di Cinzia Costa
Un giorno di qualche mese fa, nell’aria sorniona di una domenica mattina, sorseggiando la mia tazzina di caffè poco zuccherato, assorbivo soddisfatta il calore dei raggi solari, affacciata al balcone della casa che fu di mia nonna e che adesso appartiene alla mia famiglia. Assorta in uno stato di contemplazione dell’aria frizzantina, immune ai rumori delle auto dietro la curva o degli stereo boccheggianti musica per lo più neomelodica, venni ad un certo punto distratta da alcune voci prima e da un piccolo gruppo di persone poi, che, seguendo una giovane ragazza, si addentravano nel cortile del condominio, ascoltavano l’esposizione della giovane e scattavano fotografie guardandosi intorno, con un’aria tra l’incuriosito e lo stupefatto.
Colpita dalla insolita situazione, tesi subito l’orecchio per cercare di carpire il carpibile, dalla distanza di un terzo piano, alto però non meno di 10-12 metri rispetto al piano della strada. La ragazza stava presentando gli edifici del condominio come particolari esempi di edilizia popolare, illustrando la composizione esterna dei cortili e quella interna delle palazzine. Una breve sosta di qualche minuto per guardarsi intorno, per poi continuare la passeggiata (turistica?) alla scoperta di chissà quale altro palazzo o monumento.
La velocità con cui mi trovai ad assistere alla scena non mi consentì di scendere giù per le scale per correre a fare qualche domanda alla presunta guida. Prima di tutto, era davvero una guida? E se sì, cosa stava illustrando? Stava conducendo una passeggiata tematica alla scoperta della città? E allora qual era il tema? Ma soprattutto, perché il condominio di via Vito d’Ondes Reggio 8/a, conosciuto anche come le “case dei ferrovieri”, era una tappa di quel percorso?
Un senso di eccitazione mi portò subito a pensare che forse c’era davvero qualcosa di particolare in quel posto e a rimproverarmi di non averlo mai capito. E in effetti a guardarsi intorno qualcosa di speciale doveva proprio esserci osservando lo stile decorativo delle palazzine: cornici color giallo e ruggine sui prospetti, terrazzini con pilastri sormontati da finti capitelli, ampi cortili e lo stesso disegno in cima a sormontare le palazzine (una ruota con delle ali). Accorgersi che il luogo che avevo frequentato per quasi trent’anni e che aveva accolto per decenni la storia di una parte della mia famiglia non era un condominio come tutti gli altri mi stupì, se non altro perché non ci avevo mai fatto caso. Scoprire l’eccezionalità di un posto per me così familiare, così ordinario nei miei ricordi d’infanzia, mi esaltò e cominciai ad inviare messaggi a parenti e amici, che tante volte erano stati lì come me, per scoprire se avessero mai immaginato quell’unicità o se in effetti, ne sapessero qualcosa. Tabula rasa, se non qualche vago ricordo di mia madre, che riguardava piuttosto la conformazione del quartiere Filiciuzza negli anni 60 e 70, le botteghe, i vicini di casa, ma nulla che spiegasse la particolarità delle costruzioni.
E così ho dato il via ad una piccola ricerca, inizialmente con i primi mezzi a mia disposizione: internet e il mio smartphone. Digitando “case ferrovieri d’ondes reggio”, un articolo di Mario Pintagro pubblicato su repubblica.it il 9 gennaio 2009 giungeva in mio soccorso, rispondendo già ad alcune domande. Il titolo recitava così: Le case dei ferrovieri nate un secolo fa in via Pisacane un angolo d’Inghilterra.
«Si tratta di due isolati, uno con ingresso in via Pisacane, l’altro in via D’ Ondes Reggio, proprio a ridosso della scuola elementare Francesco Paolo Perez. Per essere case destinate ai ferrovieri sono quasi un oggetto di culto. Tre piani, più uno rialzato, persiane verdi, prospetti bianchi e beige scanditi da linee rosse. In cima, poco sotto il tetto a due falde, la ruota con le ali, il logo dei ferrovieri di inizio secolo» [1].
