di Leandro Salvia
Parlare significa agire. È la funzione pragmatica del linguaggio che – come sappiamo – non solo descrive la realtà, ma la costruisce. Le parole infatti discretizzano e danno i contorni a quel continuum indistinto che ci circonda. Perché siamo noi che produciamo il mondo parlandone. Un principio che vale anche per i social media che per Daniel Miller sono innanzitutto un prodotto fatto dagli utenti. Per questo l’antropologo inglese suggerisce di concentrare l’attenzione su “cosa le persone fanno con i media” e non su quello che i media fanno alle persone. Quindi sulla loro agentività, la capacità umana di agire e insieme di costruire la propria identità, tenendo conto dei vincoli sociali, culturali e linguistici che determinano il nostro margine di azione.
L’analisi dei linguaggi ci fornisce in tal senso elementi utili per comprendere la capacità umana di agire. È l’approccio etnopragmatico di Alessandro Duranti, che tratta il parlare come una forma d’organizzazione sociale e approfondisce lo studio delle attività in cui il linguaggio svolge un ruolo primario per la costituzione nel sociale. Oltre che sulla forza d’agire, Duranti si concentra sulla dimensione etica ed esistenziale del parlare, sull’agentività dell’Io che unisce due aspetti del fare linguaggio: il potere performativo e quello di rappresentare l’esperienza. E guarda al contesto non solo come a una cornice (frame), ma come a un prodotto della comunicazione: «Il contesto è anche ciò che il testo fa, raggiunge, ottiene» (Duranti 2007: 14). Applicando dunque l’approccio di Duranti, anche Facebook, Instagram, WhatsApp, Youtube, TikTok e X sono rappresentati dai post, delle storie, dai tweet, dalle foto e dai video che gli utenti scelgono di pubblicare. I social media sono formati da parole, voci, volti e performance pubblicati in Rete. Sono ciò che le persone dicono e fanno attraverso di essi per sentirsi attivi, per avere un impatto sul mondo. Pubblicare un post non è solo esprimere un’opinione e un punto di vista, ma è anche un tentativo di influenzare i comportamenti e persuadere altri utenti indirizzandone il contesto.
Ogni singolo utente attivo dei social è dunque un medium che tenta di fornire un’agenda setting, l’ordine del giorno del newsfeed dei propri contatti, a cui proporre un tema politico, un fatto di cronaca, il risultato sportivo o un semplice gossip. È l’agentività digitale che ci dà la sensazione di avere il controllo dei social che utilizziamo.
Esiste in Rete una competizione nel pubblicare notizie o opinioni. Fornire, per primi, informazioni ritenute utili è infatti un modo per accreditarsi all’interno di un contesto utilizzato dagli utenti anche per tenersi informati sui fatti di cronaca. Così come lanciare una denuncia su un tema ritenuto di interesse collettivo. I likes, ma soprattutto le condivisioni, sono il feedback che possono confermare l’efficacia delle nostre azioni e la loro capacità di influire su ciò che accade. Per Duranti, a caratterizzare l’agentività è – infatti – la proprietà di avere un certo grado di controllo sulle proprie azioni, che hanno un effetto sugli altri, su di noi e sono oggetto di valutazione (Duranti 2007: 89). Presuppone dunque un potere legato a una scelta. Tutte caratteristiche riscontrabili anche nel “parlare” attraverso i social media, dove il potere è amplificato dal numero di interazioni possibili e dalle loro modalità non vincolate al faccia a faccia. Gli effetti di un messaggio lanciato in Rete sono infatti molteplici e possono contare su velocità e capillarità. Per questo viene utilizzato l’aggettivo virale, che dalla biologia, tramite il marketing, è passato ai nuovi media. Indica un’informazione che si propaga rapidamente. La viralità, nel linguaggio dei social, assume pertanto connotazioni positive perché associate alla diffusione di un contenuto destinato a un pubblico numeroso. L’agentività nell’uso dei social è confermata inoltre dal desiderio di ottenere effetti attraverso la pubblicazione di contenuti. I “mi piace”, i commenti e la condivisione sono quelli più immediati.
