di Gian Mauro Sales Pandolfini
Ho sempre creduto con Vico nella circolarità della storia. Certi episodi, quelli magari più evidenti, testimoniamo di una ripetitività strutturale che non è prerogativa esclusiva degli uomini e che invece riguarda tutti gli attributi terrestri, persino la componente naturale inorganica. Si tratta, a mio avviso, dell’unica e possibile analogia che deterministicamente si può osare tra l’uomo e l’ambiente. Per il resto il concetto di evoluzione applicato alle faccende della cultura, ancora attivissimo persino nel nostro vocabolario quotidiano, è una delle cose più stupide partorite dalla mente umana.
A Darwin si deve certamente la teoria dell’evoluzionismo moderno, seppur teorizzato in uno specifico contesto scientifico. Per il naturalista britannico l’evoluzione delle specie viventi è direttamente connessa alla loro capacità di adattarsi alle vicissitudini ambientali nel corso del tempo, un tempo pesante, profondo, quasi immobile come descritto da Braudel [1]. Si tratta dunque di una stretta dialettica tra vita e natura, clima e organismo, resistenza e accidenti, che trova la sintesi perfetta nella nota espressione di selezione naturale [2].
Il danno non l’ha fatto Darwin, ma un altro inglese, Spencer. Filosofo neomentalista della Belle Époque, ha letteralmente manipolato le teorie naturaliste di Darwin, applicandole indebitamente ai fenomeni culturali, cosa che ha finito per giustificare e promuovere quel colonialismo moderno di cui ancora oggi subiamo le nefaste conseguenze. Il colonialismo poi non è certo esclusivo affaire dell’Ottocento. L’uomo, sin dalla notte dei tempi, ama scivolare nei letti dei propri vicini, lasciarsi sedurre da etère dell’altrove e cibarsi di frutti proibiti. La trasgressione non è certamente ombra del sesso. Riguarda tutte quelle concessioni che sono obnubilate da tabù, limiti e confini.
Mi ha sempre divertito pensare all’essere umano quale oggetto di studio di un etologo, giacché alla fine il nostro Lévi-Strauss questo ha fatto con la sua struttura [3]. Ha immaginato – e secondo me benissimo – verità non rivelate ma meramente reiterate. Verità immanenti, idee platoniche e quasi sovrannaturali, che procedono al di sopra del nostro pensiero o della nostra scelta, riproduzioni filosofiche comuni, nel senso di condivise, che agiscono e fanno agire allo stesso modo tutti gli uomini. Se Pirandello ha trovato nella forza creativa della fantasia la soluzione al proprio dramma esistenziale, l’antropologo strutturalista ha individuato nell’idea-struttura – si badi bene, non nell’ideale – la fine della diatriba analogo/diverso e la possibilità di ridurre l’umanità a un motore immobile di aristotelica memoria. L’uomo, in breve, opera allo stesso modo per produrre poi un affascinante universo di diversi: «i fatti non cambiano», scrive Hillman, «ma il loro ordine riceve una diversa dimensione attraverso un diverso mito. Sono esperiti diversamente; acquistano un diverso significato perché sono raccontati per mezzo di un racconto diverso» [4].
Tornando al nostro Spencer, la sua operazione è stata assolutamente disastrosa e ha prodotto tanti di quei problemi che non riguardano solo certa speculazione filosofica assetata di quella «troppa luce», direbbe ancora Hillman, che crea sempre «il buio intorno» [5]. L’antropologia ha accompagnato le mire espansionistiche europee, esibendo il progresso come vessillo di civiltà per quei popoli definiti (ancora oggi) “selvaggi” o “primitivi”, e portarli al livello delle grandi civiltà “evolute” dell’Occidente dominante [6]. Irritante, a mo’ d’esempio, rimane la teoria del prelogismo dell’etnografo francese Lévy-Bruhl, per il quale i primitivi non agirebbero come noi, per logica, ma irrazionalmente e secondo il noto sofisma del post hoc, ergo propter hoc, per cui un certo evento è causato da un altro che lo precede: qualora si verifichi una disgrazia nel villaggio è perché è caduto un fulmine.
