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Aki Kaurismäki e i linguaggi della migrazione

La notte porta consiglio (ph. L. Taverna)

La notte porta consiglio (ph. L. Taverna)

di Stefano Montes

E allora? Ti è piaciuto? Ti va di parlarne? Di un film? Sì, perché no, perché non farlo, se mi si concede la libertà di vagare, qui e lì sul tema e sulla forma, come meglio aggrada al flusso dei miei sparsi pensieri, sulla spinta del momento! Beh, proprio adesso, all’uscita dalla sala per esempio, non posso fare a meno di pensare d’acchito – come sempre, forse, quando vado al cinema – soprattutto al valore estetico del film che ho appena visto, alla sua costruzione formale, più che alle questioni prese di petto contenutisticamente! Che male può fare, d’altronde, in uno scritto d’ordine antropologico, incominciare mettendo sul piatto della bilancia anche il piacere individuale ricavato dalla rappresentazione (in rapporto alle più o meno complesse strategie di enunciazione introiettate in un opera dall’autore-regista)? I due aspetti, forma e contenuto, non vanno forse insieme? Certo che sì, ne riparliamo però. Per ora, dico solo che è un bel film. Bello è bello! Niente da dire. Mi è piaciuto e mi va di fare quattro chiacchiere con chi vuole impegnarsi nella conversazione. Forse un po’ lento, straniante, molto ‘finlandese’, ma il film è bello e ne parlo con piacere. Senza tuttavia strafare, senza comunque regolare i miei pensieri piacevolmente notturni – è mezzanotte passata ormai – al ritmo accademico della scrittura (diurna e ordinata), già irreggimentata da quell’unica prospettiva che la dirigerebbe verso un fine: dimostrare qualcosa.

La notte porta consiglio e io non ho in fondo una tesi da difendere a oltranza, né un proposito su cui attestarmi a spada tratta. Semmai posso dire – con certezza, questo sì – che mi sono distratto per un paio d’ore e sono attratto dal film che ho visto, dalla tematica e dalla sua costruzione formale, minimale, per scarti temporali. La mia intenzione consiste – piuttosto, se proprio devo cercarne una a ogni costo – nell’andare verso l’altro, verso il dialogo e decentrare me stesso, decentrare una nozione stereotipata, unicamente mediatica, di migrazione; il mio è dunque un tentativo di ‘rendere visita all’alterità’ con gli strumenti teorici che posseggo: quelli dell’antropologo dei linguaggi – rigorosamente al plurale perché sono tanti e tutti importanti – che riflette con il favore dei pensieri rimescolati dal tempo tamburellante sul sussistere imperturbabile della sua fluttuante esistenza. Considero, qui, la mia scrittura sulla migrazione e sul film che ho appena visto un lento «dirigersi verso qualcuno» (Wittgenstein 1967: 174), più che un’intenzione originaria e indelebile, motivata da un pensare preconfezionato o pianificato, volto alla realizzazione di un fine da ottenere nell’immediato della dimensione temporale.

Il tempo vola, il tempo si sedimenta, il tempo rallenta. Il tempo, in quanto velocità, va relativizzato «in rapporto ai nostri obiettivi, al significato che desideriamo dare a ciò che intraprendiamo individualmente e collettivamente. Si può pensare l’eternità come una diluizione in un tempo e in uno spazio infiniti dove non accadranno più grandi cose. Ma lo si può anche immaginare sotto forma di un istante di una straordinaria intensità» (Rosnay 2003: 33). Insomma, il tempo è, anch’esso, un linguaggio che fa sistema in relazione agli obiettivi posti da noi stessi, agli incastri individuali e collettivi, alle forme di immaginazione, alle altre istanze di riferimento prese in carico da alcuni autori quali, per esempio, ‘eternità’, ‘istante’, ‘diluizione’, ‘infinito’. Attenzione, però! Dire che il tempo è un linguaggio non significa affermare una sua inconsistenza o insussistenza: vuol dire, semplicemente, che il tempo instaura rapporti di similitudini e differenze con altri concetti e che la sua sussistenza-consistenza è il risultato degli intrecci stabiliti con altri concetti (per esempio, nella bella definizione menzionata sopra, l’‘intensità’ o lo ‘spazio’). Ciò non deve stupire: in fondo, «il significato non è altro che questo mettere in relazione» (Lévi-Strauss, 1988 :198). E, per cogliere il significato del tempo, è necessario tenere conto delle relazioni intessute, di volta in volta, con altri concetti. Vale per il tempo, vale per qualsiasi altro concetto, nonostante una domanda d’ordine teorico possa naturalmente scaturire dall’assunzione di questo principio: è, questo, un ritorno a un tipo di strutturalismo d’altri tempi? Non ne sono sicuro. E se anche fosse?

 Linguaggi della migrazione (ph. L. Taverna)

Linguaggi della migrazione (ph. L. Taverna)

So che, se proprio devo, mi interessa dare centralità all’esistenza nel suo fluire. So inoltre che una differenza – di un certo conto nel mio procedere – da un approccio strutturalista di primo stampo risiede in un luogo teorico preciso: io situo me stesso all’interno del tessuto di relazioni, più che al suo esterno, e penso quindi di farne parte integrante. Più o meno consapevolmente, dunque, io situo me stesso (la mia soggettività, il mio pensare e immaginare, etc.) nel processo di costituzione e rivelazione di intrecci di relazioni tra il soggetto e il mondo, tra il soggetto e il suo prossimo. Si potrebbe dire, in termini più sofisticati, che la struttura – Giddens parlerebbe di ‘strutturazione’ (Giddens 1990) – include il soggetto che l’osserva e la comprende nel processo di deittizzazione, in una sorta di va-e-vieni continuo tra il soggetto e l’oggetto, tra le modalità di soggettivazione e di oggettivazione. Ligio a questo principio, io lo lascio sedimentare, il tempo, attraverso una scrittura stretta nella morsa dei miei pensieri ancora in corso, non del tutto arpionati dalla fretta di arrivare a una conclusione definitiva. Morsa dei pensieri? Fretta che arpiona? Sembrerebbe soltanto un espediente di scrittura d’ordine metaforico, questo, ma ha invece, secondo me, effetti profondi sui modi di intendere il senso, e ha anche una forte valenza sulla ‘politica e poetica della ricerca etnografica’, dunque non soltanto relativa alla scrittura in sé, ma anche in funzione «del processo attivo che dal campo conduce al testo» (Marcus 1997: 15) e dalla vita – più o meno disordinata – alla sua testualizzazione in qualche modo codificata: in una dialettica stringente e stratificata, tra ordine e disordine.