La descrizione continuava con un accenno alla conformazione interna agli appartamenti: soffitti alti 4 metri, spazi ampi e luminosi, balconi e piccoli terrazzi «oggi spesso chiusi da antiestetiche verande in alluminio» e bagni subito adiacenti all’ingresso. Tutto corrispondeva. Andando avanti, l’articolo riportava le frasi di alcuni inquilini intervistati dal giornalista, che elogiavano la robustezza della struttura delle case, resistenti a tutte le intemperie. Uno degli intervistati rivelava inoltre a Pintagro che, contrariamente al senso comune o piuttosto alle classiche leggende metropolitane, le case non erano state costruite durante il ventennio fascista, ma precedentemente su progetto dell’ingegnere Giuseppe Di Giovanni [2].
Queste prime informazioni mi diedero materiale per approfondire la ricerca, e in breve tempo riuscii a reperire il testo La casa a Palermo. Cinquant’anni di edilizia residenziale pubblica di Silvia Pennisi, nel quale si menzionava e si approfondiva il caso delle case dei ferrovieri a Palermo. Da una veloce lettura scopro che le case dei ferrovieri rientrano negli interventi varati dalla Legge n. 132 del 1907 per l’unificazione degli istituti di previdenza del personale delle ferrovie dello Stato. Le costruzioni palermitane non costituiscono il primo esempio di edilizia popolare in Italia: nei primissimi anni del Novecento si erano conclusi infatti i lavori di costruzione delle case operaie su commissione della Società Umanitaria a Milano e di dieci lotti di edilizia residenziale destinati alla piccola borghesia impiegatizia del quartiere San Saba a Roma. Ciononostante l’esperienza dell’ingegnere Di Giovanni a Palermo si configura come una rarità citata nei libri di urbanistica, soprattutto per il modello architettonico che il progettista seguì.
In ambito internazionale la rivoluzione industriale del secolo precedente e la conseguente nascita della classe operaia avevano condotto a complessi fenomeni di espansione urbana che andavano in qualche modo regolamentati; ma mentre nel contesto europeo queste trasformazioni avevano portato alla diffusione del modello della città operaia, destinata ad accogliere i nuclei familiari dei proletari in grossi contesti abitativi generalmente prossimi alle fabbriche e del tutto indipendenti rispetto ai centri delle metropoli, in Italia questo tipo di interventi tardò ad arrivare a causa della tarda diffusione del comparto industriale, a differenza di quello che avvenne in Inghilterra [3], Germania e Francia. Il dibattito sullo scopo e la tipologia di costruzioni era oltralpe infatti particolarmente vivo e promosse la diffusione della città operaia come ideale democratico, che offrisse anche alle classi subalterne alla borghesia uno standard di vita dignitoso. In questo senso l’edilizia popolare ha una funzione centrale nel dibattito sul ruolo dell’architettura all’interno della società.
«In alcuni casi le esigenze sociali pressanti ed i dibattiti riguardo la funzione dell’architettura e l’approccio degli architetti al progetto ed alla costruzione di abitazioni spingono verso tendenze talvolta estreme, “ciò che non è pratico non può essere bello” scrive Otto Wagner nel 1885 e vedono gli architetti come costruttori di una società più giusta» (Pennisi, 2004:14).
In questa prospettiva l’edilizia popolare costituiva l’occasione per dare un reale contributo allo “sviluppo” della società educando le masse, progettando delle città, e dunque un mondo, a misura d’uomo e facendo in modo che i progetti dei grandi architetti non fossero più solo destinati alla porzione borghese della società, ma a tutti. Per di più l’architettura, settore a cavallo tra le scienze umane e quelle tecniche, si prestava molto bene ad assecondare l’utopia socialista, che molti seguaci aveva in quegli anni nei diversi Paesi del continente europeo.
Questo connubio tra architettura e modello socialista ha portato a diversi risultati in tutta Europa, come alcuni tra i più celebri esempi di edilizia proletaria, fra tutti i Gemeindebauten (edifici comunali) della Vienna rossa [4], tra cui il Karl-Marx-Hof, conosciuto anche come luogo in cui alcuni viennesi opposero resistenza agli austrofascisti durante la guerra civile austriaca nel 1934. I Gemeindebauten, realizzati per lo più da architetti allievi del su menzionato Otto Wagner, erano edifici mastodontici, edificati in blocchi unici di centinaia (o anche migliaia) di metri quadri, in cui gli spazi privati destinati alle unità familiari erano molto ridotti, in favore invece di spazi comuni e servizi, come la lavanderia, la farmacia, l’esercizio alimentare etc. posizionati tutti all’interno dell’edificio stesso.
