Fine Secolo XIX/inizio XX. Una soglia temporale ampia, teatro di grandi trasformazioni a NYC che, in quegli anni, si sviluppa in modo veloce, rapace e sperequativo. L’assetto originario di New Amsterdam, tracciato dagli olandesi, che nel XVII secolo s’insediano nella parte sud dell’Isola della collina – ciò “Manhattan” significa – è, nel XIX secolo, superato, se non per la persistenza di pochissimi edifici (come Trinity Church) [1] e di alcune tracce a terra delle “vecchie” strade di Downtown, vasto ambito in cui le costruzioni di primo impianto sono state quasi tutte sostituite.
Oltre il “peso” che si espande e il respiro potente proprio della città, alcuni macro-eventi hanno cambiato, durante il secolo precedente al XIX, l’organizzazione geopolitica a livello mondiale: l’Indipendenza degli States nel 1776, la fondazione di una Federazione e di una Capitale federale (Washington D.C., disegnata da un urbanista europeo, nel 1791-‘92), lo spostamento dell’asse economico verso ovest (verso l’America, appunto), l’assetto e lo sviluppo di un vasto territorio. L’America del nord, post Civil War (Guerra di Secessione), rafforza la componente produttiva che ha, nelle città, alcune fondate da un giorno all’altro, e nei territori non edificati, i propri fertili fulcri.
Tale macro ambito è strutturato da territori extraurbani produttivi (allevamenti; miniere), da una rete di attraversamento e da numerose città. Sulla costa e nell’entroterra: Boston, New York, Philadelphia, Baltimora, Rochester, Buffalo, Cleveland, Pittsburgh, Columbus, Cincinnati, Detroit, Chicago, Indianapolis, St. Louis, Milwaukee, Omaha, Kansas City. E, oltre a queste, Atlanta e New Orleans, più a sud, separate da un ovest e da un’area prima non interessata da un’urbanizzazione generalizzata. Un sistema imponente al quale associare altre due città, sulla West coast: Los Angeles e San Francisco, anch’esse, sebbene in misura molto minore, connesse con lo sviluppo di NY.
A questo quadro, che si articola e diviene più complesso nel tempo, attraverso dinamiche allargate, attive a livello globale ante litteram, corrisponde la formazione di un capitale metamorfico e spregiudicato (sia integro, sia crony capitalism) che vive dell’azione umana, mette insieme codici di comportamento, code of conduct, corruzione e una determinata idea di progresso in cui convergono tecnologia e innovazione. Un progresso che utilizza, produce e consuma con rapidità, che si fonda sulla comunicazione (lo scambio mutuo) e l’informazione (la diffusione dei giornali), su una specifica democrazia (vd. A. de Toqueville) [2]. Tutto ciò concorre a definire uno “stile” che avrà una grande influenza sulla crescita e sulla potenza americane, sull’articolazione del territorio nazionale e sulla filosofia che sostanzia la nascente American way of life, l’ethos nazionalista, con i suoi apparati teorici rintracciabili negli scritti di autori come J. Dewey o W. James [3].
Condizione rappresentata in un volume scritto a quattro mani (Mark Twain e Charles Dudley Warner): The Gilded Age: A tale of Today. Il libro, pubblicato nel 1873, racconta, in modo impietoso, l’esplosione economica post Civil War. Quella lunga stagione – appunto The Gilded Age (la frase fu coniata proprio da Twain) – che riguardò l’intera America del nord e alcune città, una per tutte NYC, fu caratterizzata da speculazioni febbrili e spregiudicate, da una frenetica mobilità di capitali, da un’assenza di governo etico, da rilevanti mutazioni culturali, da una fortissima disparità tra le “classi” e conseguentemente differenti “comportamenti” sociali nonché da una gestione personalistica di molti che, con enorme facilità, mutavano “regole” tutt’altro che persistenti.
