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Affacciarsi dalla finestra e osservare il mondo. Dialogo con Franco Rella

www-mondadoristore-itdi Simone Casalini

«Sei, come sempre, alla finestra. Interroghi il riflesso del tuo volto nel vetro, perché anche se ne hai dubitato la finestra è ben chiusa. C’è un mondo di fuori e un mondo di dentro. C’è anche altro che si riflette come un’ombra evanescente nel vetro, il vago profilo di una cosa, e poi di un’altra cosa, e di un’altra cosa ancora. Sai che il più piccolo mutamento nell’intensità della luce o un tuo qualsiasi movimento farà sparire quel riflesso. Pensi che non solo il loro riflesso, ma le cose stesse che si specchiano diafane nel vetro potrebbero di colpo sparire. Pensi allora che dovresti iniziare un inventario, catalogare le cose che sono intorno a te, dentro questa stanza e fuori da questa stanza (…) Ma sai che un inventario è potenzialmente interminabile».

Affacciarsi dalla finestra e osservare il mondo, catturarlo con lo sguardo o perderlo, accostarsi o ritrarsi. Frammenti di visioni e di pensiero che entrano in scena con un’intensità differente, come neon intimi che rischiarano quel poco di noi che si può percepire. Per inseguire parvenze di verità, per sottrarsi al potere, o per disarticolarlo o, ancora, dissolverlo. Il pensiero di Franco Rella – a lungo professore ordinario di Estetica alla Iuav di Venezia, filosofo senza appartenenze se non hai suoi autori di riferimento e di sviluppo (Kafka, Foucault, Benjamin, Adorno, Canetti, Bataille, Blanchot: in questo caso l’inventario è un debito interminabile ma ripagato) – si mobilita sempre sulla soglia, tra il dentro e il fuori delle cose, negli interstizi dove spesso accade la vita. Al confine tra arte e filosofia dove più volte ha situato la sua opera per interrogare il presente. E lontano da qualsiasi confort zone o dal baluginare di una riflessione filosofica, in tutte le sue declinazioni, che oggi stenta a non omologarsi, a non convalidare il reale invece di sobillarlo.

In Narrare. Tentativi d’inventario (Jaca Book, 2020) ritroviamo Rella in uno dei piani a lui più congeniali – quello di Interstizi. Tra arte e filosofia (Garzanti, 2011) o de La responsabilità del pensiero (Garzanti, 2009) o del magistrale Immagini del tempo (Bompiani, 2016) o, ancora, del suo ultimo lavoro Territori dell’umano (Jaca Book, 2019) – ma con un testo che accentua, e non di poco, la sua propensione all’irregolarità. Narrare ibrida il romanzo e la saggistica ad un livello tale che, dopo qualche pagina, i due generi si fondono, lasciando al lettore – forse disorientato – l’epifania di un terzo genere (un saggio-romanzo o un romanzo saggistico). Il focus è stabilmente diretto sull’atto del narrare, e dunque dello scrivere, sul peso e la delicatezza della parola (come ci ammoniva Pasolini) e sulla necessità di rilasciarla per ricomporre un mondo possibile. Ma scrivere significa anche entrare in un rapporto di potere oppure aprire un contenzioso con questo; esplorare la relazione con una possibile verità, lasciando sempre visibili gli orizzonti della molteplicità e della sensibilità umana. Da qui la scelta di privilegiare il frammento (benjaminiano) alla totalità, il fallimento (kafkiano) al compimento. Scriveva Maurice Blanchot, che viene citato in esergo, che «un libro, anche se è frammentario, ha un centro che lo attrae: centro che non è fisso, ma che si sposta per la pressione del libro e per le circostanze della sua composizione».

Rella agisce alle spalle dei due potenziali protagonisti del romanzo, Wallas e Dora (a lungo W. e D.), con i quali rivela una complicità e un’intimità tali da (con)fondere i pensieri. L’approssimazione delle prime pagine lascia infatti il posto all’identità e ad una storia senza storia in cui ad un certo punto irrompe fuori dalla finestra la pandemia con i suoi affluenti laterali di rovelli etici, ma anche con la smitizzazione delle tecnoscienze come orizzonte di immortalità. La lettura richiede un rapido riorientamento delle proprie coordinate culturali e di attenzione, in cui non manca la sensazione di trovarsi nel backstage di un’opera e di assistere al fallimento voluto della sua rappresentazione, forse proprio perché rappresentare è un atto di coercizione a cui Rella vuole sottrarsi.