Questo tipo di edilizia ebbe molti seguaci nel tempo e portò negli anni a seguire alla progettazione di edifici molto discussi nel dibattito sull’architettura urbanistica, come la Unité d’Habitation, nota anche come Citè radieus perché è esposta al sole su tutte le facciate, progettata da Le Corbusier e realizzata tra il 1947 e il 1952 a Marsiglia, molto discussa ancora oggi.
Prima che questo modello di edilizia operaia e popolare diventasse uno standard europeo e italiano e prima, soprattutto, che gli interventi statali e pubblici di edilizia residenziale destinati alle fasce meno abbienti si diffondessero come prassi ordinaria di pianificazione urbanistica, in Italia esisteva principalmente un altro tipo di edilizia residenziale, destinata e spesso anche commissionata prioritariamente dalla borghesia, che, all’alba del Novecento, lontana dal vortice dello sviluppo industriale di fabbriche e della massificazione delle produzioni, durante il periodo della Belle Époque promuoveva la diffusione delle arti e delle maestranze in un clima di grande fiducia per il futuro prossimo della collettività.
La Sicilia, con il contributo di alcune famiglie di grandi mecenati, fu protagonista di questo periodo storico. Florio, Whitaker, Ducrot, furono solo alcuni tra i promotori di una rivoluzione economica e culturale che portò alla fioritura di attività come la tonnara Florio o l’atelier artigianale di produzione di mobili Ducrot [5] e alla costruzione di numerosissime abitazioni in stile liberty, generalmente ville o costruzioni unifamiliari di cui oggi rimangono a Palermo poche tracce superstiti del “sacco di Palermo”. L’estetica delle costruzioni commissionate o edificate all’interno di questo movimento culturale era allora estremamente ricercata, lo stile floreale addobbava interni ed esterni, l’esposizione alla luce delle abitazioni e le aree verdi circostanti erano particolarmente curate. Le “case del popolo” sorgevano invece in modo pressoché spontaneo, in fabbricati ad un solo livello la cui conformazione interna ed esterna rispondeva solo ad esigenze funzionali e non estetiche.
L’edilizia residenziale ha acquisito nel senso comune una accezione che si distacca parzialmente dall’etimologia originale del termine “residenziale” (destinato all’insediamento abitativo), finendo per indicare un tipo di abitazioni formalmente eleganti, economicamente dispendiose e quindi destinate alle classi abbienti. Edilizia residenziale e popolare hanno dunque storicamente camminato su binari paralleli, distinguendo saldamente le case delle classi ricche da quelle delle classi povere e medie. Il vezzo del bello e della moda decorativa non sono mai appartenuti alle classi subalterne, e l’architettura ha per secoli assecondato questo tipo di pensiero anche quando le scienze architettoniche si sono dichiarate socialmente militanti [6].
L’aspetto insolito ed eccezionale del condominio di via D’Ondes Reggio 8/A, insieme a quello di via Carlo Pisacane, nell’isolato adiacente, cioè le case dei ferrovieri del quartiere Filiciuzza, consiste nel fatto che rappresenta al contempo un esempio di edilizia popolare e residenziale, nell’accezione più comune. L’ingegnere Di Giovanni realizzò delle abitazioni economiche, destinate ad una classe di lavoratori, i ferrovieri, che certamente all’inizio del Novecento potevano definirsi privilegiati, ma non ricchi.
«‟Di Giovanni è probabilmente il primo a introdurre il modernismo nel ramo dell’edilizia economica”. Negli edifici di via Perez Di Giovanni traduce “[…] così coerentemente, in soluzioni per l’edilizia popolare i principi estetici del modernismo, da ripeterne, ambiguamente l’ottimistica illusione della possibilità di una estensione democratica della qualità della vita”» (Pirrone, 1991, cit. in Pennisi, 2004: 18).
L’ambizioso architetto ispirava infatti il suo lavoro a quello di Ebenezer Howard, urbanista inglese, suo contemporaneo che ideò il movimento della città giardino. L’architetto inglese, trovandosi a dover fronteggiare l’espansione sregolata di una Londra in piena rivoluzione industriale, ideò uno spazio che accogliesse in sé i benefici della vita di città e della vita di campagna, lasciandone fuori tutti gli svantaggi. Le città giardino, libere dai sobborghi e dagli slum suburbani, dovevano combinare natura ed edifici, offrendo alle persone la possibilità di apprezzare la pacatezza e la libertà di movimento del verde, senza però essere isolati o troppo distanti dai luoghi di lavoro e potendo usufruire di tutti i servizi primari e secondari che la città offre. La progettazione doveva tenere conto della vita umana a 360°, rispettando tutte le esigenze dell’individuo. L’urbanista racchiuse questi principi in uno dei più noti testi del movimento dell’utopia urbanistica: To-morrow a peaceful Path to Real Reform del 1898, edito poi nel 1902 con il titolo Garden Cities of Tomorrow.
