di Rosario Lentini
Il 26 febbraio 1960, il professor Giovanni Scaramuzzi ‒ allora direttore dellʼIstituto di patologia vegetale dellʼUniversità di Catania e futuro prorettore dellʼUniversità di Pisa ‒ in una conferenza sui trattamenti da adottare contro la peronospora e contro lʼoidio, che nel corso del precedente anno avevano devastato i vigneti dellʼIsola, così spiegava: «Non si hanno ancora notizie precise, perché mancano accurati rilievi in proposito circa la lunghezza del ‘periodo dʼincubazione della peronosporaʼ in Sicilia. E certamente varrebbe la pena di conoscere meglio questo aspetto della malattia, tenendo conto che esso potrebbe utilmente servire per la realizzazione di una più proficua cadenza dei trattamenti antiperonosporici […]. È nozione comune che, nellʼambiente siciliano, le infezioni peronosporiche si realizzino in campo soprattutto nel periodo aprile-giugno, e di nuovo dalla metà di settembre circa in poi, allʼinizio delle nuove piogge. […] Questa regola ha però le sue eccezioni, come ha ampiamente dimostrato lʼannata 1959, in cui le infezioni peronosporiche si sono succedute a ritmo quasi costante, da aprile a ottobre, e con unʼintensità difficilmente riscontrabile negli ultimi decenni» [1].
E ancor più frustrante era ‒ e continua ad essere ‒ la valutazione del “quando” avviare i trattamenti antiperonosporici, come avrebbe sottolineato il fitopatologo Mario Salerno nel 1970:
«In altri termini, nel nostro ambiente [Sicilia] non si può seguire una regola fissa, valida per tutti gli anni e per tutte le aree viticole. Le stesse infezioni di peronospora, anche quando si iniziano per tempo, si iniziano più spesso ad opera di un modestissimo numero di oospore, tanto da non meritare attenzione nella lotta. Sono, cioè, necessarie alcune infezioni secondarie (tre o quattro) perché si costituisca una massa di inoculo di un certo peso, meritevole di far ricorrere ai trattamenti. Cʼè ancora da considerare che nelle aree meridionali, più che altrove, può esistere una notevole indipendenza tra la comparsa della macchia dʼolio e lʼevasione del fungo, in relazione a lunghi e frequenti periodi di siccità» [2].
A distanza di oltre mezzo secolo da queste sconfortanti considerazioni e a consuntivo della passata stagione viticola siciliana, si è registrata una nuova disfatta sul campo; il fungo ha inferto un duro colpo alla quantità prodotta, tanto da avere indotto la Giunta regionale a dichiarare lo stato di calamità naturale con delibera del settembre 2023:
«per danni causati dallʼeccezionale evento relativo alla propagazione della malattia della peronospora della vite causata da fungo patogeno Plasmopara viticola; in quasi tutto il territorio regionale i danni sono stati rilevanti con percentuali che vanno dal 25% al 95% della produzione; i maggiori danni si sono avuti nelle aziende coltivate con il metodo biologico; il danno accertato da parte degli Ispettorati provinciali dellʼagricoltura ammonta complessivamente a euro 351.111.040,00» [3].
Ma quanto indietro nel tempo occorre andare, per individuare la genesi di questa perniciosa crittogama, in grado di aggredire germogli, foglie e persino tralci e grappoli della vite? Le tesi prevalenti ‒ frutto di numerosi studi agronomici e storico-economici ‒ convergono nel sostenere che la diffusione delle tre principali patologie della vite (oidio, fillossera e peronospora) sia stata dovuta allo sviluppo ottocentesco dei sistemi di trasporto marittimo e ferroviario, che ha permesso non solo agli uomini e alle merci di giungere più rapidamente a destinazione, ma anche di favorire lʼinterscambio di materiale vegetale da un continente allʼaltro ‒ in particolare da quello americano ‒ con il loro rispettivo portato crittogamico (funghi, parassiti, muffe, ecc.).
«Sono […] i parassiti vegetali quelli che danno maggiormente da pensare al viticoltore americano ‒ osservava lʼenotecnico Rossati durante il suo viaggio a fine 1896 in quel continente ‒ e primo tra essi la peronospora, detta in America “downy milde” o “gray rot”» [4].
LʼOidium Tuckerii (Oidio), dal nome del giardiniere inglese Edward Tucker, che nel 1845 rilevò una sostanza farinosa nelle foglie di vite, imperversò in Europa dal 1840 [5]; dal 1863 fu la volta della Philloxera vastatrix (Fillossera), individuata nelle serre di Hammersmith nei pressi di Londra e poi ‒ dopo altri Paesi ‒ anche in Italia nel 1879, nel piccolo comune lombardo di Valmadrera [6]. Terzo, in ordine di tempo, il patogeno della peronospora venne scoperto negli Stati Uniti nel 1831 da von Shweinitz e classificato come Botrytis cana [7]. Il fungo fu, però, studiato con maggiore attenzione nel 1855 dal reverendo Miles Joseph Berkeley che lo aveva ricevuto dal botanico Moses Ashley Curtis il quale lo aveva individuato nellʼAmerica del Nord nel 1848. Berkeley lo ribattezzò Botrytis viticola. Alcuni anni dopo, nel 1863, il medico e botanico tedesco Heinrich Anton de Bary, approfondendo ulteriormente la biologia e le caratteristiche del fungo, lo sottrasse al genere Botrytis per collocarlo nella famiglia delle Peronosporaceae. E, infine, nel 1888, Giovanni Battista De Toni e Augusto Napoleone Berlese, lo assegnarono al genere Plasmopara viticola [8], nome che tuttora rimane assegnato al microrganismo causa della malattia il cui nome comune è la tristemente nota peronospora [9].