Si configura uno specifico milieu, i cui caratteri hanno aperto e ridisegnato i contorni, le linee di flusso a livello globale e le relazioni tra le nazioni, restituendo un assetto in cui non è più solo l’Europa con le sue città a essere l’ombelico del mondo. Ancor più dopo la fine della Civil War (1861-‘65) che negli States determinerà una specifica ri-configurazione politica ed economica, nonché il rafforzarsi di una linea di sviluppo ancor più veloce, forte anche di un’enorme disponibilità di forza-lavoro della quale fanno parte non solo le folle di migranti che provengono da tutta Europa, ma un certo numero di asiatici e soprattutto i neri, liberi post abolizione della schiavitù, diversamente asserviti al Capitale emergente che, da mercantile, diventava industriale e finanziario.
Oltre agli eventi di portata generale, alcuni fatti riguardano le nascenti città americane e in particolare New York. Tra essi l’apertura dell’Erie Canal (1825) che mette la città in connessione con il sistema dei Grandi Laghi, prossimi a Chicago, città “forte” e ricca, che sorge e si sviluppa con estrema rapidità, dalla fine della prima metà del XIX secolo, sede della celebrazione per la scoperta dell’America, tenutasi nel 1893. La mobilità e l’interconnessione, durante una fase in cui le comunicazioni sull’acqua sono meno costose di quelle via terra, a NYC, punto di confluenza e start d’innovazione, di imprese e di economie, facilitarono l’ascesa della città, il transito di persone, di merci, di materie prime, di prodotti e di idee, moltiplicando e incrementando le possibilità e le disparità e attivando competizione interna ed esterna, con le altre città forti in quella fase. Un affresco fatto di alleanze, lotte e sinergie tra fatti, persone e circostanze stretti insieme in un territorio molto ridotto (Manhattan) che, in breve, diverrà molto denso (ab/kmq).
Tra il 1860 e il 1920 la popolazione [4] a NYC (i 5 Distretti, dal 1898) aumenta enormemente; vengono annessi alcuni “nuclei” esterni (Brooklyn, appunto, nel 1898 [5], il ponte è completato nel 1883). Il picco viene raggiunto nel 1940 quando il 5,6 % della popolazione degli Stati Uniti viveva in ambito urbano e il 3% a Manhattan. In questa fase l’industria manifatturiera si stabilizza. Insieme al commercio e alla produzione di abbigliamento e di zucchero, si espandono il settore della stampa, del tabacco, del sapone, del cardboards, i cartoni da imballaggio, inventati e confezionati a Brooklyn.
Nella prima metà del XIX secolo all’esplosione demografica si collegò la radicale ristrutturazione dell’economia e della struttura urbana, nonché l’aumento del “prodotto” che resta costante e utilizza l’enorme forza lavoro presente. Una “folla”, il cosiddetto melting pot, attratta dalla crescita economica che, con essa, istituisce un bipolo solido in cui i due elementi (persone e lavoro) attivano feedback e sinergie potenti.
L’aumento demografico è legato all’immigrazione, più ingente post Guerra Civile (1865). Tra il 1840 e il 1920 i migranti che raggiungono gli States furono circa 37 milioni: 6 dalla Germania, 4,5 dall’Irlanda, 4,7 dall’Italia, 4,2 da Inghilterra, Scozia e Galles, 4,2 dall’Impero Austro-Ungarico, 2,3 dalla Scandinavia, 3,3 dalla Russia (molti ebrei, polacchi, lituani). Le città dell’East coast, NYC in particolare, divennero la loro dimora, mentre alcuni si spostarono nel midwest, lavorando nell’industria o in miniera. Tra il 1903 e il 1914, poi, quasi 12 milioni di immigrati entrarono in USA, quasi tutti via NYC, anche grazie alla riduzione dei costi dei viaggi in transatlantico, alle condizioni di alcuni Paesi tra cui la Russia, che spingeva i propri cittadini ebrei a fuggire, o a stabilirsi a Manhattan. Si aggiunga che gli immigrati giunti a NYC non avevano ragione di spostarsi altrove, per la presenza di propri connazionali (le migrazioni a “catena”), per le condizioni favorevoli del mercato del lavoro che si avvantaggiava ancora di più della enorme disponibilità della mano d’opera, anche se ciò comportava, a volte, una forte sperequazione e una condizione di disagio per un gran numero di persone.