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Franco Rella

Narrare. Tentativi di inventario è un testo che spinge ancora più lontano il tentativo di ricorrere al dialogo tra filosofia, arte e letteratura per disvelare qualcosa di noi, della contemporaneità. Appostandosi sul limen. Come lo definirebbe e cosa l’ha provocato, professor Rella?

«È un libro certamente anomalo, immagino che se uno dovesse recensirlo si interrogherebbe sul punto d’ingresso, su come restituirlo. Costeggia certamente questo spazio interstiziale tra filosofia e letteratura, ma qui diventa alla fine metaletteratura e metafilosofia. Sono partito, come osservato, da un tema che da tempo mi impegna: la questione del limen, della soglia. Credo che ci siano sei o sette miei libri che hanno nel titolo le parole limen, soglia, confine, frontiera. Pormi sul confine della scrittura è sempre stata una mia caratteristica.

9788845281785_0_0_626_75In Immagini del tempo la narrazione è lo strumento elettivo per affrontare le contraddizioni senza semplificarle, dando conto delle crepe e delle contraddizioni stesse. In questo nuovo lavoro l’ipotesi che si pone è la narrazione di un romanzo che possa svolgere lo stesso compito e affrontare le contraddizioni del nostro tempo, storiche e soggettive. Questo personaggio a cui l’autore si rivolge con il tu, inventa gli altri personaggi, li muove. Poi si rende conto che non hanno la forza di tenere insieme tutte le lacerazioni del mondo. A quel punto la storia esita, il personaggio regredisce, torna indietro. Poi entra in scena una figura femminile, Dora (dalla poesia di Montale, “Dora Markus”, ndr), che è l’opposto di W.. È una narrazione che ha pretese così grandi, rendere visibili queste lacerazioni storiche, che sta anch’essa sulla soglia senza decollare».

Infatti il libro non ha un esito…

«Kafka termina Il Castello con il protagonista che entra nella casa di un operaio e c’è la madre di questo operaio che sta leggendo. Non sappiamo quale libro, e lei sibila: “Quel che lei disse”. Lì termina il testo. Perché non si può dire l’ultima parola e forse non c’è nemmeno una narrazione che possa abbracciare tutti i grovigli del mondo. Quindi l’unica via di uscita è scrivere un libro senza esito, che non può concludersi. Nel mio lavoro c’è anche un tentativo di recupero di frammenti, un viaggio di W. per dare alla storia una consistenza, per chiuderci il mondo dentro, ma alla fine è lui ad essere chiuso dentro alla storia».

9788811132257_0_0_626_75Marguerite Duras, da lei citata, sosteneva che scrivere è raccontare una storia e l’assenza di questa storia”. È realmente così?

«L’assenza di storia è significativa come la storia. L’interruzione de Il Castello non implica che sia un testo non finito. L’architetto Daniel Libeskind (autore del museo ebraico di Berlino, ndr) lo ha ripreso e posto in relazione con il museo Schönberg proprio sulla parola che manca. Il museo illustra l’impossibilità di esprimere l’orrore dell’Olocausto tanto che Libeskind lo rappresenta con il vuoto. Sarebbe ancora più esemplificativo se non fosse popolato dalle voci dei morti. La mia impressione è che la pandemia abbia aperto una breccia in questo mondo in cui l’uomo può tutto illimitatamente – Yuval Noah Harari ha preconizzato che “eritis sicut dei” (sarete come dèi) –. La nostra condizione non è solo di mortalità ma nasconde anche disuguaglianze terribili che la pandemia ha evidenziato come quelle dei migranti considerati ancora più reietti e isolati come portatori di malattie. Come la parola manca a Kafka e a Schönberg forse nel mondo verboso in cui viviamo, con una proliferazione delle immagini, manca la verità della condizione umana».

Il libro ripropone sistematicamente anche il tema dell’inventario. Che cos’è?

