di Elio Rindone
La conversione all’Islam di Silvia Romano – la volontaria italiana rapita in Kenya e liberata il 10 maggio 2020, dopo essere stata per ben 15 mesi prigioniera di un gruppo terroristico di matrice islamista, il Partito dei Giovani, da anni attivo in Somalia – dovrebbe essere una scelta assolutamente personale. Essa, invece, ha provocato la dura, e talvolta volgare, reazione di una parte dell’opinione pubblica, e addirittura l’accusa rivolta alla nostra cooperante di essere quasi diventata lei stessa una terrorista. Ora mi chiedo: se la Romano si fosse convertita non all’islam ma, per esempio, all’induismo, ci sarebbero state reazioni simili? Ovviamente no, e il motivo è chiaro: nei Paesi occidentali l’islam, e non certo l’induismo, è ormai considerato la religione dei nostri nemici.In effetti, non sono pochi i terribili atti di terrorismo di matrice jihadista – jihad è un termine che ha vari significati ma in Occidente è comunemente inteso come ‘guerra santa dei musulmani contro gli infedeli’ – che hanno causato migliaia di vittime tra la gente comune, e l’opinione pubblica occidentale, dopo la caduta dei regimi comunisti, tende a identificare da tempo il mondo islamico come il nemico per eccellenza, tanto più pericoloso quanto più appaiono incomprensibili le ragioni dell’odio che nutre verso l’Occidente, e in particolare verso gli Stati Uniti.
Ma tali ragioni risultano incomprensibili per gran parte dell’opinione pubblica solo a causa della costante manipolazione del sistema dell’informazione (a cui si aggiunge non di rado l’inadeguata conoscenza dei fatti da parte degli stessi che dovrebbero informare), che ha diviso nettamente il mondo in buoni e cattivi, presentando quella occidentale come una civiltà superiore, ingiustamente aggredita da Stati canaglia, Nazioni collegate in un Asse del Male o terroristi impegnati a combattere appunto la jihad, la guerra santa per il trionfo dell’islam.
Se, al contrario, si conoscessero un po’, da un lato, le scelte politiche e militari e le strategie economiche delle Potenze occidentali degli ultimi decenni e, dall’altro, le vicende storiche riguardanti i rapporti tra i diversi Paesi coinvolti in questo preteso scontro di civiltà, le ragioni di tale ostilità – che è arrivata a manifestarsi anche con attentati terroristici assolutamente da condannare (New York 2001, Madrid 2004, Londra 2005, Parigi 2015, Bruxelles, Nizza e Berlino 2016, Barcellona 2017 sono soltanto i casi più noti ma sarebbe opportuno ricordare anche gli attentati compiuti in Asia e in Africa) – forse risulterebbero tutt’altro che incomprensibili. E basterebbe consultare gli scritti di Bernard Lewis, Franco Cardini, Paolo Barnard, John Perkins o Tariq Ramadan, autori con prospettive tra loro non di rado divergenti e da cui traggo le notizie che seguono, per capire quanto sia mistificante la vulgata oggi propinata a lettori e telespettatori, che credono invece di essere ben informati.
I tanti occidentali che vedono nei musulmani quasi dei barbari ignorano che per parecchi secoli la civiltà islamica fu ben più progredita di quella europea: essa abbracciava un vastissimo territorio – dal Marocco all’Indonesia, dal Kazakistan al Senegal – e comprendeva numerosi regni ricchi e potenti, in cui fiorivano i commerci, le scienze e le arti. Con incredibile rapidità, subito dopo la morte di Maometto nel 632, le armate partite dalla penisola araba hanno diffuso la nuova religione travolgendo ogni ostacolo, e la loro avanzata in Europa è stata arrestata solo agli inizi dell’ottavo secolo a Costantinopoli, che ha resistito a numerosi assedi, e a Poitiers, dove i Franchi hanno riportato un’importante vittoria.