Come sintetizza bene il primo titolo dell’opera, il movimento urbanistico di Howard, e dunque anche di Di Giovanni suo seguace, si ispirava ad un’idea riformata di società da raggiungere attraverso un percorso pacifico. Una volta realizzata, questo tipo di società avrebbe cancellato le ineguaglianze alzando di molto la qualità della vita dei cittadini. La fiducia in un futuro raggiante, spinta da un reale sentimento di filantropia caratterizzava i primi anni del Novecento, che non avevano ancora visto la brutalità delle Guerre mondiali e della Grande Depressione [7].
L’ingegnere e architetto Di Giovanni, formatosi su salde radici palermitane (fu allievo di Giovanni Battista Basile) ma con una visione ampiamente mitteleuropea, immaginò di poter realizzare una piccola utopia palermitana offrendo alla classe media dei ferrovieri uno spazio abitativo economico, ma dalle elevate qualità estetiche e residenziali: soffitti alti, stanze ampie, cortili spaziosi. Come tutti i testi consultati confermano il progetto iniziale prevedeva dei giardini negli ampi cortili interni, oggi adibiti a parcheggio. I giardini non vennero mai realizzati, ma ogni condominio aveva due grandi cancelli in stile liberty, che sono stati poi sostituiti da cancelli ad apertura automatica, presenti ancora oggi.
Di Giovanni, che mise in atto le idee di Howard in modo estremamente precoce, aveva dunque immaginato un luogo, uno spazio di vita da riempire. Il ruolo degli architetti, come sottolinea Franco La Cecla nel suo testo Contro l’architettura, è infatti quello di immaginare luoghi senza immaginare le persone li abiteranno. L’architettura presume di inventare il presente e pretende di esaurirlo (La Cecla, 2008:13). È questo ciò che distingue l’architettura dalla narrazione e dall’antropologia, e, a suo dire, è anche questo che l’ha portato, dopo gli studi di architettura a stretto contatto con Renzo Piano, a diventare uno scrittore, un antropologo, ma non un architetto. Ciò che fa l’antropologia è infatti osservare le persone e il modo che hanno di occupare, abitare i luoghi; quello che in un altro testo egli stesso avrebbe poi definito la capacità tutta umana di fare mente locale. Ad una architettura cinica e sterile La Cecla oppone dunque un sapere etnografico, sociale e umano, che si realizza non per le persone ma a partire da e con esse. In sostanza, con poche parole sintetiche ma molto precise La Cecla afferma: «la questione è che l’architettura non sa nulla di quell’essenza prioritariamente narrativa di cui gli spazi sono fatti» (La Cecla, 2008:12).
Parafrasando alcuni passaggi di Perché non sono diventato architetto, un saggio di Orhan Pamuk che considera quasi epifanico, l’antropologo palermitano spiega la sua rinuncia all’architettura.
«Lo scrittore [Pamuk] si trovava di fronte a stanze abitate da bambini che guardavano la tele distesi su vecchi divani, da anziani che leggevano il giornale in cucina […]. La vita di tutti i giorni che consuma e riempie stanze concepite per altre storie e altre vite, […] le abitudini, i fumi e i rumori di cucina, gli odori di biancheria e di stiratura. […] Se fosse davvero entrato nella fucina degli architetti avrebbe disegnato, progettato , pianificato, ma non avrebbe avuto a che fare con questa realtà, bensì con qualcosa di lontano, astratto e contrario alla dimensione quotidiana stanbuliota. Avrebbe progettato condomini, alloggi in blocchi multipiani […], ma gli sarebbe stato impossibile avere a che fare con le vere case. Perché le case sono il risultato della rielaborazione confusa, frammentaria, approssimativa dell’abitare».