L’agentività di cui parla Duranti è performativa, in quanto legata al fare del linguaggio, ed è codificata, perché connessa alle forme linguistiche scelte. Post, foto e video, attraverso un’apposita codifica, sono in grado di produrre effetti. Quando i contenuti di un singolo utente raggiungono risultati costanti sugli altri, si fa largo il concetto di influencer, esempio emblematico della funzione persuasiva della comunicazione attraverso i social media. Una funzione ampiamente sfruttata per scopi commerciali, perché capace di influenzare i processi decisionali legati agli acquisti. Ma non solo, il crescente fenomeno della disintermediazione nella sfera della politica e dell’informazione ha, infatti, creato spazi per i social media influencer anche in settori non necessariamente commerciali.
Come gli opinion leader di un tempo, gli influencer sono pertanto in grado di influenzare e orientare l’opinione pubblica su temi legati alla politica, la giustizia, l’ambiente, la musica, i costumi e lo sport. Funzione analoga sembrano assolvere gli youtuber. Negli anni, l’attività sulla piattaforma di videosharing, che permette agli utenti in tutto il mondo di caricare o visualizzare video di ogni tipo, è perfino diventata una professione remunerativa, soprattutto nel caso dei tutorial sponsorizzati dalle aziende. Di qui l’aspirazione a diventare youtuber, diffusa tra i più giovani. Nei social media è presente in modo emblematico quella che Duranti chiama “la forza del parlare” di un soggetto non isolato che genera messaggi orientati verso gli altri. È l’agentività primaria che consiste nella possibilità di creare un dialogo con qualcuno ed è il motivo per il quale milioni di utenti ogni giorno accedono alle piattaforme social.
Le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni hanno dunque cambiato il nostro modo di rapportarci con il mondo. Nel volume Il disagio della simulazione Sherry Turkle ha analizzato gli aspetti di questo cambiamento, partendo da un presupposto: «Guardiamo il mondo attraverso il prisma della simulazione» (Turkle 2011: 20). Il libro è il frutto degli studi condotti da Turkle dal 1983 al primo decennio del 2000 e raccoglie i dubbi sollevati da docenti universitari (architetti, ingegneri, fisici e microbiologi) del Massachusetts Institute of Technology dinanzi all’avvento delle nuove tecnologie. Secondo la sociologa statunitense i nuovi strumenti di comunicazione sembrano condurre a un disagio che spinge a una continua ricerca dell’identità e dell’alterità. La “simulazione” esige, infatti, l’“immersione” nella realtà digitale, proposta come un sostituto del reale. E l’immersione rende difficile mettere in dubbio la simulazione. «Più potenti diventano i nostri strumenti e più è difficile immaginare il mondo senza di essi. Immersi nella simulazione ci sentiamo estasiati per le possibilità a disposizione» (Turkle 2011: 23).
Secondo Turkle però c’è sempre qualcosa che va perduto durante queste immersioni: cambia il nostro modo di pensare la realtà. Le tecnologie che abbiamo creato ci plasmano perché più potenti diventano i nostri strumenti e più è difficile immaginare il mondo senza di essi.
«In tutti gli ambiti professionali, la simulazione, quando ha successo, dà la sensazione che gli oggetti digitali siano a portata di mano. Nei vari campi esaminati, scienziati, ingegneri e progettisti hanno descritto i vantaggi che la simulazione ha offerto – dagli edifici che altrimenti nessuno avrebbe mai osato progettare ai farmaci che non sarebbero mai stati sviluppati –. Ma hanno descritto anche l’ansia della confusione della realtà, quel ‘punto di rottura’ dove l’osservatore perde il senso di ancoraggio al reale, e viene privato di qualsiasi riferimento a esso. E la stessa complessità delle simulazioni può rendere quasi impossibile la verifica della loro veridicità» (Turkle 2011: 96).
La simulazione sembra dunque volere addomesticare la natura e anche la vita sociale, perennemente online.
«Viene giustificata come un allenamento delle abilità della vita reale; così come accade se si desidera diventare un pilota, un marinaio o un aviatore migliore. Ma quando si tratta delle relazioni umane la simulazione ci fa finire nei guai; online, nei luoghi virtuali, la simulazione ci trasforma in sue creature. Quando però usciamo dalle nostre vite online possiamo sentirci come se all’improvviso fossimo sotto una luce troppo forte» (Turkle 2019: 388).
Uscire da un videogioco è disorientante, così come lo è anche uscire dall’email. La simulazione spingerebbe, infatti, a farci ignorare le persone con cui siamo fisicamente. Perché “siamo insieme, ma soli”.