Capite bene quanta fallacia e cattiva fede ci sia in questi discorsi, furbescamente manipolati senza prendere in considerazione tutti quegli elementi che partecipano al gioco della vita, dalla dimensione temporale alle anamorfosi culturali che appaiono sempre tanto distanti e distratte rispetto ai nostri assiomi di riferimento, a loro volta esito di imprinting culturale, educazione, formazione, appartenenza sociale etc.
Con Gramsci possiamo invece ribadire l’esistenza di una reale dicotomia, e a tutti i livelli, tra mondi egemoni e mondi subalterni. L’Europa domina il Terzo Mondo come la borghesia domina il popolo [7]. Lo scarto che individua queste gerarchie è chiaramente il potere, il denaro, l’economia. Lo è sempre stato anche con gli originari conquistadores. Risulta pertanto evidente che il successivo colonialismo positivista ha basato la propria affermazione esattamente sulle imprudenti considerazioni teorizzate da Spencer. E beffardamente Bufalino ne è rimasto divertito: «I rimorsi dell’Europa per il Terzo Mondo, i rimorsi del Nord per il Sud… Io ne ho beneficiato» [8].
Oggi il colonialismo persiste in modo manifesto o in un altro più subdolo, ovvero dietro le spire ingannevoli del multiculturalismo e dei suoi attributi Politically Correct. All’economista e antropologo bengalese Sen va senza dubbio riconosciuto il merito di aver contribuito ad annichilirne l’aria viziata: del resto anche il vizio ha la propria dignità. E non a caso Cocteau ammonisce che «la forza del vizio è che non tollera la mediocrità»![9] Per Sen non esiste un’identità unica, predeterminata, naturale, non è possibile classificare gli uomini in base a parametri esclusivi, e non è reale l’idea di civiltà blindate in se stesse. Noi non siamo prigionieri di una collocazione geografica e soprattutto non siamo immobili. L’identità – che per me rimane pur sempre una parola sdrucciolevole da usare con le pinze – è anche una questione di libera scelta razionale, e tale libertà va sempre salvaguardata. Ovviamente essa, come ogni scelta libera, comporta in ogni caso fattori limitanti, i caratteri individuali, il contesto in cui si vive e/o si opera e le circostanze che determinano le varie alternative possibili. Dovrebbe essere dunque senso comune parlare di identità plurime sussistenti anche in un unico individuo, non in maniera eterna o irreversibile, e di culture in continuo e dinamico contatto tra esse, con analogie ma anche con differenze considerevoli persino al loro interno. Siamo in effetti il risultato di numerose identità che coesistono in ognuno di noi, prevalendo l’una sull’altra a seconda dell’occasione: a tavola si manifesta quella di onnivoro o vegetariano, al lavoro quella di medico o muratore, a letto quella di etero o gay. Questo è il punto su cui batto sempre e che fa paura perché lo si ignora, soggetti alla quotidiana tirannia del conformismo.
Come possiamo dunque continuare a giustificare le nostre azioni – persino le pretese di democrazia assolutista – in nome di quella libertà che poi neghiamo alle scelte individuali delle singole persone? Anche il tanto paventato Spengler aveva tuonato contro questa cattiva abitudine dell’uomo di far coincidere la libertà con ciò che altri decidono si debba pensare, dire o fare per essere liberi, sicché, scrive Zecchi nell’Introduzione al Tramonto dell’Occidente, «la ricostruzione di un’identità perduta e dimenticata diventa impossibile e rimane soltanto l’angoscia dello sradicamento, la desolazione e la solitudine vissute come incubo quotidiano» [10].