Benché infatti susciti generalmente diffidenze, il disordine ha un ruolo importante nel dinamismo della cultura e non bisogna trascurarne la reale portata. D’altronde, com’è noto, oltre la scrittura, anche «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147). Adotto, di conseguenza, adeguandomi felicemente, un tipo di scrittura che non tende a fare il punto definitivo sulla migrazione o su un film che ne parla, bensì vuole «procedere per spinte e scricchiolii» (Deleuze 1998: 42) nel divenire di pensieri e associazioni, corsi e ricorsi. Considero la mia stessa intenzione un orientamento – manifestato per zigzag liberatori – attraverso cui la scrittura si fa processo graduale di scoperta del mio pensiero in atto e in astratto.

Un fatto è certo e va ribadito a questo riguardo: la scrittura, per sua costituzione, si dà un gran da fare – per sua ‘naturale’ tendenza o per volontà degli autori di rispettare i generi – a espungere ed espugnare il processo. È anche vero però che la scrittura, pur eliminando tratti del processo in vivo, se sgravata dall’idea di pedissequo adeguamento a un genere convenzionale, può diventare uno strumento di comprensione di ciò che si sta facendo nel suo darsi. In altri termini, semplificando, si può scrivere dando a intendere che l’ordine acquisito dalla scrittura sia sempre stato quello in cui si imbatte il lettore; al contrario, si può scrivere per imparare qualcosa che non si sapeva prima del processo di scrittura, rendendo manifesto questo aspetto (Richardson 2000). A questo fine, persino in sociologia o antropologia, sarebbe opportuno fare appello ai diversi generi di scrittura possibili, persino poetici, persino quelli percorsi da una volontà di frammentazione o discontinuità teleologica (Richardson 1997; Fox 2000). Sarebbe quindi il ‘caso’, finalmente, di vedere la cultura in stretta relazione con la scrittura intesa come elemento generativo del pensiero – modalità del pensiero correlata al vissuto pragmatico – che interviene, fin dal primo momento di abbozzo testuale, nel procedere inarrestabile della cognizione individuale e collettiva. Ciò può essere fatto, al meglio ritengo, se non si ha fretta di arrivare a concludere, se non si temono le magnifiche lacune “serendipitose” – «la serendipity non produce di per sé scoperte: produce opportunità per effettuare scoperte» (Merton, Barber 2002: 450) – del procedere non irreggimentato: detto altrimenti, se si prediligono l’imperfettivo (un tipo di aspettualità, in termini linguistici) e il bricolage (un modo di procedere, in termini antropologici, connesso sia allo strutturalismo che al postmodernismo). Ed è ciò che intendo fare e so già che non mi costerà nessuno sforzo. Perché?

2A ben vedere, infatti, questo di Kaurismäki è proprio uno di quei film che ti prende a poco a poco, senza aggredirti o sorprenderti sin dall’inizio, senza chiederti subito l’assillo lesto della parola soppesante o giudicatrice. È un film che non ti fa fretta. Bisogna allora dare tempo al tempo in alcuni casi! E questo film è un gradevole invito a farlo. Perché questo è un film che si lascia pensare lentamente, che ti fa pensare debitamente, che ti lascia improvvisare liberamente nello svolgersi stesso del corso dei pensieri: è un film che ti costringe a prendere coscienza del fatto che noi pensiamo in funzione del modo in cui l’interrelazione col contesto ti orienta a pensare. È un film sulla migrazione, tra le altre cose. Sì, L’altro volto della speranza di Kaurismäki tratta anche di questo: di uno dei temi più attuali e sofferti oggi, di uno dei temi più studiati nella nostra contemporaneità. Di migrazione, è vero, se ne può parlare da diversi punti di vista. Tanti, forse troppi, alcuni giusti, altri meno. Davvero troppi? Logoranti e martellanti? E chi può dirlo con la dovuta certezza etica, appropriata a un tema così planetare? Io vorrei provare a pensare con calma al tema della migrazione, nel mio piccolo, proprio a partire dal film di Kaurismäki, senza tralasciare il punto di vista dell’antropologo dei linguaggi che pensa e scrive a ruota libera, consapevole del peso indubbio che lingue e linguaggi hanno nella manifattura della realtà, tanto più che, nella mia prospettiva, «la realtà extralinguistica è anch’essa concepita come una certa lingua» (Lotman 1993: 16).

E sia allora, tra gli altri, l’antropologia dei linguaggi e la migrazione! Una strana accoppiata, si potrebbe pur tuttavia affermare. I migranti sono individui in carne e ossa: soffrono e si disperano, affrontano grandi pericoli e perdono talvolta la loro vita. Che c’entrano i linguaggi con la vita e la morte? Il tema è già abbastanza complesso in sé, si potrebbe dire. Ammettiamolo pure, senza esitare, è una questione umanamente travagliata, di presa mondiale e capitale. Resta nondimeno il fatto che, pur in presenza diretta di migranti in carne e ossa, pur alle prese con una umanità palpabile, per quanto strano possa sembrare, la migrazione è – anche – una questione di linguaggi che toccano direttamente la questione dei contenuti; anzi, di più, i contenuti – che sia la sofferenza o la gioia, la vita o la morte – non potrebbero essere tali se non fossero veicolati attraverso i linguaggi che li prendono specificamente in carico: i telegiornali, la letteratura di testimonianza, la storia orale, il cinema, internet, etc., non sono contenitori vuoti, ma veri e propri ‘cassetti linguistici’ che modellano, nel bene e nel male, i discorsi che variamente accolgono.