«Ci aspettiamo di più dalla tecnologia e meno gli uni dagli altri. Questo ci mette nell’occhio del ciclone. Sopraffatti, ci siamo lasciati attrarre da connessioni che sembravano poco rischiose e sempre disponibili: gli amici di Facebook, gli avatar, i compagni di chat su Irc. Se comodità e controllo continueranno a essere le nostre priorità, saremo tentati dalla robotica sociale, che ci promette divertimento come fanno le slot machine con i giocatori d’azzardo; macchine programmate per farci continuare a giocare» (Turkle 2019: 397).
A temere effetti sulla socialità è anche Bauman, secondo il quale a rendere così attraenti le reti di comunicazione elettronica non sono né la facilità di entrare in contatto né di stare insieme con gli altri in modo permanente, ma la possibilità di scollegarsi quando lo si vuole. È quello che il sociologo polacco chiama “dispositivo di sicurezza” e le cui vittime collaterali sarebbero però proprio i legami sociali e le capacità necessarie a stringerli e mantenerli.
Le piattaforme social non sono, infatti, semplici strumenti tecnologici, ma strumenti emotivi. Non hanno a che fare solo con algoritmi e bit, ma con le emozioni, che sono la nostra risposta davanti a ciò che accade. Rappresentano esperienze incorporate. «Se la nostra esistenza è un’apertura al mondo – ricorda il filosofo Umberto Galimberti –, allora l’emozione è l’esperienza della vulnerabilità dell’esistenza» (Galimberti 2021: 72). Nell’età della tecnica, i social rappresentano un ambiente in cui emerge la precarietà del nostro equilibrio:
«La constatazione di non possedere un sentimento all’altezza dell’accadere tecnico può indurre ciascuno di noi a una ritirata emotiva che assume come regola della propria vita quello che uno ‘sente’. A determinare questa scelta è il bisogno di proteggere la propria vita che si sente assediata dalle crescenti pressioni esercitate dalla razionalità tecnica, per difendersi dalle quali non si vede altro rifugio se non nel proprio sentimento, legittimato dalla propria biografia. Un criterio, questo, che, in quanto biografico, si sottrae a ogni verifica” (Galimberti 2021: 91).
Secondo Turkle ci siamo concessi, infatti, a un esperimento di cui siamo “le cavie umane”, in affascinanti simulazioni che spacciano per luoghi in cui vivere. La sociologa statunitense, nelle conclusioni di Insieme ma soli, intravede però una via di salvezza: «Meritiamo di meglio. E se rammentiamo a noi stessi che siamo noi a decidere come tenere occupata la tecnologia, avremo di meglio» (Turkle 2019: 398).
Alla ricerca della socialità perduta
Quella che per Turkle è una speranza, per Daniel Miller è invece il punto di partenza nell’approccio con i social media che non ci rendono più soli, ma ampliano invece la nostra capacità di essere sociali. La sua è dunque una visione opposta rispetto a quella della sociologa del Massachussets Institute of Technology.
Considerato un pioniere dell’antropologia digitale e autore di numerose ricerche etnografiche sull’uso dei social network, l’antropologo britannico Miller dal 2012 al 2013 ha coordinato il progetto Why we post. Uno studio che ha messo a confronto le modalità di utilizzo dei social in nove Paesi del mondo, tra cui l’Italia.
«La nostra ricerca – ha spiegato Miller in un’intervista rilasciata nel 2017 al Quotidiano nazionale – suggerisce che i social siano più conservatori rispetto alle relazioni. Per esempio, la famiglia spesso viene disunita dalle forze moderne e ci sono persone che accettano lavori in luoghi distanti: si utilizzano quindi i social per cercare di ricostruire la famiglia che si sente di aver perduto».
La ricerca coordinata da Miller giunge così alla conclusione che i social media «fanno parte della vita reale»: attraverso l’uso costante e diffuso dei social media, l’online è entrato a far parte della nostra vita, dove non c’è più una distinzione netta. «L’online è tanto reale esattamente quanto l’offline. I social media sono diventati già parte integrante della vita quotidiana a tal punto che non ha senso considerarli separati» (Miller 2018: 24). A far superare l’opposizione reale vs virtuale è il concetto di “socialità modulabile” (scalable sociality) che fa da ponte fra privato e pubblico. Per Miller, grazie alla “polimedialità”, le persone possono infatti impostare differenti tipi di socialità in base alle diverse piattaforme. Lo scambio frequente di messaggi privati su WhatsApp presuppone, ad esempio, un maggior grado di confidenza o comunque maggiore riservatezza rispetto a una conversazione coram populo su Facebook o Twitter. Dopo aver letto un post di un amico lo si può contattare in privato, per poi magari incontrarlo. Un altro esempio può essere l’organizzazione di un evento, concordato prima tramite messaggi che si basano una crittografia end-to-end, per poi essere esteso ai gruppi WhatsApp o su Facebook o su Instagram. Le relazioni umane hanno, infatti, molteplici sfumature e diverse gradazioni che ben si sposano con la “modulabilità” dei social, che per Miller sono un’estensione della nostra capacità di essere sociali, ma con un repertorio più vario rispetto alla conversazione tradizionale perché includono le componenti visuali.