In quegli anni s’incrementò il trasporto pubblico (dal 1904 la subway) che rese possibile agli immigrati l’occupazione dei nuclei periferici dell’Isola, o degli altri quattro Distretti legati da un’interessante relazione gerarchica e complementare tra loro e con Manhattan; una linea, in particolare, connetteva Brooklyn con Manhattan [6]. La grande “città” di Brooklyn, annessa al sistema urbano di NCY, accoglieva, infatti, un’enorme quantità di persone impiegate nelle industrie dislocate proprio a Brooklyn e ai Queens e in parte a Manhattan, dove si addensarono soprattutto altre economie, come si dirà più avanti. Fortemente collegata allo sviluppo urbano, è l’edilizia che richiese un’immensa forza-lavoro: senza soluzioni di continuità, malgrado le crisi di “Panico” e la Grande Depressione del ’29, migliaia di persone furono impiegate in questo settore trainante. Sia per azioni private, sia per iniziative bottom-up, lentamente, iniziarono a comparire servizi sociali specifici per l’immigrazione (utili per i migranti, ma servili al capitale). La domanda di lavoro, l’incremento economico, lo sviluppo complessivo, fecero sì che la città diventasse calamita di un flusso umano che si arrestò leggermente con la legge del 1921, che restrinse gli ingressi.
A tale insieme di fenomeni confluenti, e ad altri fatti, è legato anche il potenziamento del porto di NYC (favorito da oggettive condizioni geografiche e dotato di un peso determinante nel cambiamento del “rango” della città), su cui la Municipalità urbana e i privati investirono una gran quantità di dollari. New York registrò, nella prima metà dell’800, una mole di esportazioni cinque o sei volte maggiore di quella di Boston e 25 volte maggiore di quella di Philadelphia. Anche in tale fatto risiede l’essenza delle economie di agglomerazione urbane newyorchesi. Infatti, il ruolo del porto può essere visto come primo esempio di una rete di trasporto “hub and spoke”, cioè di quel modello di sviluppo della rete costituito da uno scalo in cui si concentrano la maggior parte dei transiti in sostituzione del precedente modello, decisamente più debole.
Il porto, quindi, in pochi anni surclassò quello di Philadelphia, per volume di prodotti trasportati, di affari, di persone. Questo primato si spiega sia per le condizioni geografiche (Manhattan, protetta da Staten Island, ha una bocca di porto più vicina all’Atlantico di quanto non fosse quella di Philadelphia), sia per i cambiamenti della tecnologia di trasporto che vide l’affermarsi di navi transatlantiche sempre più grandi che, rapide, solcavano l’oceano: nel 1834, 1.950 navi dal porto di New York trasportavano 465.000 tonnellate di merci. Nel 1860, 3.982 navi trasportavano 1.983.000 tonnellate di merci. Le navi piccole, modificando il proprio ruolo, di contro, battevano in prevalenza rotte locali trasportando carichi di piccole dimensioni; mentre le grandi navi servivano un mercato allargato, che moltiplicò domanda e offerta, assorbendo i maggiori volumi di produzione, incrementando l’occupazione e richiamando orde di lavoratori, inducendo la tendenza alla centralizzazione, e dando a NYC il ruolo di ganglio, rizoma, e porta economica d’America.