 Processi di scrittura (ph. L. Taverna)

Processi di scrittura (ph. L. Taverna)

Nel linguaggio cinematografico di Kaurismäki questo aspetto di modellamento dei discorsi è, a mio parere, particolarmente fruttuoso ed evidente nella commistione di oggetti, persone e situazioni che il regista utilizza da un passato finlandese, in apparenza molto lontano nel tempo, mescolandoli ad altri oggetti, situazioni e persone ambientate nella contemporaneità. È sorprendente: soprattutto le auto, sembrano emergere dagli anni Cinquanta, ma, anche, il modo di vestirsi di alcuni personaggi e persino l’arredamento di negozi e ristoranti sembra oscillare tra un passato lontano e una storia ambientata invece nel presente. Quello che appare inizialmente come un dettaglio, o una stramberia del film, produce invece un efficace straniamento nello spettatore che è costretto a chiedersi incessantemente l’epoca in cui ci si trova e a tenere l’attenzione desta, incastrato tra il fenomeno odierno della migrazione che viene presentato e la Finlandia d’epoca, un’epoca in cui non si parlava certo di diaspore o spostamenti planetari, semmai si potevano avere ‘attriti’ storici, d’altro tipo, con la frontiera russa. Nonostante questa ‘ambiguità’ sia parte integrante dello stile di buona parte dei film di Kaurismäki, questo sballottamento temporale ha, qui, il potere di amplificare il senso della storia raccontata in alcune direzioni più specifiche: per esempio, attraverso la solidarietà e complicità che si instaura tra Wikström, il proprietario finlandese di un ristorante, e Khaled, il migrante al quale viene illegalmente offerto alloggio e lavoro. Attraverso questa oscillazione temporale, la solidarietà si manifesta come un concetto che va al di là della contingenza nella quale siamo proiettati oggi, nel nostro tempo odierno – soprattutto da noi, nel sud dell’Europa, con gli arrivi dei migranti in fuga da guerre e carestie – e si prospettano, al contempo, comparazioni fertili per una migliore comprensione dei rapporti umani e dei principi che reggono la solidarietà, non più vista in sé ma in quanto risultato di relazioni molteplici e consociate.

La solidarietà, insomma, viene inquadrata all’interno di campi di forze varie che inducono alla riflessione: può essere rifiutata o offerta ai migranti, ma viene vista con una luce diversa e attraverso la sua luce, come un elemento che va al di là di crisi e ristrettezze odierne, come un fattore umano che lega individui diversi, persino appartenenti a mondi diversi (quali sono quelli di Wikström e Khaled) e a culture diverse (quali sono, effettivamente, quella finlandese e quella siriana). Da questo punto di vista – cioè nella prospettiva di una storia di incontri di uomini e culture – l’intreccio narrativo è ben articolato e segue l’effetto di oscillazione temporale di cui parlavo prima. Wikström, uno dei personaggi principali, chiude la sua vicenda coniugale con la moglie, vende la sua attività commerciale, rischia tutto al gioco, vince e decide di comprare un ristorante dove inizierà la sua nuova vita. Il suo è un inizio e, come tutti i nuovi inizi, tiene aperte le possibilità narrative ed esistenziali di ciò che potrebbe accadere ed effettivamente accadrà: nell’alone di generale insicurezza, però, quel che è certo è che l’attenzione della storia procede per ‘spostamenti deterritorializzanti’ di attenzione da una vita all’altra, da una concezione all’altra. Ben presto, infatti, nel film, l’accento si sposta da Wikström agli altri personaggi, dall’uno all’altro, da una situazione all’altra, con dei ritorni e rimandi d’intreccio, talvolta anche comici, che, per quanto semplici e lineari, assumono un forte andamento dialogico: in questo modo, il regista fa un ‘lavoro antropologico’, mettendo a fronte le diverse vite dei personaggi, facendo inoltre scattare un dialogo tra esse e tra lingue e linguaggi che le compenetrano.

Il film stesso è, in definitiva, costruito all’insegna del ‘due’ – cioè del dialogo e non dello stantio monologo – e può essere visto, nel suo insieme, come un sistema complesso – metafora delle culture in movimento – al cui interno si confrontano lingue e linguaggi diversi che, nel loro incontro, si traducono o talvolta si escludono. In questa direzione, il film può ben rappresentare – aiutare a pensare, al di qua e al di là della migrazione stessa – due tratti reputati centrali della cultura/delle culture: il loro dinamismo interno/esterno e il potenziale di traduzione. Come scrive Lotman, la «dinamicità della cultura è frutto della coesistenza, all’interno di un medesimo spazio culturale, di diverse lingue, legate da gradi diversi di affinità e traducibilità o, viceversa, di estraneità e intraducibilità» (Lotman 1994: 34). E qui, vale la pena ricordarlo, Lotman non intende, per ‘lingua’, unicamente le lingue storico-naturali, ma qualsiasi entità o istanza da considerare in termini di relazione all’interno di un sistema, più o meno integrato, all’interno di una cultura, nel dialogo con culture altre: per esempio, nel nostro caso, il tempo, la migrazione e le vite stesse dei personaggi.

Ombre della speranza (ph. L. Taverna)

Ombre della speranza (ph. L. Taverna)

Tornando al film di Kaurismäki, quindi, proprio il tempo, come già accennato, è visto come un linguaggio in bilico tra un passato e un presente che produce un benefico effetto di straniamento e situa la migrazione all’interno del più ampio discorso relativo alla solidarietà tra uomini e culture. A sua volta, anche la migrazione è pensata come una forma di dialogo – un invito a pensare – tra la solidarietà offerta a chi si accoglie comunque e la solidarietà che si potrebbe dare – ma non sempre, purtroppo, si dà – a un migrante in difficoltà. Infine, a proposito di esistenze in dialogo, il rapporto tra i due personaggi principali è visibilmente percorso da un confronto continuo tra chi incomincia una nuova vita nella sua stessa terra (Wikström) e chi invece la incomincia in un Paese a lui sconosciuto (Khaled): così, opportunamente, la stessa vita di Wikström non viene vista in sé, in isolamento o in una potenziale chiusura definita da un unico spazio culturale, ma in ‘dialogo’ con quella di Khaled, con il suo sguardo di siriano e migrante.