Siamo ospiti indolenti di un ballo mascherato. Il volto insano del multiculturalismo e dell’economia globalizzante annichilisce il senso della diversità, lacrimando omologazione e costringendo a riduzionismi civili, prima ancora che filosofici ed estetici. Le accorate difese del multiculturalismo che spesso sentiamo sono in realtà versioni distorte di un monoculturalismo plurale, ovvero di un atteggiamento ipocrita e non di rado autoemarginante, che finisce per appoggiare l’irrealtà di un isolamento tra le persone e l’idea di culture che non possono incontrarsi fino in fondo, scambiarsi elementi e reinventarsi reciprocamente per come invece avviene. Da qui si genera la violenza, dall’arroganza, dal relativismo, dalla incapacità di viversi: «La calamità dell’esclusione può andare a braccetto con la benedizione dell’inclusione» [11]. Alla luce di quanto detto, la globalizzazione dovrebbe essere individuata non nel principio dell’omologazione, ma in un florido viaggio di idee tra i Paesi del mondo. Solo la comunicazione globale e la cooperazione internazionale possono scongiurare la catastrofe della divisione, dell’isolamento regionale, dell’assenza di fiducia e di sostegno reciproci. Anche Nietzsche ci ricorda che «La grandezza di un uomo è di essere un ponte e non uno scopo» [12].
Di norma si dice che l’arte rispecchi la vita o che la trascenda. Per me l’arte è invece in grado di dominare la vita, di catturarla e sublimarla al tempo stesso. Se pensiamo agli affreschi della Cappella Paolina realizzati da Michelangelo, possiamo certamente concordare nel definirli, rispetto alla più nota Sistina, quale manifesto di un Manierismo oscuro, di un Rinascimento per così dire intimista.
Qui scompare ogni traccia di vigore fisico, i corpi, sebbene ancora muscolosi, appaiono come svuotati, contorti in vortici di carne priva di scheletro, statue silenti. I colori si fanno più sfuggenti e meno marcati, i paesaggi frammentari. Si avverte il senso di caducità che incombe su Michelangelo, il senso di fragilità umana, di ripiegamento intimo. Qualche secolo più avanti anche Tiziano, il grande alchimista del colore, precipita nell’inferno delle sue ossessioni e anche la sua vita finisce per essere magnetizzata nelle opere.
Ricordo in proposito una bella lezione tenuta da Sgarbi durante una puntata del Maurizio Costanzo Show degli anni Ottanta.
Nell’Incoronazione di spine del Louvre (1540 ca.), Tiziano risente ancora del Michelangelo vigoroso della Sistina. Ma trent’anni dopo tutto sembra cambiare: la successiva Incoronazione, quella custodita all’Alte Pinakothek di Monaco (1570 ca.), mostra il pittore veneto come un infervorato impressionista ante litteram, dominato dal fuoco, un fuoco divoratore di vita. I blocchi di pietra ora sono braci ardenti, il busto di Tiberio della prima versione è qui un candelabro fiammante, Cristo chiude gli occhi e appare più spossato, dimesso, molle. Persino i carnefici invecchiano o muoiono: il personaggio in primo piano a destra perde la sua armatura in virtù di una ricercata e policroma veste di velluto, stringe ancora nella mano un fusto di canna ma il compagno avvinghiato al suo braccio della prima versione è adesso scomparso.