«In fondo è il livello zero della narrazione. Prima di mettere in trama gli eventi, li enucleo, compio un’archeologia come direbbe Foucault. Non racconto la vicenda di questi oggetti, ma li faccio esistere. Non decollando la narrazione in questo libro, alla fine non decolla nemmeno l’inventario. Il titolo parla appunto di tentativi».

9788816414754_0_0_626_75Nel 2018 ha pubblicato “Scrivere: autoritratto con figure”. Che differenza c’è tra narrare  e scrivere?

 «Scrivere riguarda la possibilità di esprimersi su qualsiasi cosa e in qualsiasi forma. Si può scrivere un’autobiografia, un saggio – che considero il mio genere –, mentre narrare è qualcosa di differente. Anche se il saggio diventa narrazione con Adorno, Canetti e Benjamin. La narrazione ammette molto di più la contingenza, mentre in un saggio c’è più sorveglianza. Hemingway è esemplificativo ne I racconti di Nick Adams quando inserisce una serie di contingenze, in apparenza inutili, che costituiscono invece la capacità di tenere tutto insieme. Il mio libro ha raccolto molto di quello che capitava fuori, come la pandemia, e lo ha assunto come parte di sé».

Una delle questioni urgenti del libro, ma in generale della sua produzione intellettuale, è il potere. Kafka e Proust combattevano il potere con il fallimento, Foucault ha spostato gradualmente il suo focus: il controllo del discorso, il biopotere, la parresia. Però narrare non è in qualche modo esercitare un potere? Oggi la “narrazione”, soprattutto politica, è diventata una fiction in cui si rappresenta una realtà.

«Pasolini ha colto straordinariamente il tema nel suo ultimo capolavoro, Petrolio, un libro contro il potere. In questo romanzo lui si trasforma in donna per sottrarsi al potere, si castra, si fa stuprare negli stessi luoghi in cui verrà ammazzato. È un testo in cui non c’entra nulla il petrolio, i misteri: sono dietrologie giornalistiche. Ma è un lavoro che sfida il potere. Ora, certamente, quando cerco di dare un ordine alle cose del mondo, scrivendo, esercito un potere. Le narrazioni politiche sono modalità per esercitare e riorganizzare i fatti in una sequenza narrativa e per renderla coattiva, costruirla come la spiegazione degli eventi. L’esitazione del mio libro è anche per sfuggire a questa logica. Dopodiché non dimentichiamo che l’uso strumentale della narrazione ha radici profonde. Comincia quando Gorgia da Leontini scrive l’elogio di Elena, riorganizzando i fatti della guerra di Troia in un modo che la sottrae a qualsiasi responsabilità. La narrazione che dichiara poi di fondarsi sulla parresia e la volontà di verità si basa in maniera forte sul suo potere di convinzione. Kafka sceglie di fallire pur di non essere nella schiera degli uccisori. Il percorso di Foucault è esemplare perché dopo aver studiato il potere fin nella sua microfisica, nei suoi aspetti molecolari, transita dal biopotere per recuperare in fondo al suo percorso il soggetto. Mentre in alcuni aspetti della sua opera il soggetto era solo l’assoggettabile, nella fase finale della sua vita riscopre la soggettivazione».

9788807816741_quarta-jpg-444x698_q100_upscaleLa scrittura non è solo potere o possibile verità, ma anche esondazione di ogni significato. L’infodemia è una delle sue patologie coeve.

«Questa proliferazione della parola non c’è mai stata prima. Sono miliardi le parole spese sul web, sui social network che finiscono per rendere le parole stesse un brusìo di fondo. Gli influencer possono orientare milioni di persone senza esprimere alcuna competenza. I follower sono la loro unica fonte di legittimazione…».

Non accade anche perché sul consumo, sulla reificazione del mondo non esiste più una teoria critica come quella, per esempio, dei francofortesi. “Zabriskie Point” di Antonioni si concludeva con l’esplosione di un appartamento e soprattutto dei suoi contenuti di massa ripreso da angolature differenti, quasi a volerne amplificare la polemica.