Insomma, per sintetizzare, il film di Kaurismäki è realizzato all’insegna del dialogo plurilinguistico, intendendo qui con lingua – lo ribadisco – non soltanto la lingua orale o scritta, ma i diversi linguaggi che costruiscono la realtà propria e altrui, sociale e culturale. Un punto, a questo riguardo, va sottolineato. L’accento brillantemente posto sul dialogismo non equivale a dire che Kaurismäki è sprovvisto di un suo punto di vista o che tende a celarlo indebitamente: sicuramente egli è, infatti, a favore dell’incontro tra culture e disdegna i gesti di violenza gratuiti. Vi è infatti, tra gli altri, un episodio del film in cui Khaled viene preso di mira dai naziskin e, benché picchiato, viene miracolosamente salvato da alcuni barboni che si trovano nei paraggi; inoltre, nell’epilogo, uno dei naziskin si ripresenta per mantenere la sua promessa iniziale e accoltellare gratuitamente un Khaled senza colpa, se non quella di essere inerme e migrante, straniero e confuso. Queste scene mostrano inequivocabilmente una presa di distanza, da parte del regista, nei confronti della violenza e della chiusura al dialogo. Nel film, parallelamente, altre scene manifestano invece in positivo l’inclinazione del regista verso l’incontro di culture e verso la riflessione circa il valore della solidarietà, nonché il costante dialogo tra ‘entità’ diverse che offre un’apertura alla ‘discussione’ dei vari punti di vista.

Se parlo di ‘discussione’ qui è anche perché l’apertura al dialogo non vuol certo dire che tutti gli attori siano d’accordo fin dall’inizio e che non vengano manifestati attriti possibili in corso d’opera. Nonostante le possibili incomprensioni iniziali, un elemento è certo: se vi è dialogo, vi è possibilità di discussione e scambio di vedute che scongiurano lo spettro della violenza e del rifiuto. Insomma, quello che intendo dire è che ‘dialogo’ e ‘differenza di prospettive’ possono andare bene insieme. Ovviamente, questo principio è valido sia all’interno del film – così come è stato costruito da Kaurismäki e come lo ‘ricevo’ io al contempo – che al suo esterno, al momento di confrontare sui suoi eventuali pregi e difetti, incastri semantici e culturali, da parte di critici diversi favorevoli o contrari alla sua opera. La domanda, per gradi diversi, si pone dunque per tutti, nella vita ordinaria e straordinaria, all’interno e all’esterno del film, per critici e registi, per migranti e ‘accoglienti’: secondo quale processo di ‘ricezione’, implicito ed esplicito, vengono combinate le diverse prospettive individuali e collettive? La domanda, simmetricamente, ovviamente, si pone anche in un’opera artistica che, proprio perché tale, contiene solitamente stratificazioni polisemiche di non facile decodificazione. Di pari passo, la domanda si pone ugualmente nel mio singolo caso, se non altro perché sto scrivendo questo saggio e mi chiedo come meglio conversare con il potenziale lettore, secondo quali categorie: qual è il mio modo di ‘ricevere’ un film? Vederlo, innanzitutto. Pensarci e parlarne, ovviamente. Lanciarsi a capofitto nelle critiche che si trovano a destra e a manca, persino in internet. Questo modo di procedere ‘per approssimazioni asintotiche’ e confronti con altri individui (amici, registi, critici, antropologi, etc.) mi consente di modulare le mie intenzioni e – come dicevo all’inizio citando Wittgenstein – di andare verso l’altro, di ‘rendergli visita’ senza preconcetti. E per quanto riguarda, più specificamente, il film di Kaurismäki? C’è solo l’imbarazzo della scelta, per esempio, su Internet, se si vuole procedere, come faccio io, per approssimazioni. E qui viene però il bello!

 Umanità impalpabile (ph. L. Taverna)

Umanità impalpabile (ph. L. Taverna)

Qualcuno, su internet, dice che Kaurismäki è in fondo divertente come al solito: soltanto, però, quando si tratta di prendere in giro gli stessi finlandesi; allorché si prendono in conto i migranti, le cose cambiano e Kaurismäki perderebbe in immaginazione, creando personaggi scialbi che non sembrano nemmeno dei veri e propri rifugiati. Mi chiedo io di rimando: come devono sembrare i rifugiati? Devono strapparsi continua- mente i capelli e cercare di essere rappresentati là – nei luoghi usuali – dove i media ce li rappresentano, in mare o in procinto di attraversare un confine, magari perdendoci pure la vita? Io credo, al contrario, che Kaurismäki dia una buona rappresentazione dei rifugiati: perplessi e pensierosi, stritolati dalle istituzioni e incerti sul loro futuro, talvolta spenti nell’animo o confusi, in preda ai marosi dello straniamento temporale e spaziale, materiale e simbolico.

Questo punto di vista è, più in generale, per quanto riguarda i migranti, fortunatamente condiviso da molti antropologi, avversi, come me, a una rappresentazione troppo omogenea e stereotipata data dai telegiornali o altro. Jackson, per esempio, in Excursions racconta la storia di Sewa che, dalla Sierra Leone, si trasferisce a Londra ed è costretto, nonostante abbia un regolare visto d’ingresso, a subire i rischi e le incertezze che incombono continuamente sui migranti: Sewa racconta infatti di avere, persino nella vita ordinaria condotta giornalmente a Londra, sempre l’impressione di vivere sotto una cappa di costante pericolo, di potere finire nelle mire dei poliziotti, di fare qualche errore fatale di cui non si rende bene conto dalla sua prospettiva culturale. Come scrive Jackson

«There was something dreadfully nonnegotiable about his situation. In Sierra Leone, one’s destiny was determined by a network of face-to-face relationships with people to whom one was obliged or who were under obligation to oneself, people who in local parlance one could ‘‘beg’’ or from whom one could borrow money, expect a meal, or a roof over one’s head. But in London, Sewa discovered that he had passed from a patrimonial to a bureaucratic regime in which power seemed to reside less in people to whom one could appeal than in an impersonal force field that found expression in a stranger’s stare, a policeperson’s orders, a supervisor’s demands, or the letter of the law» (Jackson 2007: 114-115).
Perplessità (ph. L. Taverna)

Perplessità (ph. L. Taverna)