Il motivo della vita vampirizzata dall’arte ricorre in tutta la letteratura gotica moderna, dal Ritratto di Dorian Gray di Wilde, al Ritratto ovale di Poe fino al meno noto racconto La redenzione dei capilavori di Capuana, a testimonianza che il pensiero dell’uomo attraversa lo spazio e il tempo. Le categorie dello spirito si ripropongono, si assestano in base alle vicissitudini dei tempi, ma mostrano sorprendenti analogie strutturali che non possono essere divise per mera tassonomia cronologica. Incasellare la storia del pensiero umano e le sue manifestazioni negli archivi della memoria trova il suo senso solo se tutti gli elementi del pensiero, indiscutibilmente considerati per come funzionano nel tempo in cui si verificano e significano, siano comunque liberi di dialogare oltre i confini dello spazio, del tempo e delle ideologie. Ecco il valore più alto di una globalizzazione alla Sen, quel viaggio di idee – più che di ideologie o di ideali – che non può essere arrestato, sia perché immanente nell’uomo, sia perché libero di scorrere oltre i limiti dell’uomo stesso. Certe manifestazioni artistiche, per esempio, figurative o letterarie che siano, le troviamo da sempre, dalla statuaria classica – che nella serenità delle forme nasconde la disperazione per l’imperfezione concreta dell’umanità – alla drammaticità teatrale di Caravaggio, o dai funerei madrigali di Tasso alla disgraziata follia omicida della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Così nessuna evoluzione nella pittura di Michelangelo o di Tiziano. Il manierismo di Pontormo, che rompe il classicismo rinascimentale con le sue figure deformate in uno spazio non più naturalistico e definito, è un ritorno all’astrazione bizantina, alla malinconia dell’irraggiungibile, ma anche esuberante anticipazione del sovrannaturale tardo settecentesco, tardo-romantico e, perché no, decadente [13]. Sono le ombre che tornano alla fine di ogni secolo. Sono i medesimi pensieri e stilemi che cambiano forma ma non contenuto. Finanche un estroso personaggio degli anni Venti del Novecento, l’alchimista francese Fulcanelli, nella trattazione dedicata alle cattedrali – non casualmente definite frasi in bassorilievi e pensieri in ogive dell’Opus –, ebbe a dire che il termine “gotico” non deriverebbe dai barbari Goti, per come ci ha insegnato la manualistica accademica, ma sarebbe una storpiatura del lessico cabalistico, della parola argotique, etimologicamente legata alla magia [14]. E cos’è la magia, ricorda Silvana Miceli, se non un codice di riserva che l’uomo ha sempre sfruttato dinanzi a una spiazzante crisi della presenza? [15] Dinanzi a qualcosa che gli manca d’improvviso e che rischia di rompere un equilibrio?
Tutti i fenomeni artistici, scrive Sgarbi [16], sono contemporanei finché funzionano. Non esiste per assurdo l’arte contemporanea. Tutta l’arte è contemporanea purché sia viva, purché agisca, visibile e visibilmente, sulla società e sulla cultura al di là d’ogni tempo. Contemporaneo è Michelangelo come Piero Guccione.
L’estetica non possiede una forma unica, si muove e ritorna nel tempo, è entelechìa aristotelica, armonia delle forme in riferimento al tempo. Queste possono cambiare. Il contenuto più profondo no.
Per Ellis, all’epoca poco più che ventenne, il successo è senza ombra di dubbio arrivato con American Psycho. L’anno scorso è stato invece pubblicato Bianco, un “saggio di vita”, una feroce invettiva contro la nostra attuale società riletta attraverso episodi autobiografici in cui l’autoreferenzialità, tutt’altro che in sordina, non riesce comunque a soffocare l’obiettività spiazzante delle sue urla. Nella Piovra IV, nota serie televisiva della RAI inaugurata da Damiani negli anni Ottanta e qui per la regia di Perelli, un personaggio chiave, Antonio Espinosa – interpretato dallo straordinario Bruno Cremer e cucito su misura alla figura di Licio Gelli – arriva a dire che «per la democrazia la corruzione è esattamente come il lubrificante per un motore. Ha un odore nauseabondo e sporca, ma non se ne può fare a meno. [...] Perché tutto il Mondo è d’accordo».