Dalla ricerca Why We Post, sugli usi e gli effetti dei social media, emerge infatti che i social media non ci stanno rendendo più individualisti. In Tales from facebook, pubblicato nel 2011, Miller compie un’indagine antropologica sulle conseguenze che i social network hanno sulla gente comune, cercando di comprendere come sono state cambiate le loro vite dall’esperienza di utilizzo di Facebook. L’attenzione dell’antropologo si focalizzava su ciò che la piattaforma social sta diventando piuttosto che su ciò che inizialmente era stata.
Nato negli Stati Uniti, oggi è un sito globale che per Miller rappresenta un osservatorio antropologico privilegiato. Consente infatti di studiare le persone come parte di un insieme più ampio di relazioni. Facebook è inoltre apparso mentre si discuteva del declino delle relazioni sociali e della partecipazione alle comunità. «Man mano che Facebook si è diffuso, è diventato sempre più diverso. Quindi, da una prospettiva antropologica, potremmo dire che Facebook non esiste più. Ci sono solo i particolari generi di utilizzo che si sono sviluppati per differenti popoli e regioni» (Miller 2011: X, trad. mia).
La conclusione a cui giunge Miller è che «il segreto del successo di Facebook, insieme a quella di social network simili, non è nel cambiamento ma nel conservatorismo» (Miller 2011: 217). Facebook è letteralmente una rete sociale. Il suo più grande contributo non consisterebbe dunque nel suo essere una novità, ma nella sua capacità di ricreare delle reti sociali che credevamo perdute, soprattutto per quanto riguarda le parentele (kinship) e le relazioni strette (close relationships). I social non sostituiscono i legami sociali tradizionali, ma li integrano con nuove forme relazionali.
La pubblicazione di testi, foto o video su Instagram, TikTok, Facebook o nello “stato” di WhatsApp sembrano spesso rispondere all’esigenza di raccontarsi per esserci. È la rivelazione di sé (self-disclosure). Non si tratta solo di raccontarsi agli altri, ma anche di raccontarsi a sé stessi. «Mi vedo, quindi sono» (Augé 2018: 60).
I selfie, i video e le storie diventano gli strumenti narrativi per costruire identità sociali. Consentono di configurare un’immagine per soddisfare l’esigenza del riconoscimento di sé. È quell’illusione autobiografica di cui parla Pierre Bourdieu e che, attraverso la narrazione, serve a dare una coerenza retrospettiva e prospettiva al nostro vivere in mezzo agli altri. Narrare sé stessi, attraverso processi di memoria, significa oggettivarsi in processi di costruzione di senso. È quella prendersi “cura di sé” di cui parla Foucault. È il tentativo di riportare gli eventi dal caos al cosmos attraverso la loro rappresentazione, che è la ri-presentazione in forma diversa di qualcosa che non c’è più.
I social, racchiudendo promesse di felicità, sono in grado di creare un reincanto delle nostre vite. Hanno fatto la loro comparsa all’apice della cultura consumistica, che secondo Bauman antepone la novità alla durata. Una società dell’eccesso e dello sperpero, con individui incapaci di resistere al rinvio di una gratificazione. La soddisfazione diventa così un’esperienza momentanea ed effimera perché il sistema è incentrato sul rimanere insoddisfatti. Una cultura consumistica che spinge costantemente a essere qualcun altro perché nessuna identità è stabile. Le identità sono progetti: compiti da assumersi e svolgere con impegno fino a un completamento infinitamente remoto.
Usare i social media fa parte dunque di quelle procedure di costruzione di senso individuale, sociale e culturale, che da sempre l’antropologia studia nelle diverse società. Con le piattaforme social cambia il campo di osservazione, che dalle comunità ancorate a luoghi fisici passa a quelli virtuali. Rimane però immutato il fatto che «essere un individuo comporta il recitare la propria esistenza, come forse quella degli altri, considerato che senza gli altri non c’è senso» (Augé 2018: 86). Perché è nel rapporto con gli altri, nella “negoziazione” con l’alterità che si costruisce l’identità.