«C’è una differenza. Mentre una volta si discuteva del dominio delle merci e del desiderio che produceva, ora il discorso domina le merci. L’immagine, il package vale più del contenuto. Oggi si vendono le parole che parlano delle merci più che le merci. Non esiste una critica come quella di Adorno alla reificazione – e dunque manca una critica seria al consumo – che aveva però mostrato anche semplificazioni come i giudizi sbrigativi sul jazz o il cinema. Non tutti erano strumenti di controllo e disciplina. Ad ogni buon conto, ho la sensazione che chi parla della società liquida sia contento di nuotare in questa liquidità».

Ad un certo punto della stesura del libro irrompe la pandemia. Perché entra nel testo?

«Perché è la pressione dell’altro che si pone faccia a faccia con l’umano e lo costringe ad una sorta di autoesame, di redde rationem. La guerra, il terrorismo, la pandemia: sono quei momenti in cui ci si interroga sul proprio destino, individuale e collettivo».

9788816415621_0_0_626_75Il virus ha sollecitato molte fratture tra le quali quella tra giovani e anziani, soprattutto riferita alle priorità di cura. Canetti sosteneva che quando muore un vecchio muore più vita.

«Canetti ha combattuto tutta la sua vita contro l’idea della morte, la considerava un’ingiustizia estrema. Fino alla fine dichiara che non perdonerà mai ad un Dio che l’uomo sia destinato a finire. Questo lo porta anche a questa affermazione sugli anziani, cioè che la morte sottrae all’umanità un quoziente di vita molto grande. Ricordarlo in una fase di affermazione giovanilistica può essere utile. Non è più il modello dei sapienti greci, ma quello di Chiara Ferragni che illustra la Primavera del Botticelli al posto di un critico, di un poeta, di uno scrittore. Sono modelli che tendono a diventare prepotenti, per questo va rammentato che la quota di vita contenuta in un anziano è densa».

Lei rileva anche che il virus ha posto un cuneo nell’esaltazione delle tecnoscienze e di una vita senza morte. Tema al centro del suo penultimo lavoro, “Territori dell’umano”, che sottopone a critica tutta la tendenza al postumano.

«Negli ultimi 15-20 anni si sono moltiplicati i filosofi e gli storici che hanno sottolineato questa dimensione superoministica, il superamento dei limiti dell’umano. Schiavone afferma che siamo nelle condizioni di dire se e quando morire. Harari mi sorprende quando sostiene che se sappiamo moltiplicare per sei la vita di un verme allora si potrebbe pensare anche per l’uomo. Anche lui è affascinato dall’idea di rompere qualsiasi limite della condizione umana. È l’illusione dell’illimitatezza. Ma il coro nell’Antigone di Sofocle rappresentava perfettamente che l’uomo è la cosa più straordinaria:

Molte cose nel mondo ispirano sgomento; nessuna più dell’uomo. Che con il vento tempestoso del Sud attraversa il mare bianco di spuma, e si apre la strada tra i gorghi spalancati e affatica col volgere degli aratri e con i cavalli rivolta, anno per anno, la terra grandissima, instancabile, immortale.
Glli uccelli spensierati, le fiere, la stirpe marina dei pesci: a tutti tende reti l’astuzia dell’uomo, e li cattura; anche le bestie selvatiche dei monti le doma con i suoi espedienti; doma il cavallo dalla folta criniera e il toro gagliardo, piegandoli sotto il giogo.
Ha appreso la parola, il pensiero alato, i fondamenti della società; ha appreso a difendersi dal gelo e dalle piogge, moleste per chi non ha riparo. Nulla gli è precluso, e contro ogni futuro trova risorse; solo contro la morte non ha scampo, ma pure a malattie invincibili ha trovato rimedi.
Padrone della scienza e del pensiero, padrone delle tecniche oltre ogni speranza, si può volgere al male o al bene. Se rispetterà insieme le leggi e la giustizia dei giuramenti divini, sarà grande nella sua città; ne sarà bandito se per sfrontata audacia accoglie il male accanto a sé. Chi agisce così speriamo di non averlo mai vicino, di non condividere i suoi pensieri».

Anche Nietzsche esalta la vulnerabilità dell’uomo, restando lontano dalle interpretazioni strumentali del Superuomo.