Ellis, direi in contrappunto a Espinosa, apre il suo saggio con un’epigrafe tratta da un testo difficile da reperire in Italia, The Journalist and The Murderer della Malcolm, giornalista del “New Yorker Magazine”: «La nostra società fa da mediatrice tra due estremi: da un lato, una moralità intollerabilmente rigida e, dall’altro, un permissivismo pericolosamente anarchico. […] L’ipocrisia è il lubrificante che permette alla società di funzionare in modo accettabile» [17]. Ipocrisia, denuncia Ellis, che ingrassa negli associazionismi omosessuali, nel pensare comune o nell’ultima generazione dei nuovi Millennials, rappresentata da giovani inetti, com’egli stesso li definisce, ossessionati dal numero di Like, dal consenso dei Social e dal numero di Followers. «Robot virtuosi»[18] senza alcuna libertà di pensiero, prigionieri di un processo omologante e castrante. Da questa ipocrisia nessuno è immune, dagli attori che gli capita di intervistare nei suoi podcast, in cui «ogni […] mossa è un provino fatto per denaro» [19] e il cui «lavoro consiste semplicemente in questo: desidero far sì che mi desideri» [20], ai leader politici o associazionisti che sembrano prediligere «pericolosamente […] un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero» [21]. Gente che in sostanza predica rispetto per gli altri e che invece uccide chi non si uniforma ai propri ideali, ritenuti superiori: «una sfilata di falsi Assoluti» [22] direbbe Cioran, nella sua genealogia del fanatismo, che ritorna sempre seppur con maschere diverse, accomodate ai tempi e ai templi dei singoli pretesti.
Rispetto alla ruota di Vico di cui ho fatto riferimento all’inizio dell’articolo, sembra quasi, dice Ellis, che
«la maggior parte di noi oggi è assai più attenta riguardo al modo in cui si presenta rispetto a quanto non sia mai accaduto in passato. […] Questa è un’epoca in cui ciascuno viene giudicato così aspramente attraverso la lente delle politiche dell’identità che se ti opponi al minaccioso gruppone dell’ideologia progressista, la quale proclama l’inclusione universale tranne per coloro che osano porre una qualche domanda, in un modo o nell’altro sei fottuto. Tutti devono essere uguali e avere le stesse reazioni di fronte a qualunque opera d’arte, movimento o idea, e se uno si rifiuta di unirsi al coro di approvazione verrà accusato di essere un razzista o un misogino. Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell’arte. […] Il vero scandalo non sta nella battuta scherzosa ma nelle rigide reazioni che provoca. […] A dire il vero non sono mai stato bravo a capire quali siano le cose che possono offendere. […] Il crimine più grande commesso in questo nuovo mondo è quello di stroncare la passione e ridurre al silenzio l’individuo. […] Ridete di tutto, o finirete per non ridere più di niente [23].
Dovremmo ridere, come se la ride prima di noi Hughes, anche di quel Capitano Achab che un esaltato politicamente corretto ha definito «portatore di un atteggiamento sconveniente verso le balene». Non sono trascorsi neanche trent’anni dalla Saga del politicamente corretto denunciata da Hughes [24], da quel bigottismo progressista che ci porta ormai a chiamare un nano “persona verticalmente svantaggiata” o un cadavere “persona non più vivente”. Esiste un modo giusto di dire e fare le cose che annienta qualunque altro afflato che se ne distacchi. Se l’analisi logica viene abolita a scuola, è più facile far trionfare quel sentimentalismo che, infervorato dagli ideali dominanti, rifugge ogni idea personale e ogni elaborazione individuale. In questa maniera opporsi a una tesi condivisa equivale a un insulto che si fa scala sul rango del più ampio rifiuto sociale dell’elemento di disturbo in questione, che viene subito ignorato, silenziato ed emarginato.
E oggi siamo costretti a sentire “ministra” o “assessora” (qualcuno dovrebbe spiegarmi come si declinano invece “politico”, “giudice”, “meccanico” o “dentista”!), come se neutralizzare il neutro linguistico possa restituire alla donna un ruolo di potere diverso nella nostra sempiterna ed effettiva società androcentrica. O, ancora, siamo ridotti ad assistere alla Carmen di Bizet, messa per la prima volta in scena nel 2017 da Leo Muscato, in cui alla fine è la protagonista che uccide Don José sparandogli.
