi dettaglio, le impressioni fino alla più profonda; sembra perfino di poter sentire l’alito caldo dello scirocco, il mormorio delle onde nel mare. Si crea col lettore quella vicinanza tale da lasciarsi andare a lunghe e intime riflessioni introspettive destinate a sfociare in un mistico esistenzialismo. Un viaggio verso la verità, depositata in un passato storico e primordiale, nei luoghi che non hanno smania di modernità; una salita fino ai “crateri della vita”, fino a se stessi.
Il treno con cui lasciano Mosca si ferma prima a Venezia: incomparabile, onirica, sdoppiata. Venezia di acqua verde e Venezia di calli strette, una luccicante e l’altra nebbiosa. Venezia come un «tessuto diafano, trapunto dal merletto degli edifici rabescati, annerito nella fuga dei secoli con i suoi palazzi». La prima delle tante personificazioni vede Venezia come un marinaio che guarda all’Oriente, anzi, agli orienti, a quel sogno che brilla fiero sulla cupola di San Marco, anch’egli levantino.
Napoli è la seconda tappa del viaggio; ma agli occhi di Belyj – che ammette di non essersi soffermato abbastanza da vederne la profondità – la città del Vesuvio non appare come l’aveva immaginata dagli straordinari racconti di Goethe. Napoli è un pagliaccio che rivolge il suo grande naso verso il mare e ha il volto macchiato da un grande esantema. Ma cos’ha da dire a Belyj questo strano interlocutore? La sua faccia è una visione così sconcertante che gli impedisce di vedere oltre.
Finalmente arrivati a destinazione, alla terra di Empedocle, alla chiave di tutto, ogni senso avverte il contrasto tra il nord e il sud d’Europa: le tinte sono forti, il respiro dell’Africa soffia caldo, i canti dei contadini sono lenti, monotoni come nenie e lamenti di nostalgia. In questo abisso d’Africa, sono proprio gli arabi, o saraceni, a rimpiangere la propria terra, lasciata a partire dal IX secolo.
Palermo è popolata da «arabi travestiti da europei». È subito chiaro, infatti, come la gente in città voglia ostentare la propria superiorità e raffinatezza, quella fiera e convinta “europeità” che non riconosce nessun’altra identità né provenienza. Questo atteggiamento ostacola e offusca l’indagine sulla cultura siciliana che Belyj vuole compiere. Gli risulta intollerabile quella mancanza di stile frutto di un’accozzaglia di stili diversi, quel dandismo ansioso di apparire e far parlare di sé, quello strillare assordante di suoni e colori.
Monreale passa definitivamente in primo piano tra tutte le tappe e marca una fase importante nell’esperienza sensibile e intellettuale dei due viaggiatori: le annotazioni si fanno fitte di descrizioni sulla natura selvaggia e padrona in ogni angolo, della popolazione rada e autentica, senza maschere, senza falsi miti. Monreale gialla e rocciosa, Monreale dei mosaici, Monreale del duomo lucente. L’edificio di stile normanno, con le torrette che ricordano i minareti di Tunisi e la cappella barocca, dimostrano alla chiassosa Palermo come stili diversi possano coesistere in armonia.
Belyj contempla rapito ogni tassello del mosaico che disegna il celeberrimo altare; ogni fascio di luce è fonte di ispirazione e dà vita a riflessioni e interrogativi spirituali, oltre che a giochi fonico- semantici, interi paragrafi di simbologia universale ma anche di intima meditazione. L’effetto destato sullo scrittore dal mosaico siciliano fa luce sulla totalità dei suoi pensieri, dal più superficiale fino a quello che si fa fatica ad affrontare, persino a comprendere.
Da Venezia a Palermo. Note di viaggio (Castelvecchi editore, 2015) appartiene all’ampia e prolifica categoria della letteratura odeporica del ’900. Il viaggio – inteso come spostamento, cammino, confronto, prova, sfida, arricchimento – ha sempre fatto parte dell’esistenza umana come esperienza fisica e intellettuale. Che fosse per necessità, ricerca o semplice desiderio personale, scoperta (geografica, storica, culturale), l’uomo ha attraversato e attraversa mari, strade, itinerari che implicano rischi ma anche epifanie, rivelazioni, ritrovamenti, ricominciamenti. Uomini che varcano frontiere e incontrano altri uomini, altre storie, altre vite e scoprono l’alterità ma anche la fraternità, il comune destino. Ogni viaggio è una storia, ogni narrazione è una scoperta. Per questo – dice bene Magris – «la meta del viaggio, di tutti i viaggi, sono gli uomini».
La letteratura odeporica conta – come è noto – moltissime pagine di viaggiatori, esploratori e avventurieri, nomadi e pellegrini, artisti, geografi, diplomatici, commercianti, ma anche prigionieri di guerra o appassionati giramondo, che, approdati in Sicilia, hanno scritto dell’Isola e sull’Isola. Nel tempo, lo stile e l’argomentazione sono stati influenzati dai periodi storici, così da dare vita a generi diversi, dall’intimo diario di viaggio agli esotici e spesso fittizi romanzi d’avventura, ai racconti del Grand Tour alle annotazioni sparse su usi e costumi. Molti gli equivoci, le suggestioni, le oleografie, le impressioni sentimentali e intellettuali, quel lussureggiante repertorio di simboli prodotti da quella inesauribile fabbrica dei miti che è la Sicilia. Non pochi, nel loro andare pellegrini per le campagne, sono rimasti affascinati dalle stesse nenie zufolate dai contadini siciliani che Belyj ode incantato, giunto in quell’abisso d’Africa.
Le note di viaggio di Belyj, pubblicate a cura di Giacoma Strano, autrice di una densa introduzione, si iscrivono nel contesto letterario odeporico del tardo romanticismo. Il viaggiatore-narratore, uno dei più grandi letterati russi a cavallo fra Ottocento e Novecento, lascia per la prima volta Mosca, che «rischia di diventare una bara». Intraprende il suo viaggio per evadere, per scappare dalla noia e dalle angosce che lo affliggono quotidianamente e per giungere a delle verità. Cerca la verità viaggiando, e mentre viaggia racconta, riflette, s’interroga su qualsiasi cosa gli accada, affronta abissi e tenebre. La Sicilia è il luogo della bellezza e il viaggio è sinonimo di apprendimento, di iniziazione, di arricchimento spirituale.
È un viaggio dalle molteplici forme: un percorso dentro di sé, dal suo passato verso un futuro ignoto; un pellegrinaggio tra le pagine di Maupassant e Goethe, tra i loro racconti che finalmente si fanno concreti davanti ai suoi occhi; un cammino che ha come tappe le risposte alle sue domande esistenziali. Lo sguardo ritrova quanto aveva studiato, quanto aveva immaginato: musica, arte, letteratura, un’affinità elettiva e una corrispondenza di echi culturali.
Un convinto peregrinare che si conclude in maniera quasi dantesca. Il finale è estatico, è un’attesa catarsi: «Abbiamo visto le fronde dell’Eden, entrando nel duomo di Monreale».
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
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Fabrizia Vazzana, turcologa, turcofona e appassionata viaggiatrice, giovane laureata in Lingue, culture e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia , con una tesi di laurea dal titolo Poesia di strada, strade di poesia (raccolta inedita di poesie turche tradotte in lingua italiana), s’interessa da vicino alle tematiche riguardanti la penisola anatolica, da quando vi si è recata per progetti di volontariato internazionale (SVE).
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