«Il suo ultimo libro si intitola Ecce homo, è il più intenso e profondo. Un testo autobiografico in cui si rappresenta come una figura dilaniata dal dolore e dal suo stesso pensiero».

respA proposito di pandemia e narrazione, la cronaca ci restituisce anche la resistente presenza dei negazionisti.

«Il caso di Giorgio Agamben è esemplare da questo punto di vista. È una persona straordinariamente acuta e intelligente, ma ha elaborato tesi legate ai temi del complotto, del controllo e delle multinazionali. Tuttavia tale narrazione si scontra con qualcosa di ineliminabile: i morti. Sono milioni nel mondo, la sofferenza è percepibile e si è aperto il problema solitudine. Volgendo lo sguardo allo scenario internazionale, non sfugge come Trump, Modi e Bolsonaro abbiano tesi simili sul Covid, ma esprimono regimi e realtà profondamente diversi».

Poco prima di morire, nel 1984, Foucault lasciò un appunto, traccia per le lezioni al Collège de France dell’anno successivo. Diceva: “Ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra”.

«È la genialità di Foucault che in una frase coglie una verità profonda. Come l’io si costituisce nei confronti dell’altro, anche la verità ha l’identica procedura. Dostoevskij ha scritto: “Lei dice solo la verità e per questo non è giusto”. Sembra paradossale, ma la verità senza la non verità non esiste. Questo assunto ricorre in tutto il pensiero russo. Persino il bene non si dà senza il male come sosteneva Simone Weil. Levinas parla del paradosso dell’amore: è fusione, ma se ciò avviene conduce alla distruzione dell’altro. È necessario, dunque, accogliere l’alterità senza metabolizzarla, senza farla diventare lo stesso. Il colonizzatore cercava di trasformare un quota di colonizzati da altri a medesimi, in tal modo esorcizzando l’alterità, allontanandola».

Lei sceglie il frammento come elemento costitutivo del suo lavoro, Benjamin fa riferimento ad una scrittura che frantuma la “falsa e aberrante totalità”. È la polemica anche del postcolonialismo contro la Storia universale che ingloba e colonizza tutte le storie. Perché?

«Benjamin compie questa citazione nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Nella Dialettica negativa Adorno parla del “totem del totum”. La scrittura filosofica del Novecento avviene per frammenti: Benjamin, Blanchot, Canetti. Adorno ha impostato così i Minima moralia. È una scrittura che rifiuta di totalizzarsi. Il frammento è qualcosa di inconcluso che attende un altro frammento per proseguire».

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Riferimenti bibliografici
Franco Rella, Interstizi. Tra arte e filosofia, Garzanti, Milano, 2011.
Franco Rella, Immagini del tempo. Da metropoli a cosmopoli, Bompiani, Milano, 2016.
Franco Rella, Territori dell’umano, Jaca Book, Milano, 2019.
Franco Rella, Narrare. Tentativi d’inventario, Jaca Book, Milano, 2020.
Theodor Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 2015.
Theodor Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 2004.
Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997.
Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Il Saggiatore, Milano, 2018.
Elias Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017.
Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1999.
Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2013.
Gorgia, Encomio di Elena, Liguori editore, Napoli, 2007.
Yuval Noah Harari, Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017.
Ernest Hemingway, I racconti di Nick Adams, Mondadori, Milano, 1999.
Franz Kafka, Il Castello, Feltrinelli, Milano, 2015.
Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano, 1991.
Pierpaolo Pasolini, Petrolio, Mondadori, Milano, 2017.
Sofocle, Antigone, Einaudi, Torino, 2007.

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Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore del Corriere del Trentino-Corriere della Sera e collabora con alcune riviste di politica internazionale (Eastwest e Dialoghi mediterranei), curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia e il tema delle migrazioni. È anche docente a contratto all’università di Trento. Si è laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Sergio Fabbrini, Toni Negri, Franco Rella e Gian Enrico Rusconi – ha analizzato l’eredità del secolo breve e Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione (Meltemi, 2019). È coautore del libro collettivo La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e del documentario sulla primavera araba tunisina: Tunisia, nove anni dopo. La rivoluzione sospesa (2020).

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