«Disgraziatamente ‒ scriveva Berlese ‒ è questo un parassitismo della peggiore specie, perché il micelio vegeta non alla superficie, ma proprio entro lʼintima compagine dei tessuti ed è quasi impossibile trovare un modo di distruggerlo senza contemporaneamente danneggiare la pianta ammalata» [10].
Giunto nel continente europeo, fu scoperto in Francia nel 1878, nelle viti americane di importazione (Jacquez) utilizzate per combattere la fillossera; successivamente, il 14 ottobre 1879, il professor Romualdo Pirotta ne segnalò la presenza anche in Italia, a Santa Giulietta, nei pressi di Voghera [11].
Come noto, per lʼoidio e per la peronospora i metodi difensivi, in grado quanto meno di arrestare la propagazione o di limitare i danni, ebbero successo, rispettivamente, con lʼinsolforazione e con la cosiddetta poltiglia bordolese di cui si dirà più avanti [12]; nel caso del parassita fillosserico, invece, la fitoterapia si rivelò del tutto inadeguata e fu necessario un impegno pluridecennale per selezionare alcune varietà di vitis vinifera europea da innestare su piede di vite americana (vitis berlandieri, vitis labrusca, vitis riparia, parthenocissus quinquefolia) per poterle rendere inaggredibili. Tuttavia, pur se i rimedi chimici per arginare la peronospora furono approntati in un tempo relativamente breve, i viticoltori europei ancora oggi devono fare i conti con questo nemico dalla elevata e rapida capacità diffusiva.
«Ma quando si ebbe un vero concetto dei gravissimi danni che può arrecare la terribile saprolegnea ‒ scriveva il professor Savorgnan ‒ e della rapidità con la quale può estendersi, fu nel 1880: nel qual anno, dagli ultimi giorni di agosto ai primi di settembre, la Peronospora ha invaso quasi istantaneamente gran parte dei vigneti dellʼAlta Italia (Veneto e Piemonte), metà della Francia, la Spagna, la Svizzera, lʼUngheria e la Grecia, distruggendo, in alcuni siti, completamente le foglie delle viti ed arrestando quindi il procedere della maturanza dellʼuva, con quanto scapito della quantità e della qualità del prodotto si può pensare!» [13].
Così, lʼagronomo palermitano Giuseppe Sesti spiegava, in un opuscolo pubblicato nel 1900, la modalità di aggressione del fungo della peronospora:
«Che cosa fa il parassita quando con uno dei suoi conidi si ferma sulla pagina superiore dʼuna foglia? Mercé il budello germinale di cui si provvede fora la linea di cellule epidermiche, si insinua negli spazi intercellulari, diramandosi ed emettendo, man mano che invade il parenchima fogliare, dei succhiatoi i quali forano le pareti cellulari, e mercé unʼazione dissolvente […] scompone le sostanze organiche, rendendole assimilabili allʼorganismo depauperante. Il micelio o massa vegetativa del fungo sʼingrossa e vive dunque a spese dei materiali di cui sono costituite le cellule delle foglie, ed è perciò che notiamo in primo luogo le macchie di secco date dal tessuto distrutto» [14].
Va detto, peraltro, che il quadro fitopatologico generale era reso ancor più complesso ‒ oltre che dallʼoidio e dalla peronospora ‒ dal sovrapporsi e/o avvicendarsi anche di numerose altre alterazioni non dipendenti da insetti, che il Targioni Tozzetti, negli anni Ottanta dellʼ800, enumerava in una sua relazione al Ministero di agricoltura quali: rogna, mal nero o gommosi, morbo bianco, rossore, clorosi, marciume delle radici, antracnosi [15].
Le notizie relative alla diffusione della peronospora in Sicilia si ebbero già pochi mesi dopo la rilevazione piemontese. Ippolito Macagno ‒ nativo di Casale ‒ direttore della Stazione agraria di Palermo, riferiva che, seppure a inizio 1881 la malattia nelle campagne dellʼIsola fosse già molto diffusa, il raccolto dellʼultima vendemmia non ne aveva risentito ed era risultato persino «ubertoso» e concludeva ottimisticamente:
«I miei assistenti […] mi fecero vedere alcuni tralci e foglie di viti, portate qui tre anni fa [cioè nel 1878] da Messina, nelle quali si era notato un deperimento sensibile, e le trovai affette da Peronospora. Questo fatto concorda con quanto il sottoscritto ha già osservato in Valcuvia nel territorio di Varese; e cioè che in quella località la Peronospora esiste già da alcuni anni, e va diffondendosi lentamente, senza impedire la fruttificazione della vite. Pare quindi che nellʼallarme dato, vi sia un poʼ di esagerazione» [16].
Purtroppo il competente Macagno si sbagliava nelle previsioni, ma forniva un indizio sulla data di rilevazione della crittogama persino antecedente a quella piemontese. Anche la Società di acclimazione e agricoltura siciliana accreditava lʼipotesi che la peronospora fosse già presente almeno dal 1878 ma che, in territorio palermitano, fosse stata osservata solo nellʼottobre 1880 in contrada Porrazzi e il mese successivo a Belmonte in contrada Casale [17]. Dalle altre prefetture e comizi agrari, invece, non si avevano segnalazioni in tal senso.