Per quanto possa sostanzialmente concordare con La Cecla, non si può certo negare che nella maggior parte dei casi l’ambizione tutta architettonica di “presumere spazi” e di inventare un futuro diverso sia stata mossa dalle migliori intenzioni. Gli architetti hanno, giustamente, sentito forte la responsabilità sociale di creare luoghi, salvo però immaginare un futuro, che non appena diventa presente si distacca molto dalle premesse progettuali [8] e dal quale si lavano poi le mani, sollevandosi dalle evoluzioni sociologiche che i loro palazzi, condomini, giardini etc. hanno prodotto [9].
Alla luce di queste ricerche e riflessioni, e anche delle vicissitudini del ramo materno della mia famiglia, la possibilità di indagare la storia progettuale e l’origine del luogo in cui mi trovo, e di poterne oggi osservare gli esiti e la «rielaborazione confusa, frammentaria, approssimativa dell’abitare» è un’occasione che la mia lente d’osservazione etnografica non può farsi scappare [10].
Uno dei miei bisnonni materni, il nonno Ciccio, originario di Alcamo nella provincia di Trapani, rimasto invalido ad una mano dopo la prima guerra mondiale, durante la quale era stato prigioniero in Africa, una volta tornato dal fronte riuscì ad ottenere un posto di lavoro alle Ferrovie dello Stato a Palermo. Mia nonna Sasà era la più grande di cinque figli e, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta del Novecento, tutta la sua famiglia si trasferì in una delle case del condominio di via D’Ondes Reggio 8/A, che era stata assegnata al nonno Ciccio, e dove i bisnonni abitarono fino alla fine degli anni Ottanta. Mia madre racconta ancora oggi le festività passate dentro quella piccola casa al piano rialzato, i pomeriggi trascorsi in cortile a giocare con i bambini del vicinato (molti dei quali ancora oggi abitano lì), le passeggiate in giro per il quartiere Filiciuzza a comprare il gelato insieme ai suoi fratelli e al nonno, o la visione dei film all’Arena Tukory, oggi scomparsa. Una volta sposata la nonna Sasà si trasferì in un’altra casa, sempre nello stesso quartiere, nella poco distante via del Vespro, dove mia madre ed i miei zii sono nati e cresciuti. Quando nel 1986 la nonna Sasà rimase vedova decise di trasferirsi e di acquistare un’altra casa, un po’ più grande, di fronte a quella dove era cresciuta. Oggi, dopo ottant’anni e tre generazioni, la mia famiglia è ancora coinvolta nella vita condominiale e a breve dovremmo anche trasferirci lì.
Le case un tempo assegnate ai ferrovieri sono state nel corso degli anni riscattate: in alcuni casi sono state ereditate dai figli, e in molti altri vendute. Gli inquilini che oggi abitano le palazzine sono più che mai variegati: anziane signore, famiglie con bambini, studenti universitari fuorisede, migranti di origine africana e asiatica. Nel tardo pomeriggio un forte odore di curry si innalza fino al terzo piano, e un grosso cane, Cortes, accudito da tutto il vicinato, ti corre incontro a salutarti tutte le volte che torni a casa. La musica neomelodica insieme ai canti religiosi e alle sirene delle ambulanze risuonano instancabilmente nei lunghi pomeriggi. Le signore si parlano dalle finestre e dai balconi. Un ragazzo che abitava lì fino ad alcuni anni fa mi ha raccontato che fino agli anni Ottanta il cancello d’ingresso restava sempre aperto, notte e dì. Dalla finestra di una delle stanze da letto di casa mia si vede una moschea e la gente passa per la strada con i sacchetti della spesa pieni di frutta fresca comprata a due passi da casa, a Ballarò. Qualche tempo fa ho sentito un uomo dal forte accento palermitano chiacchierare con una signora, chiedendole se il giorno dopo avrebbe iniziato il Ramadan, come se fosse una routine familiare anche per lui.
La vita di condominio nel centro di una metropoli non è di certo una passeggiata [11]: i vicini si parlano poco e la convivenza genera spesso insofferenza, per non parlare del problema dei parcheggi. Ma per me con un leggero profumo di curry sullo sfondo è decisamente più sopportabile. Probabilmente non era questa l’idea di utopia democratica che Di Giovanni aveva in mente quando più di un secolo fa, nel 1911, progettò le case dei ferrovieri, o forse sì.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
Note
[1] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/01/09/le-case-dei-ferrovieri-nate-un-secolo.html