CIP
di Claudio Rosati
Alla Casa Museo Sigfrido Bartolini, a Pistoia, si suona il campanello incastonato in una traghetta di ottone, si apre un cancello, si sale una piccola rampa di scale e finalmente, passata una porta, si entra in casa, incoraggiati, ma anche intimiditi, da gesti quotidiani. Ci accoglie la signora Pina, vedova dell’artista, che vive ancora nella casa con i mobili disegnati e spesso realizzati da Sigfrido. Alle pareti i grandi disegni per le vetrate realizzate nella vicina chiesa dell’Immacolata. E poi i gessi, il torchio per le litografie, i colori e gli strumenti, altre opere di amati maestri. È, forse, un caso limite nel panorama delle case museo, ma la domesticità di alcuni tratti del luogo, a partire, soprattutto dall’ingresso, segnala un’altra delle possibili differenze con il museo. «Il piccolo Dio della soglia», lo chiama Gaston Bachelard per marcare quella distinzione tra esterno ed interno che segna il reale con la stessa assolutezza di un sì e di un no [1].
Quando varco la soglia di casa Bartolini sono più un ospite che un visitatore. La signora Pina mi accoglie in salotto prima di passare alla scoperta di stanza per stanza. Ugualmente può succedere a Casa Barrett Browning, a Firenze, ma in qualche modo anche al Museo della figurina di gesso a Coreglia Antelminelli. Non si tratta di una casa-museo, ma la forma della casa, che ospita la raccolta, ha forse contenuto se non inibito la postura della biglietteria con quella rigidità che ancora una volta segnala e rafforza la separazione di dentro e fuori.
Nella casa studio di Jorio Vivarelli, nella prima collina pistoiese, subito dopo la porta si è accolti da un grande camino che ancora oggi viene acceso come ai tempi del maestro quando si mettevano ad abbrustolire fette di pane come colazione con gli assistenti di laboratorio. Segni. A Caprese Michelangelo le tracce della casa natale dell’artista si perdono nella complessa articolazione della architettura. Un’aura di domesticità si trova nella targa che ricorda la persona che per più di trenta anni ha fatto da volontario il custode e la guida della casa.
Il documentario che di recente Celine Sciamma ha presentato sulla casa di Patrizia Cavalli, dopo la morte della poeta, rivela la strategia dell’esercizio quotidiano di un’esistenza attraverso oggetti che si fanno cose [2]. Non più abitata da un anno, la cineasta è arrivata alla soglia della morte della casa con il trasloco di tutto quello che conteneva.
Nella casa museo la porta si giustappone alla porta automatica, espressione di un’accessibilità che ci ha fatto soprattutto consumatori disinibiti (sembra che la prima installazione sia stata nella libreria Feltrinelli, a Pisa). La porta, quella con la serratura, che si apre, può manifestare un gesto di attenzione e di possibile dialogo. L’ingresso non ha, se non altro, l’anonimato o la stereotipia di quello in un grande museo. Anche se non tutte le case, più precisamente dovremmo dire tutti i casi, sono uguali.
Carlo Mollino non solo non ha mai abitato la casa a Torino sulla riva del Po, che oggi visitiamo in gruppi al massimo di 5 persone, ma non l’aveva neanche mai fatta vedere ad alcun amico. Una casa, quindi, come la collezione chiusa in una stanza del Cugino Pons di Balzac. Il cartello “Il museo è qui”, affisso al portone del “Guatelli”, in fondo, non fa che rispondere alla perentorietà della porta. Ancor più l’ironico “È qui”, posto da Pablo Picasso a un suo atelier [3]. Differenze, a parte, che dovrebbero comunque essere fatte proprie dal progetto museologico, la casa che si fa museo ha in sé e dovrebbe esplicitare la cifra di accoglienza domestica promessa dalla porta.
Qualcosa di simile succede al Museo di Casa di Zela, nella campagna di Quarrata (Pistoia). La porta di ingresso è piccola perché come in tutte le case coloniche doveva proteggere dal freddo e dal caldo. Su uno stipite in pietra è inciso un teschio. Pare che l’autore sia stato un giovane operaio stagionale proveniente dall’Appennino.
Di impianto cinquecentesco, ampiamente trasformato, la casa è stata abitata da dodici persone fino alla fine della mezzadria negli anni ’60 del Novecento. Nella Toscana che ha cancellato massicciamente la memoria della mezzadria, nella campagna tecnologizzata e ricca dei vivai di piante, la casa è oggi un documento raro dell’architettura colonica che ha segnato il paesaggio. Sulle ragioni della cancellazione memoriale e il significato che oggi possono avere questi relitti, è utile leggere il brano della testimonianza orale di Renzo Bartoli (Mercatale Val di Pesa):
Si viveva ma non era vita (…) Si mangiava e basta.
Era triste, ehh esse’ contadini, ‘un ci crede? In special modo esse’ mezzadro, essere a mezzadria (…) perché nessuno aveva più la libertà personale di fare quello che il suo istinto gli diceva, che so. Io, per esempio, andavo a lavorare, cominciai a andare a lavorare, ‘i padrone dice “è ma se lui va a lavorare vi mando via”, ‘apito?. Che so, mio fratello aveva la passione di andare a caccia, dice “se lui prende ‘i porto d’armi, io vi mando via”. (…). La mezzadria era triste e io te lo posso dire. Era impossibile vivere, non che non fosse bello, perché lavorare in campagna, lavorare all’aperto era bello, ma era triste, era triste la condizione [4].