La città gradatamente acquisì competenze, formò istituzioni che sostennero il commercio su larga scala, potenziò (quasi sempre su iniziativa privata) le imprese legate alla “comunicazione” e al commercio, incrementando gli scambi a più livelli: realtà testimoniata anche dal proliferare di case d’asta, di servizi connessi e dal sistema delle assicurazioni che fu il più grande in America. A Manhattan, anche per tale ragione, s’investì nelle banchine, migliorando ulteriormente l’efficienza del porto, come degli altri sistemi di trasporto. Il commercio assunse tratti di “fluida” complessità, le transazioni finanziarie e i guadagni aumentarono. La grande massa di persone che giungeva a NYC vi restava, trovando impiego per l’enorme forza lavoro richiesta per l’incremento e il mantenimento di tale ingente, entropica, magnifica, redditiva macchina urbana.
L’ascesa del porto di New York non è l’unico fenomeno che illustri la concentrazione di economie e la crescita di lunga durata. Il vantaggio iniziale, infatti, si tradusse in un trend positivo in continuità temporale, per un’enorme confluenza di fattori interrelati, manifesti intorno alla fine del XIX secolo. E la città, per steps successivi, crebbe. Prima in modo più “informale”, poi – post 1811 – più strutturato, con alcune soglie che determinarono ulteriori accelerazioni, ulteriori avanzamenti: la fase tra il 1825 e il 1860 durante la quale NYC stabilizzò il proprio ruolo e iniziò a manifestare la propria singolare ambivalenza, tra opulenza e miseria, in assenza di azioni governative per tutelare i lavoratori; il periodo successivo, tra il 1860 e la fine del XIX secolo, che fu di rialzo esponenziale, di incremento e di stridenti contrasti, nonostante il complesso periodo della Civil War e le ricorrenti crisi di “Panico” economico.
Durante le fasi, e con ritmo crescente, moltissimi residenti furono coinvolti nelle economie commerciali e marittime, ma oltre a tale comparto, fin dal 1820 crebbe il settore manifatturiero, registrando 9.523 addetti, mentre 3.142 erano impiegati nel commercio, con un cambiamento intorno al 1850 quando a fronte di 43.340 addetti nell’industria, se ne attestarono solo 11.360 nel commercio. Tra i comparti più redditivi, oltre a quello dell’edilizia (che impiegava anche operai specializzati)[7], in quella fase, si rafforzò il settore della raffineria di zucchero, con un volume pari a 1/3 del valore totale dei prodotti fabbricati in città. Il primo zuccherificio fu aperto nel 1730, seguito da molte raffinerie che garantivano grandi ritorni agli industriali. Lo zucchero, che proveniva dalle Colonie, raffinato a NYC, veniva spedito sia in Europa che negli States. Gli alti profitti, però, vedevano un modesto numero d’impiegati: nel 1860 solo 1.494 dipendenti producevano 19 milioni di dollari di prodotto.
Al contrario, l’industria dell’abbigliamento impiegò, nello stesso arco temporale, 26.857 lavoratori e produsse 22.320,769 dollari di merci, trend di punta, in quel settore, anche per le relazioni privilegiate con l’Inghilterra, esportatore di lana e cotone, che diede luogo a una specifica forma di produzione sartoriale, non concentrata in grandi fabbriche (e quindi non troppo invasiva o caratterizzante la struttura urbana) [8]. La produzione di abiti poi si trasformò in prêt-à-porter anche grazie all’invenzione della macchina per cucire, il cui brevetto fu assegnato nel 1846 a Elias Howe (inventore riconosciuto della macchina, però, nel 1833, fu Walter Hunt). La Singer (fondata nel 1851) stabilì, non per caso, in città la sede della propria Compagnia (si pensi alla Singer Tower, edificata nel 1908, demolita nel 1968) e un’intera sezione della produzione si orientò verso l’abbigliamento, attraendo imprenditori e richiamando lavoratori.
