CIP
di Antonella Tarpino
La prima volta che ho sentito il nome di Alberto Magnaghi – grande urbanista, ideatore e fondatore della Società dei territorialisti italiani – era nei lontani primi anni Settanta quando mia sorella, iscritta ad Architettura a Torino, prese parte col suo gruppo di studio all’esperienza di Città fabbrica, la ricerca-intervento guidata da Alberto Magnaghi, docente all’epoca di Composizione architettonica, che già intuiva fin da allora, nella principale company town italiana, lo stretto rapporto fra produzione economica e territorio. E che, in questo, metteva in evidenza un aspetto destinato a caratterizzare tutta la sua lunga esperienza intellettuale, e cioè l’inseparabilità del lavoro di ricerca e di elaborazione scientifica dall’impegno nel sociale e dall’attenzione a quanto di vivo in esso si muove.
Esponente di primo piano dell’operaismo (finì in carcere preventivo – poi prosciolto – nel corso dell’inchiesta 7 aprile [1]), aveva fondato nel 1976 la rivista “Quaderni del territorio”, introducendo, pioneristicamente, nel dibattito della sinistra la centralità del tema del territorio come luogo politicamente connotato dal conflitto tra le classi. Un’intuizione destinata a diventare tanto più significativo nella crisi dell’esperienza della grande fabbrica che segnò il decennio successivo e l’avvio del cosiddetto postfordismo con la microdiffusione dello sviluppo produttivo nel quadro della globalizzazione in atto.
Già in quegli anni Alberto Magnaghi, attento prima di molti altri alla problematica ecologista (l’ultimo volume da lui curato, insieme ad Ottavio Marzocca si intitola proprio Ecoterritorialismo) [2] considerò gli effetti devastanti e gli abusi che il disseminarsi della cosiddetta Fabbrica-diffusa produceva sul territorio, reso sempre meno luogo dell’abitare e sempre più luogo del produrre (anzi, del produrre-per-competere) mentre nei processi accentuati di deindustrializzazione le città metropolitane diventavano conurbazioni informi, e il territorio nel suo complesso sperimentava spiccate tendenze di de-territorializzazione nel suo complesso.
Ancora una volta un’intuizione precoce, che lo porterà a insistere, contro i rischi di uno sviluppo per lo sviluppo (penso al libro Il territorio degli abitanti e in seguito a Il progetto locale [3]) sull’autodeterminazione dal basso, dove il territorio diventa l’elemento di mediazione, nelle dinamiche coevolutive di lunga durata, tra insediamenti umani e ambiente.
È il principio territoriale (che dà il nome al suo recente importantissimo libro del 2020 [4]) a innervare una visione attiva tanto più urgente nelle crisi sociali ed ambientali in atto, che contrasti le derive di un mondo troppo orientato a un ottimismo funzionale tecnologico (la digital economy, le relazioni globali di dominio dei flussi sui luoghi, il capitalismo cognitivo) e volto pericolosamente al «compimento di una seconda natura artificiale costruita autonomamente e gestita da mega-apparati ipercentralizzati». Che radichi, al contrario, il sistema politico al territorio stesso, in cui si integrano nella realtà vita e lavoro (richiamandosi anche alle “comunità concrete” di Adriano Olivetti) proponendo una nuova “civilizzazione antropica”. Che vada al di là, in sostanza, di un’astratta difesa dell’ambiente ma ricostruisca nella sua complessità e concretezza il rapporto fra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione “dal basso” tutti gli elementi di produzione dello spazio.
Ciò richiede, nell’ipotesi territorialista, di reimmaginare prioritariamente gli spazi – urbani, e non – attraverso la chiave della bioregione urbana volta a riattivare relazioni sinergiche fra sistemi antropici, ambiente e mondi viventi. Rigenerando le connessioni (e insieme le separazioni) necessarie fra questa pluralità urbana e il territorio rurale che costituisce il canale di comunicazione principale fra i cicli della vita umana e quelli della vita naturale. Riconoscendo in chiave bioregionale le relazioni fra città e ambiente: fra gli insediamenti, gli assetti geo-morfologici dei luoghi, la circolazione delle acque, i sistemi costieri, i loro entroterra
In primo piano sono le «comunità territoriali» innovative, e le amministrazioni locali, chiamate a darsi regole, comportamenti, culture e tecniche ecologiche dell’abitare e del produrre e che, attraverso una crescita della «coscienza di luogo», restituiscano agli abitanti la capacità di riproduzione dei propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico.
Il ritorno al territorio (alla terra, a riabitare la montagna, all’urbanità, ai sistemi economici locali) non è dunque solo un rivolgere nuovamente lo sguardo ai luoghi, «un percorso di contro-esodo», per riattivare le relazioni coevolutive fra insediamento umano e ambiente: esso è anche lo sviluppo di un sapere tecnico, scientifico e contestuale che riguarda la natura patrimoniale dei luoghi stessi (ancora da Il principio territoriale). È un ripercorrere sentieri dimenticati tenendo insieme storie di vita, memorie, classificazioni vegetali, elementi costruttivi, morfologie urbane, tecniche idrauliche, dialoghi interrotti, archivi sapienti. Secondo i princìpi di un “ritorno” destinato a cambiare insieme la nostra percezione individuale e collettiva, il nostro stare al mondo e la nostra capacità di trasformarlo.
“Ritorno” cui io stessa, come altri, ho dedicato gran parte del mio lavoro di ricerca sui paesi in abbandono e il paesaggio fragile [5] che tuttavia, con le riflessioni di Magnaghi e di Giacomo Becattini [6] si sostanzia ulteriormente fino a delimitare non solo uno spazio geografico in via di ri-territorializzazione ma un insieme di luoghi dotati di profondità storica e di identità: educando gli abitanti a quella coscienza di luogo – disintegrata da decenni di mercato selvaggio – come strumento di riappropriazione della capacità di autogoverno di una comunità che riscopre i propri valori patrimoniali. Rendendosi – per usare il linguaggio di un poeta paesaggista come Andrea Zanzotto [7] – riconoscibile a se stessa.
La densa produzione di Alberto Magnaghi, in particolare con il Il principio territoriale, ci ha consegnato una sintesi altissima della sua elaborazione più matura e, insieme, un progetto di lavoro per l’ampia rete di studiosi militanti che, da ogni parte d’Italia e non solo, ha raccolto, nel corso degli anni intorno a sé. Il suo sguardo acuto e gentile mancherà’ enormemente a tutti noi.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Alberto Magnaghi racconta l’esperienza nel libro Un’idea di libertà. San Vittore ‘79-Rebibbia ’82, DeriveApprodi, Milano 2014; Ecoterritorialismo (a c. di Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca), Firenze University Press, 2023.
[2] Ecoterritorialismo (a c. di Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca), Firenze University Press, 2023.
[3] A. Magnaghi, Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Zanichelli, Bologna 1998, Id. Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010. Naturalmente non seguirò per intero la sua bibliografia.
[4] A. Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
[5] A. Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino 2016.
[6] Cfr. Aa.Vv, La coscienza di luogo nel recente pensiero di Giacomo Becattini (a c. di Alberto Magnaghi) Firenze University Press 2017.
[7] A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi (a c. di M. Giancotti), Bompiani, Milano 2013.
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Antonella Tarpino, editor e saggista ha pubblicato: Sentimenti del passato, La Nuova Italia 1997; Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi 2008; Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi 2012; Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2016; Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo, Einaudi 2020; Il libro della memoria, Il Saggiatore 2022. È vicepresidente della Fondazione Nuto Revelli e fa parte della Rete dei piccoli paesi.
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