Si sono formate, così, due grandi aree caratterizzate da due religioni, che si rifacevano alla tradizione abramitica e attingevano al patrimonio della cultura ellenistica: religioni animate entrambe da pretese universalistiche e ciascuna delle quali considerava se stessa l’unica vera. Da una parte, l’Europa, la Christianitas, che al suo interno era decisamente intollerante, e che chiamava infedeli coloro che vivevano al di fuori dei suoi confini; dall’altra, la Casa dell’Islam, che si accontentava di chiedere un tributo a cristiani ed ebrei che vivevano nei suoi territori, e che si contrapponeva, anche militarmente, a quella che chiamava la Casa della guerra, abitata dai non musulmani. Stando così le cose, i rapporti, ovviamente, non potevano essere di buon vicinato, anche se non sono mancati periodi di convivenza pacifica e di intensi scambi non solo commerciali ma anche culturali: basta ricordare che alcuni filoni della filosofia greca sono arrivati ai cristiani proprio attraverso gli arabi.
In effetti, alla prima ondata di espansione militare (VII-VIII sec.) che ha visto la conquista da parte delle tribù arabe (ma poi saranno coinvolti altri popoli, come i persiani e i turchi) di territori di tradizione cristiana – Palestina, Siria, Egitto, Africa del nord – sono seguiti secoli di razzie e saccheggi da parte di flotte e truppe musulmane. Ha poi inizio (XI sec.) un breve periodo di riscatto e contrattacco delle forze cristiane, che si concretizza nel completamento della “reconquista” spagnola, nelle crociate e nell’ascesa delle repubbliche marinare, che riescono a controllare le principali rotte mediterranee, strappando ai musulmani una lunga supremazia navale. Una seconda ondata espansionistica (XV sec.) culmina nella conquista di Costantinopoli da parte dei turchi: ha così fine l’impero bizantino e si consolida quello turco, che comprende tra l’altro la penisola balcanica, l’Anatolia e la Tracia. I musulmani si spingono più volte sino alle porte di Vienna, e non basta a contrastare la loro supremazia la vittoria della flotta cristiana a Lepanto nel 1571, mentre sarà decisiva per arrestare definitivamente l’avanzata turca la vittoria nella battaglia di Vienna del 1683, che pone fine dopo due mesi all’assedio della città.
Terminato, così, il lungo primato islamico, che è durato presso a poco undici secoli, negli ultimi tre si è andata consolidando l’egemonia dell’Occidente. Qui, però, la religione cristiana ha visto progressivamente diminuire la propria rilevanza a vantaggio di una nuova mentalità prodotta da profondi cambiamenti economici, politici e culturali: diffusione della scienza e della tecnica, rivoluzione industriale, illuminismo, liberalismo e democrazia, socialismo e comunismo, nazionalismo, femminismo, individualismo, laicità, consumismo. Un processo di modernizzazione a cui il mondo islamico è rimasto sostanzialmente estraneo. Non è difficile, quindi, comprendere la frustrazione di chi per circa un millennio aveva ritenuto un fatto ormai acquisito la propria superiorità sia in campo culturale che militare.
E si capisce anche il profondo senso di disorientamento delle masse arabe che vengono a conoscenza, grazie soprattutto all’inevitabile diffusione di programmi televisivi europei e americani, sia di un elevato tenore di vita per loro inimmaginabile sia di costumi e mentalità che contrastano con le loro tradizioni. Ovviamente lo stile di vita occidentale, da una parte, suscita interesse e apprezzamento – specialmente da parte delle donne che vorrebbero godere di una maggiore libertà – ma, dall’altra, provoca un deciso rifiuto in quanto, in base ai criteri della morale islamica, non può che essere giudicato come frutto di un crescente degrado.