In una lettera da Castelbuono, del 28 febbraio 1881, indirizzata alla redazione de «LʼAgricoltura Italiana», Francesco Minà Palumbo scriveva con la consueta lungimiranza:
«Nessuno osa richiamare i vitigni di altri territori, né di viti americane per evitare l’introduzione della devastatrice Fillossera, e della funesta Peronospora: giuste e prudenti precauzioni, ma con tutto ciò difficilmente resteremo immuni da tali flagelli, e forse la Peronospora è entrata per due viti di Zibibo, che han dato deʼ sospetti e che nella prossima vegetazione terremo in osservazione per accertarci della patologica manifestazione» [18].
Dalle fonti a stampa ministeriali si rileva che, a tutto 1882, la peronospora sarebbe rimasta confinata a pochi casi nel Messinese e nel Palermitano e che solo a metà dellʼanno successivo sarebbe arrivata una comunicazione di avvenuto riscontro nellʼAgrigentino, in territorio di Sciacca, contrada Quasavano, tanto da indurre il prefetto a far inviare «i pampini sospetti» alla Stazione crittogamica di Pavia [19]. Ma già nel 1884, come si apprende sempre da Minà Palumbo, la presenza del fungo è accertata in tutte le province [20], nonostante si ritenesse che le condizioni climatiche delle regioni meridionali agevolassero meno lo sviluppo della malattia:
«È un fatto notevole dʼaltronde ‒ sottolineava Targioni Tozzetti ‒ che se la Peronospora si affacci nel mezzogiorno dʼItalia, in Sardegna e in Sicilia, essa rimane frenata neʼ suoi progressi come neʼ suoi effetti, e se ne dà merito alle estati calde ed asciutte, le quali tolgono condizioni favorevoli a essa ed affrettano la maturità della vite e dellʼuva, prima delle piogge che sopravvengono nel mutamento della stagione» [21].
Il delegato governativo fillosserico Floriano Guerrieri, inviato a ispezionare i vigneti di Balestrate e Partinico nel mese di giugno del 1885, relazionava di non avere individuato traccia di fillossera ma viti aggredite soprattutto dal coleottero Melolontha vulgaris Fab. e «poca peronospora» [22].
La tesi secondo cui nel Meridione e nelle isole il fungo non trovasse le condizioni climatiche favorevoli per diffondersi con la stessa facilità che si registrava nelle regioni settentrionali era confermata dalla geografia delle segnalazioni di rilevamento della malattia e dalla proliferazione di opuscoli di conferenze e di istruzioni riguardanti prevalentemente i vigneti di molti comuni del Nord Italia [23].
Prima che si riuscisse a trovare un trattamento efficace delle viti, si effettuarono diversi esperimenti che portavano alla conclusione di disporre ancora solo di «palliativi»: gessatura dei pampini per ovviare allʼinconveniente della rugiada, causa della germinazione delle spore fungine; idrato di sodio; carbonato di sodio; idrato di calcio; solfo carbonati alcalini; soluzioni di acido fenico; solfato di rame [24].
«Per quanto concerne la Fitoiatria ‒ ha scritto Dino Rui ‒ si può dire che la sua nascita razionale avviene pur essa nel XIX secolo, allorché Benedetto Prevost documentò lʼazione del rame nelle spore della carie del grano; ancora più importante fu, però, la scoperta da parte del Millardet (1884) dellʼeffetto dei sali di rame sui germi della peronospora della vite» [25].
Lʼillustre botanico e micologo della Scuola Superiore di Portici, Orazio Comes, nel suo studio del 1884, elaborato per gli atti della Giunta parlamentare per lʼinchiesta agraria, nel passare in rassegna le malattie provocate da crittogame, suggeriva un suo rimedio:
«Da parecchi anni, anche per la Sicilia, si vanno deplorando sempre più i tristi effetti della malsania, che ha colpito le piante nel continente. […] raccomando di attenersi al seguente provvedimento: quando la vite comincia a germogliare, per prevenire la peronospora, bisogna impolverare la vite con un miscuglio, a parti eguali, di polvere di calce caustica e di cenere non lisciviata. A questo miscuglio si può aggiungere anche lo zolfo, sebbene non sia indispensabile» [26].
Intanto, dopo i positivi risultati sullʼefficacia della «poltiglia bordolese» ideata dal botanico francese P-M. Alexis Millardet, lʼindirizzo governativo veniva affidato a una speciale Commissione ministeriale composta da 15 personalità del mondo scientifico italiano, presieduta dal professor Adolfo Targioni Tozzetti della Regia Stazione di entomologia agraria di Firenze e tra i quali anche il professor Francesco Segapeli, direttore della regia Scuola di viticoltura ed enologia di Catania. Le indicazioni conclusive furono molto precise ed esaustive e riguardarono due categorie di rimedi da adottare in ordine decrescente di efficacia; tre tipi di trattamenti liquidi:
- solfato di rame in soluzione acquosa con aggiunta di ammoniaca;
- poltiglia bordolese composta di solfato di rame e calce;
- latte di calce;
e due trattamenti pulverulenti:
- a base di solfato di rame con eventuali aggiunte di zolfo comune, gesso, polvere di carbone ecc.;
- a base di rame poco solubile (polvere Podechard) [27].
Ecco come veniva descritta la composizione e preparazione della «Poltiglia calce-cuprica o poltiglia bordolese» che ancora oggi rappresenta il principale anticrittogamico:
«Si prepara nel modo seguente. Entro recipiente di legno, rame o argilla si sciolgono in 100 litri di acqua Kg 4 solfato di rame. In altro recipiente si spengono da 3 a 4 Kg di calce viva in 30 litri di acqua. Quando si è formato un latte omogeneo e quando questo si è raffreddato, lentamente si versa nella soluzione rameica, rimescolando il tutto ben bene. Si ottiene una poltiglia di colore bianco azzurrognolo non molto densa che devʼessere rimescolata al momento di servirsene» [28].