All’interno di Casa di Zela è esposta una raccolta demoetnoantropologica, con ricostruzioni di ambiente, quando è possibile (la cucina, le camere), che si ispirano, secondo Ernesto Franchi, il collezionista, all’opera di Ettore Guatelli. Dall’incontro con la casa di Ozzano Taro e la frequentazione di Ettore, Franchi ha acquisito una consapevolezza diversa del valore della raccolta iniziata quando era poco più che un ragazzo. L’ha orientata, in modo particolare, verso gli oggetti di riciclo e di riuso.
Gli oggetti esposti hanno una pertinenza con la casa con la quale formano un unicum. Si tratta di una collezione aperta a ulteriori ingressi che spesso vengono discussi con gli ospiti. Si è andato affinando negli anni uno stile di visita che pone al centro non il visitatore, come a volte si dice, ma la relazione tra il visitatore e l’oggetto che diventa così un dispositivo relazionale. A Casa di Zela si è sempre accolti e accompagnati. Ogni incontro è diverso dai precedenti perché può avvalersi di quello che è stato lasciato prima: informazioni, ricordi, emozioni. Passata la porta, è subito museo e subito casa. Qui iniziano il dialogo e il processo di arricchimento di senso delle cose.
Spesso si hanno forme di restituzione che vengono discusse e decise dai volontari, professionisti e non, che animano il luogo. In genere si tratta di narrazioni drammatizzate o esposizioni che richiedono anche un anno di preparazione. Il diario di un contadino prigioniero degli austriaci nella Prima guerra mondiale ha prodotto una mostra sulle scritture al fronte con pezzi tratti dalla collezione e dagli archivi familiari. Il diario è stato portato dai familiari che hanno riconosciuto in Casa di Zela un deposito di memorie della comunità.
Una bicicletta da ragazzo, abbandonata in una cantina, dopo un incidente stradale, ha fatto esplorare la dimensione della passione territoriale del ciclismo; la tomba di un soldato tedesco che aveva voluto, in caso di morte, essere sepolto in Italia come il padre caduto nella Prima guerra mondiale, ha spinto a ricostruire una storia di solidarietà umana e di conflitti istituzionali. Una visitatrice tedesca, professoressa di storia, si è resa disponibile a svolgere ricerche di archivio in Germania per chiarire alcuni aspetti della storia. E così ha fatto. Un quaderno di esercitazioni musicali del giovane Luigi Berlinguer, facente parte della collezione, ha portato al museo l’ex ministro della pubblica istruzione a parlare del rapporto tra musica e democrazia.
Si può dire che l’accumulo degli oggetti e il contesto della casa funzionino come quadri per l’azione, alla Bateson. La collezione è quindi, letteralmente, un pre testo per un racconto che si scrive ogni volta con le persone che entrano nel circolo di una narrazione in corso. La casa ha così performato la stessa postura dei volontari che vivono lo spazio in un dialogo continuo tra memorie personali e nuove esperienze. E allo stesso tempo danno vita a un luogo ibridato che non è solo casa e non solo museo. È un tentativo, di fatto, di accogliere il visitatore come un ospite su un piano che vuol essere di reciprocità.
La museografia contemporanea ha privilegiato nella rimodellazione di musei o nella progettazione di nuovi, la trasparenza con grandi pareti di cristallo. Il vecchio museo-tempio, diventato forum, ha cercato di aprirsi anche nella sua essenza materiale. La porta, nella casa museo, sembrerebbe, invece, andare contro questa predisposizione, ma se si significa, con intenzionalità, come attributo della casa, può sollecitare un riposizionamento dell’esperienza di visita in un incontro tra abitanti fissi e temporanei.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo Libri, 1975 (1957 1° edizione).
[2] C. Sciamma, This i how a child becomes a poet, 2023.
[3] B. Benkemoun, In cerca di Dora Maar, Milano, Skira, 2023 (2019 1° edizione): 75.
[4] A. Fanelli, A Casa del Popolo, Roma, Donzelli Editore, 2014: 141.
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Claudio Rosati, storico e museologo è autore di musei e saggista. Ha progettato, tra altri, anche in collaborazione, il Museo di San Salvatore, il Museo dell’Ospedale del Ceppo, il Museo della Gente dell’Appennino Pistoiese. Ha partecipato al progetto di riallestimento del Museo della Ceramica a Montelupo ed è autore del progetto del Museo del Ciclismo in occasione dei Mondiali del 2013. Ha partecipato, come consulente, al progetto del Museo delle Deportazioni a Firenze e al Museo Ferrucciano di Gavinana. È socio fondatore e componente del comitato scientifico della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici. Come docente a contratto ha insegnato in corsi universitari a Firenze e Pisa. Ha presieduto il collegio dei probiviri di Icom Italia e ha diretto il settore musei della Regione Toscana. È autore, tra altri, di Amico museo. Per una museologia dell’accoglienza (2015) e di Musei in Toscana. Dentro e fuori la cornice (2022).
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