In breve, Sewa non ha soltanto cambiato paese, ma, anche, prospettive di vita e di approccio culturale all’esistenza stessa intesa in quanto forma di relazioni con altri individui e tipi di vario schiacciante potere: sostanzialmente, Sewa è passato da un regime patrimoniale (quello al quale lui è abituato, nel suo paese, in Africa) a un regime burocratico e impersonale che lo tiene in sospeso in ogni sua azione e situazione di migrante (caratterizzandolo, a Londra, nella sua nuova vita a lui tutto sommato estranea). La storia di Sewa, per quanto in apparenza meno sofferta di quella finzionale di Khaled, riporta al film di Kaurismäki e al senso di sballottamento temporale introiettato dal regista nel suo film, con tutte le conseguenze che esso comporta e di cui abbiamo già parlato, ben riassunte da Jackson nel brano seguente: «Perhaps the worst fate that can befall any human being is to be stripped of the power to play any part in deciding the course of his or her life, to be rendered passive before impersonal forces he or she cannot comprehend and with which he or she cannot negotiate.» (Jackson 2007: 116). Non a caso, Jackson intitola il suo libro, in cui è contenuto il saggio in cui parla di Sewa, Escursioni: lo fa, giustamente, per sottolineare il principio che il pensiero è sempre in movimento e che il pensatore è un individuo la cui escursione teorica è sempre sottoposta alla prova dello straniero. «Molto condivisibile», preciso io. «E non è finita qui», aggiungo ancora. In qualche modo, infatti, pensando alle escursioni come stratagemma di scrittura e di pensiero, Jackson mette pure in risalto il possibile parallelo tra lo spostamento breve, qual è effettivamente l’escursione, e la migrazione che ne implica uno ben più ampio e straniante.

Resta il fatto, greve e doloroso, come lascia trasparire Jackson, che i migranti sono sottoposti a quel grave peso esistenziale e morale che nessuno vorrebbe mai avere nel corso della propria vita: i migranti sono per lo più esseri tendenzialmente de-soggettivati (dai poteri e sapere altri), resi passivi (dalle istituzioni totali), le cui decisioni a loro riguardo sono prese per loro conto da altri (da altri individui che sovente dimenticano le virtù della solidarietà). Resta, dunque e ancora, il fatto importante che la migrazione – come d’altronde confermato dalla storia finzionale di Khaled – non mette unicamente a fronte individui tra loro, ma, soprattutto, istituzioni e individui singoli che devono farsi carico dello strapotere delle istituzioni. In altri termini, come sottolinea Lamphere, le barriere più forti sono sovente d’ordine immateriale:

«separazione e divisione non sono semplicemente fondate su scelte, barriere linguistiche o differenze culturali troppo difficili da sormontare. Sono inoltre il risultato di modelli mantenuti, persino creati, dalla struttura delle istituzioni attraverso cui i nuovi arrivati interagiscono con i residenti abituali. Queste istituzioni – consorzi, sistemi scolastici, amministrazioni cittadine, società per alloggi popolari – mediano e plasmano le interrelazioni, rendendo spesso difficile un ponte tra i nuovi immigrati e gli altri» (Lamphere 1992: VIII).

Questo elemento relativo all’istituzione non è di poco conto, se non altro perché, nell’immaginario comune, la migrazione sembra risolversi in un confronto tra singoli individui appartenenti all’ingrosso a culture diverse o in un posizionamento concettuale e interindividuale (tra coloro i quali propendono per l’accoglienza e la solidarietà e coloro i quali sono invece più inclini al rifiuto e all’ostilità). Come mostra bene il film di Kaurismäki, invece, il confronto avviene anche tra il singolo e l’istituzione, tra il migrante de-soggettivato e l’interazione con l’incognita rappresentata dall’istituzione soverchiante. Sebbene in altro ambito, sebbene all’interno di una sola cultura, questo problema era già stato ben evidenziato da Goffman (Goffman 1968) in un libro esemplare sul potere delle istituzioni; adesso, io ritengo, il problema si pone con più forza, in chiave interculturale, più complessa, nel campo della migrazione e della diaspora.

La focalizzazione analitica sulle istituzioni e sul loro potere, a questo fine, deve allora essere più forte al fine di meglio comprendere la migrazione e non deve farci desistere dallo studio più esteso, più interdisciplinare, del fenomeno. A questo effetto, tutti dovrebbero contribuire: la televisione, gli organismi internazionali, le organizzazioni non governative, i singoli scrittori, il cinema, gli antropologi, i linguisti, etc. Sovente, invece, le rappresentazioni dei flussi migratori che ci vengono, per esempio, dalla televisione – soprattutto dai telegiornali – contribuiscono a dare un’idea di migrante sempre sulla frontiera oppure in arrivo al porto di destinazione dove altri individui se ne faranno ‘caritatevolmente’ carico. Ovviamente, questa è una situazione di fatto: i migranti affrontano viaggi pericolosi e devono superare ogni tipo di frontiera allo scopo di abbandonare definitivamente il loro paese in guerra e rifarsi, possibilmente, con il favore della sorte, una vita altrove. Detto questo, però, nell’immaginario comune, grazie ai media, si tende soprattutto alla costituzione di questa idea di migrante a scapito di altre ugualmente sofferte e importanti per la comprensione della complessità del fenomeno.

 Denegazione dell'altro (ph. L. Taverna)

Denegazione dell’altro (ph. L. Taverna)

Alla lunga, più che focalizzare l’attenzione sui migranti, i media tendono, bombardando lo spettatore con le loro ‘immagini’ tutte uguali, rimbalzanti da un media all’altro, a produrre una sorta di denegazione dell’altro, anestetizzandolo, anestetizzandone gli effetti. Io penso che le strategie di denegazione dell’altro – strategie, sia discorsive sia narrative, di resa e simmetrica denegazione dell’alterità, che si producono attraverso i vari linguaggi in uso – vadano prese bene in conto per capire cosa sta succedendo in questa era di globalizzazione e diaspore planetarie. Io penso che le strategie di denegazione dell’altro vadano prese in conto nella loro specificità, ma, anche, tenendo conto dell’effetto complessivamente anestetico provvisto dalla serialità delle immagini, soprattutto se queste forniscono la base indifferenziata dei vari discorsi che si fanno comunemente, in maniera stereotipata: le immagini, sempre le stesse, passano per esempio da un canale all’altro della televisione, come se la realtà fosse unica e indifferenziata, resa da un occhio in apparenza impersonale e neutralizzante.