Naturalmente, anche la modalità di applicazione del trattamento diventava determinante, perché occorreva coniugare lʼefficacia del prodotto con la più agevole erogazione dello stesso, sia nella forma liquida che in quella in polvere, ben sapendo che da questa miglior combinazione poteva derivare un sensibile risparmio dei costi da sostenere. Non a caso la maggior parte delle riviste specializzate di settore segnalava ai proprietari di vigneti lʼapparecchio Eclair ideato dallʼagronomo e industriale francese Victor Vermorel:
«Se la giusta rinomanza di cui gode lʼapparecchio Vermorel, le numerose distinzioni ottenute nei concorsi al di qua e al di là delle Alpi, e se infine le esperienze fatte qua da noi stessi e da altri in Monferrato, può autorizzarci a rispondere con cognizione di causa, noi non esitiamo ad affermare che chi compera il Vermorel spende bene i suoi danari […]. La pompa del nuovo apparecchio lʼEclair, quello che noi consigliamo ai nostri viticultori, è a pressione di liquido; non esige perciò tutte le cure delicate con cui devonsi usare le pompe ad aria, mentre pur ne presenta tutti i vantaggi. […] Il serbatojo, che contiene 15 litri, non pesa che 5 chili. È bene stagnato in modo da chiudere ermeticamente: nulla può colare sullʼoperaio durante lʼoperazione» [29].
Il ruolo delle scuole agrarie e degli istituti universitari di botanica, di entomologia e di patologia vegetale nel procedere a verifiche ed esperimenti sui rimedi chimici proposti era determinante nellʼopera di convincimento e di didattica nei confronti dei proprietari e dei viticoltori, come nel caso della prestigiosa regia Scuola di viticoltura e di enologia di Conegliano, che fece svolgere numerose prove nei suoi vigneti e fornì un quadro dettagliato non solo dei risultati, ma anche dei costi da sostenere [30]. Tuttavia, va tenuto presente che nel variegato panorama viticolo nazionale ‒ dai vigneti siciliani a quelli prealpini ‒ la capacità e velocità di applicazione dei prodotti indicati dagli agronomi era molto differenziata, per ragioni di ordine economico, sociale e culturale. Per esempio, nella primavera del 1892, i contadini della Piana di Mascali, alle falde dellʼEtna ‒ non in grado di riconoscere la peronospora che si era manifestata intensamente a causa del forte caldo umido ‒ ritenevano che i filamenti bianchi comparsi nelle foglie delle viti fossero causati dallʼoidio. Quello stesso anno a Partinico [31], Calatafimi, Noto e Siracusa, i danni furono rilevanti, ma si ha notizia di utilizzo dello zolfo ramato solo da parte di alcuni proprietari di Alcamo, Castellammare del Golfo e Marsala [32].
«Intanto i viticoltori colpiti dal male ‒ scriveva il direttore de «Il Giornale calabro-siculo» ‒ non debbono starsene con le mani in mano, e bisogna invece che con ogni sollecitudine combattano il malanno in un modo qualsiasi; sia usando solfi ramati al 4 ed al 5 per 100, che in Catania se ne trovano; sia adoperando le soluzioni di solfato di rame e calce» [33].
E proprio perché si aveva consapevolezza della scarsa disponibilità di mezzi finanziari della maggior parte degli affittuari siciliani di vigneti, il marchese Ferdinando Bellaroto, che si distingueva tra i proprietari terrieri per attivismo e protagonismo, suggeriva, nel 1892, un modo economico di operare per proteggere comunque il fogliame con la poltiglia bordolese:
«Non resta ora che di spargerlo sulle viti; qui è il grande problema. Il piccolo viticoltore al solo sentir pronunziare apparecchi polverizzatori, pompe Vermorel, Vittoria e simili indietreggia spaventato e si domanda: dovʼè il denaro per la compra di tali strumenti? e, ammesso che lʼabbia, come adoperarli? Niente paura io rispondo. Le pompe sono utilissime […] ma chi non ha denaro adoperi una piccola scopa (scupuneddu) e un catino di legno. Sʼimmerge la scopa nella soluzione di calce e rame e si spruzzano le viti, in modo da bagnare totalmente tutte le parti verdi di esse e specialmente la pagina superiore delle foglie. Sarà impiegata una quantità di liquido maggiore, un tempo più lungo, ma il rimedio così fatto non riuscirà dannoso, credetelo o buoni viticultori, e non tarderà ad apportare buoni frutti» [34].
Il suggerimento del Bellaroto, in verità, rivelava ‒ al di là della soluzione proposta ‒ un limite “politico-culturale” evidente; lungi dal marchese, infatti, porsi come capofila dei proprietari della provincia per farsi carico del costo per lʼacquisto delle pompe, o sollecitare facilitazioni finanziarie per venire incontro alle esigenze dei viticoltori.