Ciò spiega il successo dei movimenti che, appellandosi alle glorie del passato, vedono nella religione l’elemento capace di unire i popoli arabi per dar vita a un duro confronto-scontro con i Paesi occidentali. Questi movimenti promuovono un islam radicale e, denunciando la laicizzazione della società, condannano la riduzione della fede alla sfera intima della coscienza, mentre la legge islamica, la shari’a, dovrebbe al contrario influenzare e modellare tutta la vita sociale e politica. Da qui la condanna della maggior parte dei governanti arabi, dagli islamisti non solo considerati empi perché si sono allontanati dalla purezza della fede ma anche accusati di complicità con l’Occidente nello sfruttamento delle loro ricchezze.
Questi motivi di ostilità, dunque, ci sono realmente, ma pare difficile considerarli la causa decisiva del preteso scontro di civiltà. Infatti, è vero che una parte del mondo musulmano rifiuta quelli che gli occidentali chiamano i ‘nostri valori’, ma le sofferenze che abbiamo inferto a quei popoli con le nostre scelte politiche, militari ed economiche sono più che sufficienti per spiegare le ragioni del loro malessere e delle loro reazioni, che non si possono certo ridurre ai crimini dei terroristi.
È un dato incontestabile, infatti, che il mondo islamico, come quello cristiano – che conosce enormi differenze, per esempio, tra italiani e americani, pacifisti e guerrafondai, cattolici e luterani, colti e ignoranti, egoisti e altruisti, ricchi e poveri, conservatori e progressisti – è al suo interno estremamente variegato. Atteggiamenti di tolleranza e di intolleranza, per esempio, si possono ritrovare tanto nella civiltà occidentale, quanto in quella islamica, e a seconda dei tempi prevalgono ora gli uni ora gli altri. Superata l’idea delle discriminazioni razziali, sarebbe bene perciò evitare la trappola della contrapposizione tra la nostra cultura e la loro, con l’ovvio sottinteso della superiorità della nostra. E sarebbe evidentemente privo di senso identificare il terrorismo con l’islam o etichettare come terroristi i quasi due miliardi di persone che aderiscono a questa religione. È una piccola minoranza, infatti, che negli ultimi decenni ha scelto la via del terrorismo.
Ovviamente bisogna combattere con assoluta decisione movimenti come quelli di Al Qaeda (in italiano La Base), guidato dal saudita Osama Bin Laden (1957-2011), e dell’IS (sigla di Stato Islamico), guidato dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi (1971-2019). Ma non basta. Se si vuole risolvere davvero la questione del terrorismo, è necessario anche cercare di capire quali sono state le cause scatenanti di questa reazione violenta, e non è difficile trovare una risposta se ci si fa attenti a quanto hanno esplicitamente affermato i suoi leader. Dopo le stragi dell’11 settembre 2001, infatti, Osama dichiarò che la ferita appena inferta agli Stati Uniti non era per nulla paragonabile all’umiliazione che la nazione musulmana aveva subito “per più di ottant’anni”. A cosa si riferiva Bin Laden, cosa era successo circa 80 anni prima del 2001? Evidentemente si riferiva a quanto era accaduto alla fine della prima guerra mondiale.
Infatti in quegli anni, in seguito al crollo dell’Impero ottomano, le due principali potenze vincitrici europee, Francia e Gran Bretagna, tradendo le promesse fatte agli arabi che avevano combattuto come loro alleati, estesero la propria influenza sulle aree di particolare interesse strategico del Medio Oriente, letteralmente ‘inventando’ Stati che non erano mai esistiti – come Iraq, Israele, Giordania, Libano, Siria, Kuwait e Arabia Saudita – con confini tracciati in maniera arbitraria, senza tenere minimamente conto delle differenze etniche e religiose delle varie popolazioni, al solo fine di ottenere il controllo delle vie di comunicazione, il monopolio del commercio e successivamente lo sfruttamento degli immensi giacimenti petroliferi.
Come in Africa, così in Medio Oriente gli europei esportarono dunque – con la più assoluta indifferenza rispetto alle necessità e alle richieste dei popoli arabi, al cui interno avevano cominciato a diffondersi idee di libertà, eguaglianza e giustizia sociale – il modello dello Stato-nazione in una regione che non lo aveva mai conosciuto e nella quale le persone, le merci e le idee circolavano liberamente. In precedenza infatti erano esistiti soprattutto o imperi sovranazionali, dal califfato classico all’Impero ottomano, che inglobavano territori e popoli che non si riconoscevano in alcuna idea nazionale, o sultanati locali altrettanto privi di una propria stabile identità.