Le immagini che si trasmettono in televisione, in definitiva, ci danno spesso un’idea deviata della migrazione (o, comunque, parziale): i migranti arrivano a frotte e noi sembreremmo prendercene cura con pazienza. Li vediamo, al molo dei nostri porti, sbarcare dalle navi di soccorso, attorniati da individui che li aiutano a trasbordare, mettono loro addosso qualche coperta, si occupano di procurare loro qualcosa da mangiare subito. L’aspetto evaso – Barthes direbbe ‘l’ottuso’ – risiede nel fatto che il tempo drammatico, doloroso e talvolta fatale delle innumerevoli attese durante il loro lungo viaggio, cui sono stati sottoposti i migranti, viene obliterato, e il migrante viene concepito come colui il quale vive, da sregolato, sulla ‘frontiera’ e non come qualcuno che vive anche in città, tra noi, tutti i giorni, nella nostra indifferenza, mentre parcheggiamo o ci fermiamo a un semaforo. Il migrante – sia in viaggio sia in città – vive di attese, forse silenti, ma le vive come se fosse costantemente in stato di allerta, nella sospensione della guerra: il migrante vive nella situazione paradossale di chi traduce in elementi esistenziali l’ossimoro del vivere, la passività inerme e allo stesso tempo la subordinazione all’altro. Oltre l’immaginario della frontiera quindi, pur importante, bisogna rendersi conto che l’attesa, nella sua consistenza tragica, fa dunque parte integrante della migrazione, nonché della guerra e di molti altri momenti drammatici in cui la vita è in pericolo o le comunicazioni si affievoliscono. Per darne un’idea, cito un lungo ma significativo passaggio, scritto da Fazel, sulla guerra come attesa e assenza di comunicazione:

«Vivo nell’attesa. Dal giorno dello scoppio della guerra nel mio paese, ogni comunicazione si è interrotta. Non ho più notizie di mio zio e dei miei cugini, e così come me, vivono nell’attesa i miei connazionali sparsi in giro per il mondo. Sembra che tutto si sia fermato: niente telefoni, la posta non funziona, gli aerei non partono. È come se fossimo ripiombati nel medioevo. Le uniche frammentarie notizie che si ricevono provengono, rimbalzando di bocca in bocca, da quei fortunati che sono riusciti ad abbandonare il paese. Su questi scarni frammenti si fanno congetture ed illazioni, cercando di mantenere viva in noi la speranza di sopravvivenza dei nostri cari. E così continuo a vivere nell’attesa, accontentandomi delle rare immagini della televisione che mi lacerano il cuore: fame, morti, imboscate, aiuti che arrivano e aiuti che non arrivano. Pochi secondi e si passa ad un’altra notizia, mentre io piombo nel buio popolato dalle mie paure, dai miei ricordi e dalle mie speranze » (Fazel 1994: 49.50).

La denegazione discorsiva ed effettiva del migrante, oltre che con l’obliterazione dell’attesa infinita cui viene sottoposto, passa anche attraverso l’uso di linguaggi meno complessi, passa persino attraverso la ‘proposta’ mediatica di singole parole; nonostante ciò, nonostante l’apparente minore complessità, il fenomeno può prendere una piega altrettanto rovinosa, persino – come accade spesso – nell’uso, in apparenza neutrale, di un solo termine. Si pensi al termine ormai comune di ‘emergenza’, sovente in uso in televisione per gli sbarchi dei migranti: con questo termine, altalenante semanticamente e pragmaticamente, si vorrebbe dire che il fenomeno non rientra nella normalità delle cose e non ha tendenza ad acquisire carattere iterativo (la connotazione è che si tratterebbe di qualcosa di imprevisto per il quale, proprio per questo, per il suo carattere circostanziale, si comunica l’idea che non si è potuto fare molto); dietro l’uso di questo termine si cela, tuttavia, un senso generalizzato di deresponsabilizzazione, rispetto all’emergere del fenomeno migratorio, tenuto conto del fatto che la frequenza degli sbarchi non tende invece a smorzarsi ma a intensificarsi. In breve, in questo caso, deresponsabilizzazione vuol dire questo: «noi non ne abbiamo colpa, è successo al di fuori della nostra volontà». La denegazione, tenuto conto di tutto questo, diventa un procedimento discorsivo la cui portata è realmente amplissima e le cui conseguenze, purtroppo, non si limitano a giochi linguistici fini a se stessi o individualmente intesi, ma può estendersi persino a includere un popolo intero (per i curdi, cfr. Akin 1999) o, comunque, grandi insiemi di individui accomunati da qualche tipo di categorizzazione deresponsabilizzante.

Da qualche tempo in qua, per esempio, in occasione delle traversate, si dicono sempre più spesso, nei telegiornali italiani, le parole seguenti: «i poveri disperati». I migranti – dico io – sono sicuramente ‘poveri’ e ‘disperati’: sono tuttavia essere umani da salvare dalla disperazione, essere umani a cui dare solidarietà e sollievo economico. Se sono poveri e disperati, bisogna allora salvarli da povertà e disperazione e non soltanto ‘additarli’ o ‘nominarli’ in quanto tali, relegandoli – nella sistematica ripetizione del dire e mostrare – a uno stato di imperitura condizione mediatica. E, ancora, a proposito di denegazione dell’altro: nei dibattiti politici si insiste sulla differenza, semanticamente sottile, tra ‘profughi’ e ‘migranti economici’. Anche questa differenza, per quanto di primo acchito innocua, è un ricorso linguistico che serve a negare discorsivamente, per categorizzazioni di superficie, il fatto che fuggire dalla guerra e fuggire dalla fame sono sostanzialmente parte di uno stesso dramma vissuto dolorosamente.

Nessuno voleva vedermi (ph. L. Taverna).