Una svolta nella visione delle questioni centrali del mondo agricolo dellʼIsola sembrò esservi da parte della borghesia industriale e da un buon numero di aristocratici ancora proprietari di ex feudi, in occasione della nascita del “Consorzio agrario siciliano” nel 1900. Tutte le contraddizioni irrisolte, che il movimento dei Fasci aveva fatto esplodere, incombevano come macigni e il giovane Ignazio Florio titolare della prestigiosa Casa commerciale, finanziaria e industriale ‒ omonimo figlio del senatore deceduto nel 1891 ‒ assumeva lʼiniziativa di istituire un Consorzio agrario con la finalità principale di promuovere la riforma della grande coltura feudale sostenendo la colonìa parziaria. Tra i molteplici obiettivi ambizioni anche quello di contrastare lʼusura con lʼistituzione di casse agrarie per agevolare i piccoli proprietari [35]. Del comitato tecnico del Consorzio faceva parte, oltre al Bellaroto, anche il marchese di Bongiordano, Pietro Ballesteros, che due anni dopo, sulla scia di quella impostazione interclassista e paternalistica, che mirava al componimento di interessi agrari e industriali, sottoponeva pubblicamente una sua proposta di “Contratto di piantagione a Colonìa di un vigneto nell’ex-feudo Bongiordano in Provincia di Palermo nei territorj di Misilmeri e Bolognetta”:
«È in tale guisa che potrà spegnersi quell’odio di classe, che da sfruttatori di popoli si accende, si alimenta, e si prende a prestito, per farne leva potente per il proprio interesse. Stabiliti col sistema delle colonìe i giusti rapporti tra queste due forze, cointeressata l’una all’altra, soccorrendo umanamente chi altro non possiede che l’energia muscolare, possiamo a buon diritto sperare di vedere sorgere un’era nuova di lavoro, di ricchezza comune, e quindi un orizzonte sereno e di pace» [36].
Il Ballesteros dava conto dello schema contrattuale integrale molto dettagliato nel quale si leggeva fra lʼaltro:
Art. 1. Durata del contratto: anni 18, dal 1gennaio 1903 fino alla raccolta del mese di ottobre 1920
Art. 2. Il Marchese di Bongiordano assume le seguenti obbligazioni:
A) Concede la terra lavorata con l’aratro aquila volta-orecchio, con avantreno a ruote, a trazione di 4 bovi;
B) Eseguirà lo spietramento e le necessarie cunette selciate e fognature (varvacani);
C) Darà gratis le barbatelle selvagge di Aramon rupestris, o Rupestris de Lot, di anno uno, da adattarsi alla natura del terreno;
D) Farà eseguire a sue spese l’innestatura erbacea o invernale;
E) Appresterà le barbatelle selvagge per il ripianto al secondo anno;
F) Appresterà il concime, se vorrà concimare;
G) E finalmente assume la guardia del vigneto.
E ai successivi articoli 4 e 5 si precisava:
«Oltre la piantagione, saranno ad assoluto carico dei coloni le colture tutte, le siepi verdi e secche, la sbarbolatina, la potagione, le spurghe, le canne, lo zolfo, la Disa, le irrorazioni con la poltiglia bordolese, la vendemmia, l’assistenza agl’innestatori, cioè la costruzione dei cosi detti pagliarelli, per difesa degli innesti erbacei o invernali, e la fornitura delle marze, da prenderle dai vigneti selezionati dal concedente, e tutto incluso e nulla escluso.
Art. 5. Appresterà il proprietario ai coloni le pompe Vermorel per le irrorazioni contro la Peronospora, restando a carico dei coloni le riparazioni in caso di guasti, o dispersione di qualche pezzo» [37].
Si potrebbe sostenere che il marchese Ballesteros rappresentasse la parte più avanzata dello schieramento dei proprietari terrieri, convinto della necessità di avviare un processo riformatore e di introdurre innovazioni al passo coi tempi. Tuttavia, come si evince dallʼintero articolato contrattuale, gli obblighi a carico dei coloni rimanevano molteplici e onerosi.
Se questi erano, dunque, alcuni dei dati di fondo del contesto agricolo siciliano e in particolare del settore vitivinicolo ‒ aggravati dal peggioramento delle condizioni del mercato ‒ si comprende meglio perché, nella maggior parte dei vigneti, gli effetti benefici dellʼutilizzo dei prodotti antiperonospora si sarebbero potuti misurare solo molti anni dopo.
Peraltro, nonostante gli sforzi di una minoranza più disponibile a sostenere i maggiori costi fitoterapici, i viticoltori venivano spesso frustrati dalla sorprendente virulenza della crittogama:
«Si è discusso quali possono essere le cause che hanno fatto aumentare di anno in anno il carattere pernicioso della malattia […]. Noi crediamo che la spiegazione naturale del fatto sia da ricercarsi nel numero sempre più grande di spore che, anno per anno, si diffondono nei nostri vigneti e che restano ad ibernare nei tralci o nelle foglie cadute. Data la presenza di un numero così grande di spore quasi in ogni vigneto, si comprende come quando si verifichino le condizioni necessarie di umidità e di calore la malattia si sviluppi con rapidità ed intensità alla quale non eravamo abituati nei primi anni dellʼinvasione» [38].
Il Cuboni, nella sua relazione ministeriale si cimentò pure in una stima dei danni relativi alla vendemmia 1889 partendo dal dato nazionale della produzione vinicola pari a circa 21 milioni di ettolitri, cioè -43% rispetto al dato medio degli anni precedenti. Naturalmente questa caduta vertiginosa non poteva essere imputata esclusivamente alla peronospora, in quanto altri fattori avevano contribuito a determinarla (avversità climatiche e ondate di varie malattie infestanti):
«Tuttavia, lʼinfluenza della peronospora ha superato di gran lunga gli altri fattori e senza dubbio non si esagera ammettendo che i 3/5 della perdita sono da attribuirsi per intero alla peronospora. Ciò ammesso si avrebbe che la malattia, nello scorso anno ha prodotto una diminuzione di 9.516.540 ettolitri di vino. Assegnando al vino un valore medio di lire 20 per ettolitro, prezzo non troppo elevato se si tien conto che i maggiori danni si sono avuti nellʼAlta Italia ed in Toscana dove i vini sono più cari, si ha che i danni prodotti della peronospora ammontano alla somma di lire 190.330.800» [39].