La frammentazione politica imposta dalle potenze europee ha quindi impedito la possibile creazione di una nazione unificata araba che avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico e multiconfessionale in un clima di libertà e di tolleranza, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Nei nuovi Stati si sono col tempo consolidati, con un innegabile processo di modernizzazione, sistemi costituzionali con parlamenti e partiti, reti burocratiche e forme di amministrazione ispirati ai modelli occidentali; nel contempo, però, sono aumentate le diseguaglianze economiche e sociali, con la nascita di gruppi di potere locale tanto forti da sfuggire al controllo della legge e dell’autorità centrale, e sempre più lontani dalla massa della popolazione.
Il progressivo annullamento delle conquiste sociali, e la trasformazione di istituzioni apparentemente parlamentari in regimi sostanzialmente a partito unico, con la conseguente limitazione della partecipazione politica, hanno così provocato col passare dei decenni un diffuso malcontento, acuito da una crisi economica che trovava espressione nell’abbandono delle campagne e nel depauperamento della classe media.
A queste ragioni di malcontento, va aggiunta la creazione di uno Stato ebraico in territorio palestinese. Già nel 1917 il ministro degli esteri inglese Balfour promise l’appoggio del suo governo al riconoscimento di un ‘focolare nazionale ebraico’ in Palestina. L’afflusso degli ebrei che, iniziato già nella seconda metà dell’Ottocento, aveva permesso l’acquisto di una notevole quantità di terreni dai vecchi proprietari palestinesi, si intensificò dopo le persecuzioni culminate nei campi di sterminio nazisti, tanto che nel 1948 poté nascere una vera e propria entità politica, lo Stato di Israele. Immediatamente aggrediti da truppe arabe di diversi Paesi, gli israeliani respinsero l’attacco e passarono all’offensiva, riportando una schiacciante vittoria. Il nuovo Stato, che permetteva a milioni di ebrei di avere di nuovo una patria, occupò così buona parte della Palestina storica: gli arabi si videro privati della loro terra e la popolazione palestinese fu costretta a un doloroso esodo di massa, ancora oggi definito ‘la catastrofe’, verso i Paesi vicini, che dovettero anche sopportare il peso del mantenimento di campi profughi in cui le condizioni di vita erano spesso disumane.
È questo l’inizio di un tragico conflitto che dura tutt’ora e che ha conosciuto periodi di vere e proprie guerre – vittoriose per gli israeliani – alternati a tentativi di pacificazione, mai risolutivi, mentre lo Stato israeliano continua ancora a insediare propri coloni nei territori palestinesi occupati, con una pratica che l’ONU ha bollato come assolutamente illegale: ma la risoluzione del 2011, come era avvenuto in altri casi, non è diventata operativa a causa del veto posto – sotto la presidenza di Obama – dagli Stati Uniti, sempre pronti invece a condannare gli attentati, sicuramente intollerabili, dei terroristi palestinesi. Sarebbe a dir poco ipocrita stupirsi del risentimento arabo nei confronti degli USA, dal momento che persino i presidenti democratici appaiono regolarmente schierati dalla parte di Israele.
La situazione si è ulteriormente aggravata dopo la scoperta degli immensi giacimenti petroliferi che si trovano nella regione. Già alcuni anni prima dell’inizio della seconda guerra mondiale alcuni Stati mediorientali avevano chiesto capitali occidentali per cominciare a sfruttare quei giacimenti dai quali fino ad allora non avevano ricavato nulla, a causa della mancanza di denaro e di tecnici. Ma dopo la fine della guerra, i popoli mediorientali, convinti di avere ormai acquisito i mezzi per gestire da soli i loro enormi patrimoni, avevano crescenti difficoltà ad accontentarsi delle briciole che le potenze occidentali, inglesi e soprattutto americane, lasciavano loro.