Avere un profilo social e interagire con i contenuti serve a certificare un’esistenza che risponde alla “necessità del sociale” e alla sfida identitaria della relazione fra le persone. Abbiamo appreso da Bauman, come nella società dei consumatori liquido-moderna nessuna identità è data dalla nascita o rimane immutata. È invece un progetto che prevede l’assunzione di ruoli e lo svolgimento di compiti. Usare i social ha a che fare anche con il senso inteso come significato della vita e della morte. Di qui, secondo Marc Augé, scaturisce quella messa in finzione di ogni momento della vita legata all’esperienza della morte, che Carlo Ginzburg definisce la matrice di ogni racconto possibile, perché deriva dall’esperienza del lutto e serve a colmare un’assenza.
Il vissuto sui social media diventa dunque racconto necessario a colmare la mancanza di senso, che Augé spiega così:
«La gente ama raccontare del suo passato ciò che risulta utile per costruirsi un profilo nel presente. È una cosa del tutto normale, che non per forza risulta menzognera, ma sicuramente selettiva: è una scultura. Questa forma artistica fa apparire una verità, facendoci essere quello che vogliamo essere, anche se altri possono pensare di essere qualcosa di diverso. Che in questo meccanismo ci sia un aspetto di lutto è ovvio; c’è la perdita di tutto ciò che si dimentica, di tutto ciò che si elimina, e anche la perdita di tutto ciò che siamo stati, di tutto quello che abbiamo detto di essere stati» (Augé 2018: 88).
Perché i nostri racconti sono sempre il risultato del rapporto tra memoria e oblio, tra interpretazione del passato e attesa del futuro. Sono il compromesso tra le due memorie descritte da Marcel Proust nell’opera Alla ricerca del tempo perduto: la memoria intenzionale, che tenta consapevolmente di ricordare gli avvenimenti passati, e la memoria involontaria, legata a quei meccanismi imprevedibili e straordinari che sono le intermittenze del cuore, improvvisamente capaci di illuminare il nostro vissuto e alimentare il nostro racconto autobiografico, dove si incrociano memoria, tempo, identità e alterità.
Le bacheche dei profili social diventano così il luogo privilegiato per scrivere e raccontare la nostra vita organizzata come una storia, la cui narrazione serve a fornire di senso l’esistenza. È la nostra rappresentazione, che però è inevitabilmente negoziata dal rapporto con gli altri, che sui social possono commentare, supportare, criticare o magari ignorare il nostro racconto. Ed è negoziata soprattutto dal rapporto con gli altri racconti. Perché, come ricorda Augé, «l’immaginario individuale si nutre dell’immaginario collettivo e dell’immaginario altrui» (Augé 2009: capitolo 5). Perché «i sogni individuali hanno bisogno dei miti collettivi». In tal senso i social forniscono modelli narrativi e figure esemplari da poter imitare perché fanno parte di un immaginario collettivo condiviso.
«Se un giorno accadesse – scrive Augé – che al posto dell’immaginario collettivo ci fossero solo immagini, e che al posto delle opere creative ci fossero solo prodotti d’intrattenimento, l’immaginario individuale potrebbe essere assorbito dalle immagini» (Augé 2009: 78). Ciò sembra non accadere però, come lo stesso antropologo francese spiega, perché
«l’uomo è un essere simbolico. Un essere che si definisce attraverso le relazioni e che non può lasciarsi completamente assorbire dall’immagine. Alcune persone forse sì. Ma non tutta l’umanità. Resta il fatto che l’offensiva tecnologica è sferrata, che la guerra dei sogni è cominciata. Finché le vite individuali esisteranno come racconti, finché coniugheranno le forme del ricordo con quelle dell’oblio, finché potranno raccontarsi e fare appello ad altre vite e ad altri racconti, sapremo che la battaglia non è ancora persa» (Augé 2009: 79).
I social media, che non sono solo mezzi di comunicazione, sembrano dunque aver fornito alle persone strumenti per sfuggire alla solitudine, mantenere legami affettivi e crearne di nuovi. Sono diventati, così, degli strumenti di narrazione utilizzati da milioni di utenti in tutto il mondo per non passare inosservati, per segnare una presenza in grado di fronteggiare quell’angoscia dell’anonimato in cui, secondo Galimberti, gli individui, nella nostra società, temono di affogare. Perché la Rete non è solo un “mezzo”, ma un “mondo” che non lascia altra scelta se non quella di parteciparvi o starne fuori.