Anche sul piano sociale i danni non erano da meno; a Marsala, come scriveva il prefetto di quella provincia, «per un complesso di cause disgraziate dovute in massima parte alla distruzione dei vigneti per causa della fillossera e della peronospora», circa dodicimila contadini, braccianti e operai delle cantine vinicole avevano perduto il lavoro a inizio Novecento [40].
Su un aspetto convergevano, comunque, tutti gli studiosi più autorevoli e cioè che lʼandamento delle condizioni climatiche poteva determinare sia la regressione del fungo, sia la sua rapidissima proliferazione. Lʼinfaticabile Federico Paulsen che, in Sicilia, nel contrasto alla fillossera ebbe un ruolo di primo piano, comunicava le sue osservazioni:
«I forti scirocchi avvenuti nei giorni trascorsi hanno arrestato completamente la peronospora, ciò non toglie che vi siano stati in molti vigneti dei danni ragguardevoli. Nel modo come si presenta la stagione vi è ancora molto da temere. Ieri lʼaltro abbiamo avuto un forte acquazzone e se tali cambiamenti repentini si ripeteranno, ci sarà da temere una riinfezione nel mese di settembre» [41].
Queste ripetute sollecitazioni e raccomandazioni venivano recepite con diversa sensibilità da parte dei viticoltori e, purtroppo, con limitati riscontri se, ancora nel 1914, Alex Smyth, amministratore di Casa Whitaker, si premurava di allertare il suo fiduciario presso il baglio enologico di Balestrate ‒ anchʼesso di proprietà della rinomata famiglia anglo-siciliana ‒ per fare avviare
«una serie di propaganda per prevenire la vite dallʼOidio e dalla Peronospora, i due terribili mali che insidiano la vite e ne distruggono il frutto. È molto opportuno ricordare e far capire ai viticultori che i mali si prevengono per restarne immuni e che è un grave errore attenderne lo sviluppo per iniziarne la cura. Incoraggiateli a fornirsi in tempo utile dello zolfo, del solfato di Rame e della calce […] per combattere e prevenire i due mali» [42].
La breve sintesi delle vicende fin qui esposte induce a pensare come la questione puramente fitopatologica della peronospora ‒ così come era accaduto nel caso della fillossera ‒ nella sua genesi ottocentesca e nei decenni immediatamente successivi, si sia rivelata di fatto portatrice sana di esigenze modernizzatrici del mondo agricolo. Ha costretto non soltanto a ricercare lʼantidoto agronomico, chimico e tecnico per contrastare il temibile fungo, ma anche a tentare di riportare in equilibrio il sistema di relazioni tra tutti i soggetti coinvolti ‒ proprietari terrieri, affittuari, contadini, intermediari, istituzioni centrali e periferiche, uomini di scienza e mondo politico ‒; un sistema obsoleto che non aveva retto alla prova della sovrapproduzione viticola, né alla recessione economica degli anni Ottanta e Novanta dellʼ800, che aveva colpito duramente la Sicilia.
Paradossalmente, a distanza di quasi centocinquanta anni dalla sua comparsa, la peronospora, insieme ai tanti eventi calamitosi che negli ultimi decenni hanno piegato il territorio e lʼagricoltura del nostro Paese, sta nuovamente evidenziando la rottura di un equilibrio; sta segnando la linea di demarcazione tra una gestione dissennata delle risorse planetarie, con le incontrovertibili conseguenze sui mutamenti climatici e lʼurgenza di adottare contromisure radicali, prima che sia troppo tardi, come da tempo avverte la comunità scientifica internazionale. Ma questa volta la soluzione non potrà arrivare dai laboratori di patologia vegetale.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Giovanni SCARAMUZZI, Norme pratiche per un efficace calendario di trattamenti contro la «Peronospora» e lʼ«Oidio» della vite in Sicilia, «Tecnica agricola», anno XII-1960, n. 2: 5-7. Anche lʼannata viticola 1963 sarebbe stata funestata pesantemente dalla peronospora su cui si sarebbe soffermato Nicolò DI STEFANO, Norme pratiche per la lotta alla peronospora ed allʼoidio della vite in provincia di Trapani, Grafiche Corrao, Trapani 1964: «Le cause per cui ancora la lotta antiparassitaria della vite, pur in una viticultura progredita quale quella trapanese, è tradizionale e non perfetta, sono da ricercarsi, principalmente, in queste considerazioni: a) I viticultori conoscono male il ciclo di sviluppo dei parassiti in genere e della peronospora in particolare (mancano per la provincia di Trapani i rilevamenti statistici per la determinazione del periodo di incubazione della peronospora). b) Mancanza dʼacqua per i trattamenti liquidi nelle zone viticole interne della provincia. c) Limitatezza dei capitali di esercizio per cui si tende alla riduzione dei trattamenti antiparassitari. d) Mancanza di organizzazioni cooperativistiche che si assumano lʼonere dei trattamenti collettivi per zone vinicole dʼinfluenza»: 3.
[2] Mario SALERNO, La lotta contro le malattie crittogamiche e da virus, in Viticoltura ed enologia: aspetti colturali e tecnici per un miglioramento qualitativo dei vini, Istituto di tecnica e propaganda agraria, Roma 1971: 82.
[3] Regione Siciliana, Deliberazione della Giunta, n. 375 del 28 settembre 2023; nonché le dichiarazioni di Roberta Bonsignore del Servizio fitosanitario della Regione Siciliana, in https://terraevita.edagricole.it/, 10-11-2023; il carattere corsivo non è nel testo della delibera.