La rete della mobilità, d’acqua e di terra – potenziata anche attraverso lo sviluppo della rete ferroviaria (in gran parte dell’America del Nord) per quanto attiene l’extraurbano, e della subway inaugurata nel 1904 e in perenne crescita, in parallelo con la crescita dell’insediamento – è la trama connettiva che innerva (in e out) la prima città d’America. New York non fu solo capitale economica, ma uno dei suoi Distretti, l’Isola di Manhattan, divenne la città più densamente popolata del pianeta, come attestato, per esempio dal New York State Assembly Tenement House Committee Report del 1894, quando vennero, in alcune aree (tra cui Lower East Side) censiti 8.000 edifici abitati circa da 255.000 residenti.
Accumulazione del Capitale, informazione e innovazione assunsero, in quella fase, un segno incrementale non confrontabile con alcuna altra realtà urbana, superando persino la cosmopolita e vivacissima Londra (già dal 1920 NYC ha più abitanti della capitale britannica), fulcro solido di uno sconfinato Impero coloniale. Nel contempo NYC era un luogo in cui si ampliavano e manifestavano, al massimo grado, le contraddizioni proprie della Rivoluzione industriale, con una declinazione assai differente di quella riscontrabile in Europa, per esempio nella Manchester di F. Engels dove esisteva una dicotomia netta, morfo-funzionale, tra la città borghese e quella “proletaria”.
NYC, dove giungono a ondate i migranti [9] attratti da una realtà vergine e immaginifica, piena di possibilità, di retorica ingannevole, di miti contemporanei, è composta da ambiti che danno vita a un sistema unitario, istituzionalmente riconosciuto nel 1898, come già detto, fatto di discontinuità. Un ossimoro apparente, spiegabile solo con l’esplorazione della struttura urbana, composta dai cinque Distretti che, molto differenti tra loro, nel tempo hanno manifestato una speciazione peculiare e notevoli derive genetiche. Tra essi l’Isola di Manhattan, centro nevralgico dello sviluppo economico e culturale di NYC, è il luogo che accoglie un’immensa moltitudine di persone che, attraversato l’Oceano Atlantico, sbarcavano prima a Castle Garden Immigration Depot (localizzato nella punta estrema a sud di Downtown, a Battery Park) e poi a Ellis Island, attivo dal 1892 al 1954. Molti restavano e trovavano “casa” in alcune aree di Manhattan (Lower East Side o Five Points), altri abitavano soprattutto a Brooklyn e ai Queens.
Già fin dall’inizio del XIX secolo la crescita urbana di questa città che accoglie economie e persone, produce ricchezza, contraddizioni e cultura, divora suolo ed energia, rende necessaria una regolamentazione dello sviluppo, priva di fini mirati alla pianificazione, se non del Capitale, condotta con modalità totalmente differenti da quelle portate avanti in Europa, dove le città facevano i conti con le dinamiche politiche, le unità nazionali, i passaggi dovuti alle guerre: un sofferto rapporto con la storia, fatto di vincoli e possibilità.
La Municipalità della città di New York si rivolse alla New York State Legislature (l’amministrazione statale) che nominò una Commissione formata da Gouverneur Morris, S. De Witte e J. Rutherford (nessuno dei tre è un urbanista). Essi elaborarono il Commissioners’ Plan il cui progetto, approvato nel 1811, ebbe grande importanza per lo sviluppo di NYC. Lo strumento prevedeva, per Manhattan, un grid regolare che definiva lotti rettangolari, in un’area compresa tra 14th Street e Washington Heights, la parte più a nord dell’Isola, a confine con il Bronx.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
* Alle origini della città-mondo: migrazioni, economie, urbanizzazione è la prima parte di un saggio più esteso. La seconda parte approfondirà la nascita, la speciazione e la diffusione delle economie urbane a NYC e, soprattutto, la condizione dei migranti e della working class, durante il XIX e il XX secolo.