I regimi più compromessi con gli interessi occidentali furono così abbattuti e sostituiti da governi più popolari, che reclamavano la nazionalizzazione delle risorse petrolifere. Ma è ovvio che per le grandi potenze è più conveniente trattare con regimi autoritari e corrotti che con governi democratici: si comprende, perciò, come esse abbiano ostacolato, sino alla loro caduta, quei governi e sostenuto regimi, come quello dell’Arabia Saudita, che sono trattati tutt’ora come affidabili alleati. E non c’è quindi da stupirsi se i popoli mediorientali, in larga misura, nutrono una profonda ostilità nei confronti non solo delle potenze occidentali ma anche dei propri governanti che li opprimono e si arricchiscono svendendo le risorse dei loro Paesi.
La storia del petrolio è, dunque, sino a oggi la storia dell’imperialismo occidentale nel mondo. Le grandi società petrolifere internazionali sono entrate in possesso delle ricchezze nazionali dei Paesi produttori, sulla scia degli interventi militari delle rispettive potenze, impadronendosi con un’economia di rapina e a un costo estremamente basso di un prodotto rivenduto a prezzi molto più elevati su scala mondiale. Ancora una volta, per comprendere le ragioni del risentimento arabo nei confronti dell’Occidente basterebbe, dunque, prendere sul serio le spiegazioni fornite da chi per combatterci ha scelto la via del terrorismo. L’egiziano Ayman al-Zawahiri, dal 2011 capo di Al Qaeda in seguito all’uccisione di Osama bin Laden, in un videomessaggio del 2005, per esempio, dichiarava rivolgendosi a inglesi e americani: «Non ci sarà salvezza finché voi non vi ritirerete dalle nostre terre, non cesserete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse e non smetterete di dare il vostro sostegno ai nostri regimi corrotti e infedeli».
Forse davvero il superamento di questa lunga conflittualità sarà possibile solo se ci sarà – ma allo stato attuale non pare affatto probabile – un radicale cambio di rotta della politica delle potenze occidentali, e in particolare degli Stati Uniti. Prima di accusare gli altri di terrorismo, sarebbe bene infatti ricordare le sofferenze imposte ai popoli arabi: ci limitiamo qui a ricapitolare in maniera sintetica un solo caso, quello relativo al trattamento riservato all’Iraq negli ultimi decenni.
Dopo la fine della prima guerra mondiale l’Iraq conosce una rapida modernizzazione: redistribuzione delle terre ai contadini, riconoscimento del diritto al lavoro, introduzione della parità uomo-donna e nazionalizzazione del petrolio. Questa politica, sostenuta dal favore popolare, provoca la reazione degli Inglesi, che nel 1963 bombardano Bagdad e appoggiano un colpo di stato: quelle leggi vengono ovviamente abrogate. Nei successivi quindici anni si alternano governi più vicini agli USA, che ormai hanno sostituito la Gran Bretagna come potenza egemone nell’area, o all’URSS, che mira a espandere la sua influenza sui Paesi arabi; governi disposti a consentire lo sfruttamento straniero dei pozzi di petrolio o decisi a nazionalizzare imprese e banche; alla metà degli anni settanta si avvia anche un programma di industrializzazione che pone l’Iraq all’avanguardia tra i Paesi del Golfo.
Nel 1979 arriva al potere Saddam Hussein che, se prosegue con le riforme modernizzatrici, comincia a instaurare una dittatura personale; ma quando Saddam invade nel 1990 il Kuwait, convinto che gli americani, date le buone relazioni intrattenute sino ad allora, lo lasceranno fare, gli USA organizzano in pochi mesi una grande coalizione, sostenuta con miliardi di dollari anche da Paesi arabi che si sentono minacciati dall’espansionismo iracheno.