[4] Guido ROSSATI, Relazione di un viaggio dʼistruzione negli Stati Uniti dʼAmerica, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Direzione generale dellʼAgricoltura, Tip. Nazionale di G. Bertero, Roma 1900: 20.
[5] Tim UNWIN, Storia del vino. Geografie, culture e miti dallʼantichità ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1993: 284-286.
[6] Francesco DANDOLO, Vigneti fragili. Espansione e crisi della viticoltura nel Mezzogiorno in età liberale, Guida, Napoli 2013: 71 e ss.; Rosario LENTINI, Lʼinvasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dellʼ800, Torri del Vento, Palermo 2015: 11-36.
[7] Lewis David von SCHWEINITZ, Synopsis Fungorum in America Boreali media degentium, (Communicated to the American Philosophical Society, Philadelphia, 15 April 1831), in Transactions of the American Philosophical Society, held at Philadelphia, for promoting useful knowledge, vol. IV-new series, 1834: 280-281.
[8] Giuseppe CUBONI, Sulla peronospora viticola, «Rivista di viticoltura ed enologia italiana», anno V, n. 5, 15 marzo 1881: 129-138; Edoardo OTTAVI, Peronospora ed erinosi. Istruzione popolare pei contadini, Tip. C. Cassone, Casale 1888: 5-8; Augusto Napoleone BERLESE, Saggio di una monografia delle peronosporacee, «Rivista di Patologia Vegetale», vol. 9 – (1902): 75-77; Elisa GRAZIOLI, Impatto di patogeni fungini “secondari” e procarioti sullo stato fitosanitario di vitigni resistenti a Peronospora e Oidio, tesi di laurea Università degli Studi di Padova, relatore prof.ssa Rita Musetti, anno accademico 2022-2023: 6-10.
[9] Gabriele GOIDANICH, Bruno CASARINI, Sergio FOSCHI, I nemici della vite. Calendario dei trattamenti, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma 1958: 7-8: «Lʼagente parassitario è un Ficomicete che prende il nome di Plasmopara viticola e che si riproduce per via agamica (per «zoosporangi» o «conidi») e per via sessuata (per «oospore»). Il fungo si sviluppa abbondantemente nei tessuti dellʼospite mediante il suo corpo vegetativo o micelio, costituito da cellule filiformi, chiamate ife. Lungo il decorso delle ife si notano numerosi piccoli corpi sferici (austori) che penetrano allʼinterno delle cellule e servono per lʼassorbimento dei materiali nutritivi».
[10] CUBONI, Sulla peronospora cit.: 136.
[11] Vittorio PEGLION, La Fillossera e le principali malattie crittogamiche della vite con speciale riguardo ai mezzi di difesa, Hoepli, Milano 1902: 162-163.
[12] Giorgio PEDROCCO, Viticoltura ed enologia in Italia nel XIX secolo, in La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, Carocci, Roma 2000, vol. I: 617-625; Antonio SALTINI, Storia delle scienze agrarie. Lʼagricoltura al tornante della scoperta dei microbi, Edagricole, Bologna 1989, vol. IV: 468-475.
[13] Marco Antonio SAVORGNAN, La peronospora delle viti (Peronospora viticola, De Bary), Stabilimento di Pietro Celanza, Torino 1886: 4.
[14] Giuseppe SESTI, La peronospora della vite e le cocciniglie degli agrumi, Consorzio agrario siciliano – Biblioteca di propaganda, Stab. Tip. Virzì, Palermo 1902: 15.
[15] Alfonso TARGIONI TOZZETTI, Annali di agricoltura 1888 – Relazione intorno ai lavori della R. Stazione di Entomologia agraria di Firenze per gli anni 1883-84-85, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Direzione generale dellʼAgricoltura, Firenze 1888: 55-77.
[16] Notizie varie – Peronospora, «Bollettino scientifico», Milano, anno II, febbraio 1881, n. 4: 125.
[17] La peronospora viticola in Italia, «Bollettino di notizie agrarie», Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione dellʼAgricoltura, anno III, n. 27 (maggio 1881): 567.
[18] Francesco MINÀ PALUMBO, Corrispondenze, (da Castelbuono, 28 febbraio), «LʼAgricoltura Italiana», fasc. LXXVII, febbraio 1881: 102-103.
[19] Malattie della vite, «Bollettino di notizie agrarie», anno V, n. 59, agosto 1883: 1051; Malattie della vite, «Bollettino di notizie agrarie», anno V, n. 62, settembre 1883: 1099.
[20] MINÀ PALUMBO, Varietà – Peronospora, «Sicilia agricola», anno II, 1884, n. 25: 616-617.
[21] TARGIONI TOZZETTI, Annali di agricoltura cit.: 86.
[22] Archivio di Stato di Palermo (ASPa), Prefettura, Archivio generale (Pref., Arch. gen.), inventario 64a, busta (b.), 106, lettera di Floriano Guerrieri al prefetto della provincia di Palermo, 22-6-1885.
[23] Vittorio NICCOLI, Saggio storico e bibliografico dellʼagricoltura italiana dalle origini al 1900, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1902: 495-499; TARGIONI TOZZETTI, Annali di agricoltura cit.: 55-59 e 85-86.
[24] Giovanni MOTTAREALE, Peronospora viticola, «Sicilia agricola», anno II, 1884, n. 24: 468-472 e n. 25: 496-499.
[25] Dino RUI, Esigenze igienico-sanitarie e necessità fitoiatriche nella attuazione della difesa antiparassitaria in agricoltura, in Atti e memorie della Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona, anno accademico 1988-89, s. VI, vol. XL: 144.