Note
[1] La chiesa fu edificata nel 1697, distrutta nell’incendio del settembre del 1776 e ricostruita nel 1788. Consacrata due anni dopo, crollò a causa di una tempesta di neve, durante l’inverno tra il 1838 e il ‘39. Nel 1846 fu riedificata.
[2] La democrazia in America (due volumi, 1835 e 1840) fu scritto da A. de Tocqueville che, insieme a Gustave fr Beaumon, fu invitato dal Governo francese a fare un viaggio negli States, per raccogliere informazioni sul sistema carcerario americano. I due giuristi trascorsero nove mesi negli Stati Uniti (con un passaggio in Canada). Dopo la consegna del Report, Tocqueville scrisse un trattato politico sociale, intitolato La democrazia in America. Sostanzialmente centrato sull’analisi della democrazia rappresentativa repubblicana e sulle influenze nella società, modello fallito in numerosi Paesi, ma vivo in America. Tocqueville parla del dispotismo addolcito e popolare, della laicità dello Stato, dell’abolizione della schiavitù (fenomeno previsto), della tirannia della maggioranza, dell’assenza di libertà intellettuale, descrivendo America e Russia come le due superpotenze mondiali. Vengono omessi, però, alcuni temi chiave, relativi alla povertà della grandi città, trattati di contro, in altri testi; uno, oggetto di questo contributo, è di J. Riis, l’altro fu scritto dalla scrittrice inglese H. Martineau, intitolato Society in America, e pubblicato del 1838.
[3] J. Dewey e W. James sono due pensatori statunitensi che, insieme a un’estesa compagine di autori, tra cui anche alcuni poeti, hanno fornito le basi teoriche alla “cultura” americana del fare. In sintesi può essere rievocata da Dewey la concezione dell’esperienza intesa come relazione tra uomo e ambiente. Il soggetto non è concepito come spettatore passivo, ma come colui il quale interagisce con il contesto. In tal senso per Dewey il pensiero stesso nasce dall’esperienza sociale. Il pensatore tratta inoltre il concetto di democrazia, per quanto attiene gli aspetti culturali, anche a partire dagli scritti di Emerson, da lui considerato, in un saggio del 1903, come il “filosofo della democrazia”. J. Dewey punta l’attenzione sull’ambiente sociale, quale mezzo costruttivo affinché le energie individuali si esprimano. Quando parla di società democratica, attribuisce importanza alla collaborazione di tutti gli individui, pro bene sociale, e intende i sistemi democratici come strutture in perenne stato di crisi; in tal senso, essi necessitano di un’ininterrotta disponibilità al cambiamento. Egli sostiene che tutti i soggetti debbano possedere alcuni requisiti: alfabetizzazione, competenze culturali, pensiero indipendente, predisposizione a condividere con gli altri. W. James apporta alla psicologia il funzionalismo e il pragmatismo, secondo cui i concetti sono veri se consentono di operare sulla realtà. Egli si pone in netto contrasto con la psicologia tedesca, affermando sia che non esiste una “sensazione semplice”, sia che la coscienza debba essere intesa come un continuum di oggetti e relazioni. Oltre ai numerosi studi elaborati e all’apporto fornito alla psicologia, James ha concettualizzato il flusso di pensiero, lo stream of thought, paragonandolo a una corrente fluviale. Introduce la nozione di Sé empirico (Sé materiale e Sé spirituale) e articola il proprio pensiero discostandosi dall’empirismo tradizionale, intendendo l’esperienza come ciò che si «autocontiene e non poggia su nulla». Nella sua opera The Will to Believe (“La volontà di credere”), trascrizione di una lezione e pubblicata nel 1896, James spiega quale sia l’aspetto della volontà, sostenendo che qualunque azione sia una reazione al mondo esterno. Egli, inoltre, assume il pensiero stesso come stadio intermedio o come momento transitorio che indirizzi verso un’azione. James rivendica «il valore dell’agire umano», l’importanza della volontà e della capacità dei soggetti d’interagire con l’ambiente in modo creativo, determinando condizioni sempre più rispondenti a bisogni e interessi. Si configura così un’originaria dimensione rivolta all’agire, al fare, al creare, fondativa per la “cultura” americana. In tal senso, il pragmatismo è un metodo tramite cui valutare le teorie in base ai risultati conseguiti. L’esperienza del passato, dunque, ha valore strumentale per l’anticipazione del futuro al fine di dominare l’ambiente.