Dopo i bombardamenti aerei della coalizione alleata, in questa prima guerra del Golfo del 1991, l’Iraq è completamente devastato: vittime di cui è difficile stabilire il numero, infrastrutture distrutte, il Paese riportato all’era preindustriale. Nel 1996 persino Ramsey Clark, ministro della giustizia americano ai tempi di Kennedy e di Johnson, accusò di genocidio la politica irachena degli USA. Ma la prima guerra del Golfo ha lasciato Saddam al potere, e né l’embargo né i bombardamenti americani e inglesi, che dal 1998 in poi si susseguono quasi quotidianamente per iniziativa di Clinton e di Blair, provocano l’atteso colpo di stato che sostituisca Saddam con un dittatore più manovrabile. Così, approfittando dello shock provocato dall’attentato dell’11 settembre del 2001, l’amministrazione americana, nonostante le manifestazioni che vedono milioni di persone scendere in piazza a favore della pace, dà inizio alla seconda guerra del Golfo. Solo nei primi giorni dell’operazione, condotta con la tattica ‘colpisci e terrorizza’, sono state sganciate più bombe di quante ne sono state utilizzate nell’intera guerra precedente, con massacri indiscriminati di civili e di militari e con devastazioni che consentiranno buoni guadagni alle imprese americane incaricate della ricostruzione.
Gli anni seguenti alla caduta nel 2003 di Saddam Hussein, che sarà giustiziato nel 2006, sono stati caratterizzati dall’esplosione di quei conflitti che erano da tempo latenti nella società irachena ma che erano stati tenuti sotto controllo dalla violenta repressione attuata dal regime. E così, con la fine dell’occupazione statunitense nel 2011, le forze jihadiste che, nonostante le accuse americane, in Iraq erano in realtà state emarginate, vedono crescere il loro consenso e le loro possibilità militari. Le violenze degenerano ben presto in una guerra civile, che continua a più riprese fino a culminare nel 2014 nella formazione dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), in seguito diventato semplicemente Stato Islamico (IS): controllando ormai un terzo del Paese, Abu Bakr al-Baghdadi può infatti dichiarare a Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, la creazione del califfato. Già alla fine del 2017 tutte le città dell’Iraq torneranno sotto il controllo del governo, ma le violenze proseguiranno almeno sino all’uccisione di al-Baghdadi nel 2019.
Oggi il Paese, devastato da anni di guerra civile, con carenza di servizi pubblici e infrastrutture essenziali, non è ovviamente in grado di garantire lavoro e accettabili condizioni di vita agli iracheni, sicché il malcontento della popolazione sfocia in frequenti manifestazioni di protesta.
Ancora una volta, in conclusione, emerge in primo piano il ruolo dell’informazione. Si parla tanto di terrorismo islamista, ma quello messo in atto nei confronti della popolazione irachena che cosa è stato se non terrorismo all’ennesima potenza? Le ragioni addotte per giustificare la guerra – dalla volontà di esportare la democrazia alla necessità di eliminare le armi di distruzione di massa che non sono state mai trovate – servivano con tutta evidenza soltanto a difendere gli interessi delle multinazionali e a mantenere alto il nostro tenore di vita che – i presidenti americani lo dichiarano apertamente – ‘non è negoziabile’.
Se i media, invece di fare propaganda a buon mercato, rifiutassero l’asservimento al potere – cosa purtroppo niente affatto probabile – e si preoccupassero di raccontare integralmente i fatti, credo che tanti italiani eviterebbero di insultare Silvia Romano per la sua conversione all’Islam. E penso che almeno una buona parte dell’opinione pubblica occidentale, correttamente informata, la smetterebbe di identificare islam e terrorismo e, rifiutando l’infantile divisione del mondo in buoni e cattivi, comincerebbe a fare pressione sui propri governi perché questi pongano fine allo sfruttamento e alle sofferenze che da troppo tempo impongono ai popoli arabi.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venti anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su Aquinas, Rivista internazionale di filosofia, Critica liberale, Il Tetto, Libero pensiero.
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