[26] Abele DAMIANI, Relazione generale, in Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc. III, Relazione generale del Commissario Abele Damiani, Forzani e C. Tipografi del Senato, Roma 1885, in particolare: 184-186, dal capitolo «Malattie cagionate da Crittogame e da difetti dellʼambiente», stralcio della memoria di Orazio Comes sulla peronospora. Dello stesso Comes una lettera da Portici, 23 febbraio 1825, alla redazione della «Sicilia agricola», anno III, 1885: 214-216; Orazio COMES, Delle principali malattie delle piante coltivate in Sicilia, «Il Coltivatore», anno XXX-1885, n. 11, 15 giugno: 328-333.
[27] Peronospora viticola. Conclusioni adottate dalla Commissione nominata per lo studio dei metodi intesi a combattere la Peronospora della vite, «Gazzetta Ufficiale del Regno dʼItalia», anno 1887, n. 82, venerdì 8 aprile: 1946-1947.
[28] I rimedi contro la Peronospora, a cura della Direzione, «Lʼagricoltore calabro-siculo», anno XII, n. 14, 31 luglio 1887: 217-221; n. 15, 15 agosto 1887: 230-233.
[29] A. CARTANI, Il polverizzatore Vermorel per i trattamenti liquidi contro la Peronospora, «Giornale Vinicolo Italiano commerciale, industriale e scientifico», anno XIV, n. 14, 1-4-1888: 158-160.
[30] Giacomo GRAZZI SONCINI, Peronospora della vite. Risultati degli esperimenti fatti per combatterla nei vigneti della R. Scuola di Viticoltura ed Enologia in Conegliano, «Nuova rassegna di viticoltura ed enologia della R. Scuola di Conegliano», anno II, n. 3, 15-3-1888: 116-124; n. 6, 31-3-1888: 149-154; n. 7, 15-4-1888: 179-187.
[31] ASPa, Pref., Arch. gen., inv. 64, b. 97, lettera del direttore della R. Stazione agraria sperimentale di Palermo al prefetto della Provincia di Palermo, 13-7-1892; le varietà particolarmente colpite furono lʼinzolia e il perricone.
[32] Corrispondenze viticole-enologiche, «Bollettino della Società generale dei viticoltori italiani», anno VII, n. 13, 10-7-1892: 291-292.
[33] Antonio ALOI, La Peronospora Viticola in Sicilia, «LʼAgricoltore calabro-siculo», anno XVII, n. 11, 15-6-1892: 182.
[34] Ferdinando BELLAROTO, Istruzioni pratiche per conoscere e combattere la Peronospora viticola, Commissione di viticoltura e di enologia della provincia di Palermo, Palermo 1892: 7.
[35] Consorzio agrario siciliano, «Nuovi annali di agricoltura siciliana», 1899: 191-195; lettera di Ignazio Florio al direttore del Giornale di Sicilia, riproposta integralmente dalla rivista; Ferdinando ALFONSO SPAGNA, Consorzio agrario siciliano, «Nuovi annali di agricoltura siciliana», 1900: 63-64; Francesco RENDA, Socialisti e cattolici in Sicilia 1900-1904, S. Sciascia, Caltanissetta-Roma 1972: 121; Salvatore LUPO, Rosario MANGIAMELI, La modernizzazione difficile. Città e campagne nel Mezzogiorno dallʼetà giolittiana al fascismo, De Donato, Bari 1973: 239; Rosario LENTINI, Lʼepilogo (1874-1902), in Romualdo GIUFFRIDA, Rosario LENTINI, Lʼetà dei Florio, Sellerio, Palermo 1985: 85-89; Orazio CANCILA, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019: 211-213.
[36] «Nuovi annali di agricoltura siciliana», anno XIII (1902), fasc. 3°, lettera di Pietro Ballesteros, marchese di Bongiordano al direttore della rivista, con allegato “Contratto di piantagione a Colonìa di un vigneto nell’ex-feudo Bongiordano in Provincia di Palermo nei territorj di Misilmeri e Bolognetta”.
[37] Ibidem; il carattere corsivo non è nel testo originale.
[38] CUBONI, Lʼinfezione della peronospora in Italia nel 1889, «Bollettino della Società generale dei viticoltori italiani», anno V, n. 6, 25-3-1890:139-143.
[39] Ivi: 139-140; la conversione e rivalutazione in euro del 2015 porta alla ragguardevole cifra di circa 855 milioni di euro.
[40] ASPa, Pref. Gabinetto, inv. 67a, b. 207, lettera del prefetto della Provincia di Trapani al prefetto della Provincia di Palermo, Trapani, 23-12-1902.
[41] Corrispondenze viticole-enologiche, lettera di Federico Paulsen alla redazione, Palermo 15 agosto 1892, «Bollettino della Società generale dei viticoltori italiani», anno VII, n. 16, 25-8-1892: 351; BERLESE, Relazione sullʼinfezione della peronospora in Italia nel 1893 e sui risultati della lotta intrapresa allo scopo di combattere il parassita, «Rivista di patologia vegetale», vol. II, n. 10-12, dicembre 1893 – febbraio 1894: 337-384; in particolare 379.
[42] Archivio Ingham-Whitaker di Marsala, registro “Almanza”, lettera dellʼamministratore Alex Smyth al fiduciario di Bagheria, Nicolò Almanza, (?)-1914: 294.
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Typis regiis. La Reale Stamperia di Palermo tra privativa e mercato (1779-1851) Palermo University Press 2017); Sicilie del vino nell’800 (Palermo University Press 2019).
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