[4] Boston, incremento demografico: 1790: 18,320; 1800: 24,937; 1850: 136,881; 1870: 250,526; 1900: 560,892; 1910: 670,585;1920: 748,060; 1930: 781,188; 1940: 770,816. Philadelphia, incremento demografico: 1790: 28,522; 1800: 41,220;1850:121,376; 1870: 674,022; 1900: 1,293,697; 1910: 1,549,008; 1920: 1,823,779; 1930: 1,950,961;1940: 1,931,334. New York, incremento demografico: 1790: 33,131; 1800: 60,515; 1850: 515,547; 1870: 942,292; 1900: 3,437,202; 1910: 4,766,883; 1920: 5,620,048; 1930: 6,930,446; 1940: 7,454,995. Chicago, incremento demografico: 1833:350; 1950: 29963; 1870: 298 977; 1900: 1 698 575; 1910: 2 185 283; 1920: 2 701 705;1930: 3 376 438; 1940: 3 396 808.
[5]Brooklyn prima del 1898 era una città a sé. Nel 1898 fu costituito l’insieme urbano, fatto dai cinque Distretti (five Boroughs).
[6] Una parte della connessione, precedente al 1904, ancora in uso oggi, aprì nel 1885, ed è parte della Linea BMT Lexington Avenue, (nota oggi come Jamaica-Brooklyn).
[7] Alcuni, per esempio, provenivano dall’Italia ed erano abili scalpellini, in una stagione newyorchese durante la quale si lavorava il granito, materiale da costruzione assai disponibile (per la natura del substrato geologico dell’Isola), utilizzato massivamente post 1880. Un’altra compagine di operai impiegati nell’edilizia era costituita dai nativi americani. Joseph Mitchell, giunto a NYC dal North Carolina nel 1929 – scrisse per l’Herald Tribune, il The World-Telegram e dal 1938 a tempo pieno per il New Yorker, sino alla sua morte – racconta il ruolo che i nativi americani (definiti “agili come capre”: “these Indians were as agile as goats”, ebbero nell’edilizia, in: The Mohawks in High Steel, del 1949, in Joseph Mitchell, The Bottom of the Harbor, ristampato in Up in the Old Hotel and Other Stories (Vintage Books, 1992), vd. http://www.pbs.org/wgbh/americanexperience/features/primary-resources/newyork-oysters/
[8] Per esempio a Chelsea o nel Garment District, un ambito compreso tra Fifth Ave e Ninth Ave, tra 34th e 42nd Street.
[9] La questione è stata trattata, restituendo alcune cifre relative alla dinamica di migrazione, in: F. Schiavo (2015) “Questa terra è la mia Terra. Migranti a Manhattan, tra Little Italy e Chinatown”, in Dialoghi Mediterranei, n. 16, novembre, ISSN 2384-9010. https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/questa-terra-e-la-mia-terra-migranti-a-manhattan-tra-little-italy-e-chinatown/
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Flavia Schiavo, docente di Fondamenti di urbanistica e della Pianificazione territoriale presso l’Università di Palermo, ha pubblicato saggi, monografie e articoli su riviste nazionali e internazionali. Conduce attività didattica e di ricerca in Italia, Europa e America del Nord, dove è stata visiting presso la Columbia University. Tra le sue pubblicazioni, Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto (Sellerio 2004); Tutti i nomi di Barcellona. Il linguaggio urbanistico (F. Angeli 2005).
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