Nessuno voleva vedermi (ph. L. Taverna)

Per riassumere quanto detto fin qui, allora, si può vedere la migrazione come un elemento vissuto per ‘interposizione mediatica’: attraverso i giornali, la televisione, internet, etc. Si può, ugualmente, vedere la migrazione come un elemento esperito direttamente e individualmente da molti di noi. E spesso non è meno discutibile. Tutti i giorni, o quasi, perlomeno nelle grandi città, veniamo a contatto con i migranti: siamo talmente abituati ai lavavetri che non li notiamo più; siamo talmente abituati ai parcheggiatori che non li percepiamo più, se non per il fastidio che proviamo quando ci chiedono qualche soldo. Oltre i media e il vissuto diretto, ritengo che il cinema abbia la sua parola da dire nel campo della migrazione. Io penso che la migrazione al cinema, al di qua e al di là del suo valore artistico, sia un modo per introdurre altri punti di vista, più fertili, meno stereotipati. Uno snodo è importante, nella mia prospettiva di antropologo dei linguaggi, e voglio sottolinearlo ancora, con più forza. Che siano i telegiornali, i migranti in carne e ossa o le narrazioni cinematografiche, i linguaggi – più propriamente, gli usi che ne fanno i vari operatori addetti all’enunciazione – contribuiscono a modellare il modo in cui noi vediamo quotidianamente i migranti e il flusso migratorio, trasponendolo talvolta in chiave più monologica, talvolta in chiave più dialogica.

Il punto di vista di Kaurismäki, come abbiamo visto, è dialogico: mette a fronte punti di vista diversi, fa conversare linguaggi diversi quali il tempo, le vite dei personaggi, persino i migranti tra loro oppure i concetti stessi, straniandoli dal contesto d’origine e risituandoli in altri contesti concettuali. Oltre gli esempi già presi in conto, per chiarire definitivamente la questione, vale la pena prendere in conto un ultimo, esemplificativo caso, tratto dal film in questione. Allorquando viene chiesto a Khaled come ha fatto ad arrivare in Finlandia, lui risponde: «È stato facile, nessuno voleva vedermi». Questo dialogo minimale non è un semplice scambio di battute o la soddisfazione di una curiosità e uno stupore in sé; in effetti, attraverso questo dialogo si mette in scena il problema dell’invisibilità/visibilità dei migranti, della nostra assuefazione neutralizzante alla loro vita durante i loro lunghi viaggi, alla loro presenza nelle nostre città come parcheggiatori e lavavetri. D’abitudine, come già accennato, i media tendono a rappresentare i migranti sulla frontiera, sollevando, così, l’emozione e la pietà dello spettatore; una volta però che i migranti sono arrivati in città, emozione e pietà dello spettatore si perdono nel magma dell’indifferenza. Ciò porta a dire che la fase del viaggio, vissuta dai migranti, è certamente drammatica – non dobbiamo dimenticarlo – ma ne oblitera un’altra non meno drammatica, benché meno visibile nei suoi riflessi emotivi: la loro vita quotidiana, altrettanto penosa, risolta in una vita d’attesa e di speranze disattese (il titolo italiano del film di Kaurismäki è giustamente L’altro volto della speranza).

La domanda da porsi in chiave antropologica è allora la seguente: come vivono i migranti al quotidiano, in mezzo a noi, nelle nostre città? La dialettica tra esperienza e aspettative – a cui Koselleck aveva dato una grande centralità, a proposito di natura umana nel suo processo storico (Koselleck 2007) – viene rimessa in gioco (e in dubbio) proprio con i migranti, con le loro vite quotidiane. Per rimetterle veramente in gioco, in positivo questa volta, più che di migrazione in astratto, si dovrebbe secondo me parlare di migranti concretamente intesi, ponendosi, tra le altre cose, il fine di «portar fuori dall’anonimato le vite e le voci di questi subalterni» (Verdoscia 2010: 150). Perché ciò sia effettivo ed efficace, si dovrebbe continuare a valorizzare il punto di vista del migrante, anche attraverso la (buona) letteratura e il (buon) cinema. Gli esempi, sovente autobiografici, di stampo più o meno letterario, fortunatamente sono oggigiorno innumerevoli. Un testo pregevole, tra i tanti, che consiglierei di prendere in conto è Il viaggio delle bottiglie vuote di Abdolah, se non altro per un motivo preciso: si narra il superamento di una serie di frontiere per un migrante che si trova già sul posto, in Olanda, in un alloggio assegnato dallo Stato e deve però, nonostante tutto, affrontare gli ‘sbarramenti’ molteplici con i quali si trova a venire alle prese in un Paese straniero (linguistici, materiali, culturali, di genere, etc.). È, quindi, una storia resa attraverso una serie di frontiere da superare, visibili e invisibili, che incomincia proprio con il risiedere nel paese che lo accoglie legalmente: un paese che, purtroppo, accoglie anche con la cecità di chi pensa il mondo in una sola chiave culturale. Particolarmente significativo è il caso in cui al protagonista e alla sua famiglia vengono regalati dei vestiti dismessi: «Non sapevo se fosse un modo per entrare in contatto o se volessero semplicemente darci qualcosa per farci la carità. Ma noi la vedevamo in tutt’altro modo. La consideravamo una specie di umiliazione. Venivamo da una cultura in cui non si accettano nel modo più assoluto cose usate da altri» (Abdolah 2006: 14).

 Possibilità della parola (ph. L. Taverna).

Possibilità della parola (ph. L. Taverna)

Insomma, che sia un telegiornale o un testo letterario, si pone in ultima istanza il problema del modo in cui narrare l’altro (e se stessi) senza denegazioni discorsive e figurative: si pone dunque il problema del come costruire una storia di migranti nelle arti, al cinema e persino nelle semplice sintesi televisive o nelle recensioni dei film senza procedere per deresponsabilizzazioni. La domanda generale è, dunque, la seguente: come deve essere costruita la trama di un film, un romanzo o una sintesi televisiva? Non si hanno certezze logiche, ma è bene comunque rifletterci. Tra i tanti che ho letto su internet, un critico, per esempio, giudicava la storia narrata nel film di Kaurismäki poco interessante perché priva di sorprese: se non ci sono sorprese, non si tratterebbe di un film valido artisticamente. Dal mio punto di vista, le storie interessanti non sono soltanto quelle che riservano delle sorprese – la sorpresa o la suspense dipendono sovente dal genere, per esempio il thriller, preso in conto – ma, anche, quelle, come nel caso di Kaurismäki, il cui centro di interesse risiede altrove: non tanto nella sintassi narrativa dunque – di tipo più lineare com’è nel film – quanto nel modo di organizzare polarità da esprimere e smussare: l’accoglienza e il suo rifiuto, la solidarietà e la chiusura, la visibilità o l’invisibilità del migrante.