È quel mondo vicino di cui parlava Edmund Husserl nel 1954 e che con i social si è esteso inglobando il mondo lontano. Ne fanno parte, infatti, non soltanto le persone e i fatti fisicamente vicini a noi, ma anche quelli con cui possiamo entrare in contatto attraverso Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, WhatsApp e tutti gli altri strumenti digitali di connessione che ci consentono di sperimentare un senso di prossimità costante. Coniugano, infatti, il globale e il locale attraverso spazi comunicativi un tempo inesistenti. In tal senso le piattaforme di connessione costituiscono un enorme contenitore planetario dove continuamente si consumano tentativi individuali e collettivi di scandire e significare l’esperienza del vivere attraverso rappresentazioni simboliche (parole, foto, video, emoji, storie). Per questo sono antropologicamente interessanti, perché consentono di osservare le procedure di costruzione di senso messe in atto dagli individui e dai gruppi all’interno di comunità che sono tanto virtuali quanto reali.
L’uso dei social diventa così la risposta, forse inconsapevole, all’esortazione lanciata da Günther Anders dinanzi al dominio della tecnica:
«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche di interpretarlo. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi” (Anders 1963: 1).
Un mondo che, come ricorda Van Gennep, ha bisogno di essere rappresentato attraverso cosmologie, fatte di miti e riti, in grado di proporre ai gruppi umani riferimenti per trovare il proprio posto nel mondo. I social media, che non sono solo mezzi di comunicazione, forniscono alle persone strumenti per sfuggire alla solitudine, mantenere legami e crearne di nuovi. Sono reti sociali che ci tengono legati agli altri durante le immersioni nel Web. Un mondo in cui entriamo a far parte attraverso un’identità digitale: il nostro account, fatto di username e password. Perché per occupare un posto al suo interno, un link unico, servono un nome e una chiave di accesso all’url (uniform resource locator) che è quella parte di mondo che sentiamo di dover riempire per affermare un’esistenza.
I social, con il loro senso di prossimità costante, sono in grado di far incontrare il locale con il globale, l’identità con l’alterità, gli individui con il mondo. Sono vetrine identitarie, specchi con cui moltiplicare la propria immagine, palcoscenici per rappresentazioni di vite, diverse l’una dall’altra, ma simili nell’universale ricerca di senso e nell’ineluttabile sperimentazione dell’esistenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Riferimenti bibliografici
Anders, G., L’uomo è antiquato. Vol.2 – Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1963), Bollati Boringhieri, Torino, 1992
Augé, M., Cuori allo schermo, versione e-book, Edizioni Piemme, Milano, 2018
Augé, M., Chi è dunque l’altro, versione e-book, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
Boccia Artieri, G., Fenomenologia dei social network, Guerini Scientifica, Milano, 2017
Duranti, A. Etnopragmatica. La forza nel parlare, Carocci, Roma, 2007
Galimberti, U., Il libro delle emozioni, versione e-book, Feltrinelli, Milano, 2021
Ginzburg, C., Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008
Miller, D., Tales from Facebook, versione e-book, Polity Press, Cambridge, 2011
Miller, D., Come il mondo ha cambiato i social media, versione e-book, Ledizioni, Milano, 2018
Turkle, S., Il disagio della simulazione, versione e-book, Ledizoni, Milano, 2011
Turkle, S., Insieme ma soli, versione e-book, Einaudi, Torino, 2019.
________________________________________________________
Leandro Salvia, giornalista freelance, cura la comunicazione mediale di progetti del Terzo settore. Ricopre incarichi di docente di Comunicazione nell’ambito della Formazione professionale e del Lifelong Learning. Si interessa inoltre dell’impatto che la fruizione dei media ha sui processi di apprendimento e sulla costruzione identitaria. Dal 2019, con l’associazione Kaleidos Cultura e Natura, cura laboratori di scrittura giornalistica e uso consapevole dei social media nelle scuole del territorio palermitano. Ha studiato all’università di Palermo, dove ha conseguito la laurea magistrale in Studi storici, antropologici e geografici con una tesi su «Identità mediali, funzioni e narrazioni nell’era dei social media».
______________________________________________________________