Carmen tradizionalmente muore per fare ciò che avrebbe dovuto fare. Scandalo anzitutto. L’etica del racconto è insita poi nel racconto stesso, senza quella ridicola correzione del regista pugliese, lontanissima dal quel Pasolini evocato come fonte d’ispirazione. Muscato evidentemente non ha mai compreso Pasolini. Pasolini ha davvero vissuto. Non ha mai avuto terrore della puzza di zolfo, di quell’inferno che allontana l’uomo dal sentirsi Dio. E, non a caso, amava Pontormo o Rosso Fiorentino, officianti del Manierismo nero, gotico.
Quando Cora Caetani, la raffinata arredatrice d’interni che lavorava a Parigi – ricorda González-Palacios – andava a trovare la divina amica Marcella Nobili della Scala nel suo celebre salotto fiorentino in Piazza San Lorenzo, «passeggiava ancora con grande chic le ossa di un’antica bellezza»[25]. Queste ossa si fanno testimoni della grazia più autentica, ovvero di quella grande dignità che l’esperienza restituisce alla vita. Impariamo dal passato come fendere l’aria con un incedere meno goffo o indifferente e più glamour o ragionato. Adagio ma non troppo.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Braudel 2001: 15.
[2] Darwin 1990.
[3] Lévi-Strauss 1967.
[4] Hillman 1999: 62.
[5] Idem: 108.
[6] Trovo in proposito sempre illuminante e sintetica la lettura di Cocchiara 2002, che consiglio vivamente.
[7] Un’altra bella lettura sull’argomento è proposta da Cirese 2003, che, sulla scia degli insegnamenti di Gramsci, dà origine a un felice sposalizio tra economia, antropologia ed esistenza.
[8] Bufalino 1987: 113.
[9] Cocteau 2000: 89.
[10] Spengler 1978: IX.
[11] Sen 2006: 20.
[12] Nietzsche 2015: 8.
[13] Fondamentale in proposito lo studio strutturalista che Francesco Orlando, allievo di Tomasi di Lampedusa, dedica al sovrannaturale letterario (Orlando 2017), facendo dialogare Omero e Goethe, Ariosto e Perrault, Kafka e Voltaire, Shakespeare e Bulgakov, i fratelli Grimm e Cervantes, Radcliffe e Tasso.
[14] Fulcanelli 2000.
[15] Guggino 2006.
[16] Sgarbi 2012.
[17] Ellis 2019: 1.
[18] Idem: 123.
[19] Idem: 32.
[20] Idem: 33.
[21] Idem: 35.
[22] Cioran 2005: 13.
[23] Ellis 2019: 54, 94, 112, 125 e 133.
[24] Hughes 1994.
[25] González-Palacios 1997: 223.
Riferimenti bibliografici
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Gian Mauro Sales Pandolfini, antropologo, si occupa di credenze popolari, siciliane e classiche attinenti la sfera magico-rituale e di fenomeni legati allo spiritismo tra Ottocento e Novecento. Ha contribuito al disvelamento dell’opera saggistica e letteraria, inerente l’occultismo, di Luigi Capuana, sostenendo il dialogo interdisciplinare tra antropologia e letteratura. Ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice palermitana Ex Libris di Carlo Guidotti, Metafischerie. Luigi Capuana e la cultura medianica tra Ottocento e Novecento, con la presentazione di Vittorio Sgarbi, la prefazione di Clementina Giuffrida e le illustrazioni di Luca Ferracane. Già redattore e amministratore multimediale presso diverse case editrici palermitane, è stato archivista presso la biblioteca del Dipartimento dei Beni culturali-storico-geografico-antropologici dell’Università degli Studi di Palermo; ha collaborato e collabora all’organizzazione e all’allestimento di mostre d’arte moderna e contemporanea presso diverse istituzioni pubbliche e private; è stato consulente antropologo e coordinatore editoriale per conto di Vittorio Sgarbi in qualità di ex Assessore ai Beni Culturali della Regione Sicilia.
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