Cosa dire, in conclusione, per chiudere il mio ‘saggio scritto per approssimazioni’, linguisticamente decentrato, antropologicamente riflessivo, in maniera meno asintotica? Direi subito, d’acchito, che bisognerebbe dare una maggiore attenzione allo sviluppo economico dei Paesi da cui provengono i migranti; direi ugualmente, più antropologicamente, che si tratta di prendere in conto gli imperialismi culturali di ieri e di oggi, comparandoli e decostruendone teoricamente la portata simbolica (Lanternari 1983). I termini, come abbiamo visto, contano, anche quelli in apparenza più innocui quali migrazione o immigrazione. Se si va infatti a ritroso nella storia dell’umanità, si vede bene che è caratterizzata da un’incessante mobilità: ragione per cui è razionale parlare di spostamento e migrazione, più che d’immigrazione che la connota in un solo senso. Il rapporto tra imperialismi, di cui parlava Lanternari, e la migrazione è evidente e tutt’ora squilibrato: se non altro perché, come ricordano Rodier e Terray, i cittadini dei Paesi ricchi possono spostarsi senza problemi, ovviando ai problemi che invece incombono sistematicamente sui più poveri (Rodier, Terray 2008).

Prendendo, infine, come esempio, per le mie divagazioni antropologiche, un film di Kaurismäki, non ho voluto soltanto partire da un caso bello e concreto di rappresentazione della migrazione al cinema. Non solo. Ho inteso inoltre mettere l’accento su alcune, potenziali qualità intrinseche, più generali, dell’arte. Essa può ben rappresentare atti di resistenza politica, di disaccordo, contro il potere instaurato (Bal, Hernandez-Navarro 2011); essa può pure rappresentare, altrettanto positivamente, il flusso migratorio, svincolandolo dalla trama di connotazione purtroppo tragica che possiede: anche l’arte migra e arricchisce, con la migrazione, se stessi e gli altri (Durrant, Lord 2007). D’altronde, perché non accogliere le note positive di un fenomeno che viene, sovente, benché giustamente, proposto in termini negativi? Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo, cerco sempre di interrogarmi sui compiti spettanti all’antropologo. Dopo questa incursione nel cinema di un autore finlandese, un dominio soltanto in apparenza lontano dai processi migratori in vivo, la mia ipotesi su ciò che spetta fare all’antropologo a proposito di migrazione – vale però anche per altro – è chiara: ampliando la nozione di campo malinowskiano, un antropologo dovrebbe prendere in conto la realtà sociale e culturale a tutto tondo, scoperchiando valori denotativi e connotativi implicitamente assegnati alle categorie (e alle processualità sovente surrettizie di categorizzazione) costituite e veicolate dai vari linguaggi compenetranti realtà e cultura. Già nel lontano 1975, a proposito di distinzioni categoriali, Wagner affermava: «Il futuro della società occidentale sta nella sua capacità di creare forme sociali che rendano esplicite le distinzioni fra le classi e i segmenti della società, così che queste distinzioni non si producano da sole come razzismo, discriminazione, corruzione, crisi, rivolta, “imbroglio”, “intrallazzo” e così via, impliciti e necessari” (Wagner 1992: 183).

Più vicino a noi, nel tempo, un antropologo del linguaggio come Goodwin combina intimamente, nel suo lavoro di analisi, pratiche del vedere e pratiche del fare, accogliendo l’ipotesi secondo cui studio dei linguaggi e studio del mondo materiale vanno di pari passo, si costituiscono vicendevolmente. La categorizzazione, nella prospettiva di Goodwin, più che un elemento astratto e in sé, separato dal mondo vero e proprio, deve essere presa in conto nei vari contesti d’uso, a partire dalle pratiche sociali: «il significato di un nome non è l’elemento o gli elementi della realtà da esso designati (ad esempio le sfumature di colore), [e per questa ragione] lo studio del significato dovrebbe descrivere le pratiche necessarie a far uso di un termine in modo competente all’interno di uno specifico gioco linguistico» (Goodwin 2003: 117). Insomma, le categorie vanno viste nelle pratiche, ivi compreso le categorie che designano, rappresentano e rimandano ai processi migratori. Ciò vale pure per le categorie inscritte nel mio saggio e per il modo di scriverlo. Nel processo di stesura del mio saggio ho infatti utilizzato una scrittura che, mentre procede, rivela a me stesso tratti del processo e di associazioni di pensieri che dialogano tra loro e con pensieri d’altri, si traducono tra loro e con altri concetti.

Nella mia prospettiva, dialogo e traduzione sono processi affini e correlati che valgono, qui e altrove, in opposizione ferma a un punto di vista che vede invece nell’accostamento di linguaggio/pensiero/azione una triangolazione, un rimando dall’uno all’altro. Una lettura, che non condivido, dell’ipotesi Sapir-Whorf va infatti in quest’ultimo senso: dal linguaggio si rimanda al pensiero e dal pensiero alla realtà. L’interdipendenza tra lingua e pensiero deve essere invece intesa, secondo me, nel senso che – nonostante le differenze categoriali tra le culture siano evidenti e concordemente accettate – categorie e concetti sono inoltre passibili di comparazione, accostamento e traduzione all’interno e all’esterno di una cultura; al contempo, di pari passo, la realtà stessa è, senza perdere consistenza e sussistenza, intreccio di linguaggi: «la natura stessa dell’atto intellettuale può essere descritta nei termini di una traduzione: la definizione del significato è una traduzione da una lingua a un’altra, mentre la realtà extralinguistica è anch’essa concepita come una certa lingua» (Lotman 1993: 16). In definitiva, penso alla traduzione come a una pratica: del pensare e del vivere. In sostanza, per semplificare, credo nell’enunciare le possibilità polisemiche della parola contro la parola univoca gestita dal potere.

Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017 

 

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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.

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