All’origine c’è un gruppo di maestri. Ma prima ci sono i venti di democrazia del dopoguerra. E ci sono un cane e un armadio, anzi, per essere precisi, le parole «cane» e «armadio». E bambini, che si divertono a giocarci, con queste parole. Sì, ci sono i bambini e ci sono sguardi che si posano su di loro con attenzione, rispetto, con curiosità e desiderio di sperimentare imparando da loro. E oltre invece cosa c’è?
Rodari è stato spesso etichettato in maniera rassicurante come scrittore per l’infanzia, ma la definizione è incompleta o viziata da alcuni errori di valutazione. Ad esempio, è cosa di poco conto o più semplice occuparsi dell’infanzia? Rodari si è occupato solo di bambini? Non è stato invece un intellettuale rivoluzionario, serio e attento nel suo coltivare la fantasia, sì al servizio dell’infanzia ma per costruire una società e un mondo diversi?
L’ultimo libro di Vanessa Roghi, Un libro tutto d’oro e d’argento. Intorno alla Grammatica della fantasia di Gianni Rodari (Sellerio, Palermo, 2024) fa chiarezza sul processo e sulle idee che hanno portato alla nascita della Grammatica mettendo in relazione l’autore con le dinamiche storiche, sociali e culturali e, soprattutto, dice quanto ancora abbiamo bisogno dei suoi insegnamenti.
Roghi, che si definisce sul suo blog «storica del tempo presente», si occupa principalmente di scuola e cultura. Il tratto della comunicazione efficace e facilmente accessibile di temi importanti è evidente in un testo come Voi siete il fuoco. Storia e storie della scuola, uscito per Einaudi ragazzi nel 2021, che propone ai più giovani il racconto di come si è arrivati ad una scuola democratica, per tutti. Dall’interesse per grandi figure che hanno segnato l’educazione in Italia nascono invece i saggi usciti per Laterza La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, Il potere delle parole (2017), Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica (2022). Sempre per Laterza è uscito nel 2020 Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (2020) a cui Un libro tutto d’oro e d’argento si collega.
Prima di tutto, perché questo titolo? Nella Grammatica della fantasia [1] Rodari definisce «un libretto tutto d’oro e d’argento» Immaginazione e creatività nell’età infantile di Vygotskij, gli riconosce cioè valore perché vi si descrive in modo chiaro l’immaginazione della mente umana come attitudine comune a tutti gli esseri umani, non solo agli artisti, e vi si afferma che la pedagogia della creatività è fondamentale: una cosa seria insomma, da mettere alla base di tutto quello che si fa in ambito educativo, non un diversivo semplice e leggero per intrattenere i bambini, per farli stare buoni, e neppure una pratica da mettere semplicemente in relazione con l’educazione cosiddetta artistica. Ecco spiegata allora la scelta di Roghi: anche la Grammatica della fantasia è infatti un libro d’oro e d’argento perché ha saputo riprendere le istanze proposte da Vygotskij – e non solo – e le ha rielaborate trasformandole in uno strumento pedagogico e di elaborazione culturale.
Che la Grammatica della fantasia debba molto alla città di Reggio Emilia è testimoniato dalla dedica di Rodari poi chiarita nell’Antefatto dove lo scrittore definisce come una delle più belle della sua vita la settimana dal 6 al 10 marzo 1972, trascorsa a ragionare con una cinquantina di insegnanti di scuole dell’infanzia, elementari e medie, sulla funzione dell’immaginazione, sulle tecniche per stimolarla e su come comunicare a tutti quelle tecniche [2]. Non sorprende allora che Roghi nell’entrare nell’officina rodariana, nel capitolo 1, Fantastica, scelga proprio di soffermarsi su questa esperienza regalando al lettore uno splendido spaccato sul Reggio Emilia Approach, sul metodo dell’immeritatamente poco noto Loris Malaguzzi, ovvero «Il bambino è fatto di cento», e sulla spinta verso l’attuazione della democrazia con la straordinaria palestra di sperimentazioni voluta per l’infanzia dai Comuni democratici. È dunque l’incontro con una realtà stimolante, in cui gli insegnanti si impegnano attivamente per andare oltre la teoria, dove si sperimentano le prime scuole pubbliche per l’infanzia, il tempo pieno e l’integrazione di bambini cosiddetti difficili in classi normali, a suscitare il taglio operativo, la concretezza dei brevi capitoli della Grammatica.
Ma all’origine del saggio di Rodari c’è anche uno dei Frammenti di Novalis, «Se avessimo una Fantastica come abbiamo una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare», e Roghi ce lo dice proprio in apertura del primo capitolo, riprendendo l’Antefatto. L’incontro, attraverso la lettura, con Novalis è precoce, risale infatti al 1938, anno in cui Rodari insegna italiano a una famiglia di ebrei tedeschi rifugiatisi in Italia per sfuggire alle leggi razziste emanate in Germania. Da lì nasce il quaderno di Fantastica, appunti sempre più corposi, che si nutrono poi di tecniche surrealiste, della lezione sul diritto di divertirsi di Aldo Palazzeschi ma che risentono anche delle idee della Resistenza e del movimento comunista italiano. Ragion per cui Rodari punta sempre di più a rendere la sua Fantastica «qualcosa che incida non solo nella vita dei poeti ma di tutti, uno strumento politico». L’esperienza della lettura giovanile e quella degli incontri di Reggio Emilia si intrecciano allora in un unico percorso di tensione verso la democrazia. E si capisce l’emozione testimoniata da Rodari nel leggere nei manifesti del comune la dicitura Incontri con la Fantastica, perché è proprio alla Fantastica che egli ha dedicato la sua vita.
Nel primo capitolo Roghi ci racconta anche gli inizi della carriera da giornalista di Rodari, prima su «L’Unità» e poi su «Paese sera». Un talento umoristico che non può essere sprecato, quello dello scrittore, ma che è pericoloso utilizzare nella cronaca perché quelli sono anni di guerra fredda. A Rodari allora, impiegato nella scrittura per l’infanzia, in «cose da bambini», è concessa una grande libertà espressiva. Ma la vera rivoluzione si compie quando egli comincia a pensare che il patrimonio di intelligenza sua e dei suoi tempi «debba riguardare anche i bambini, non come soggetti passivi da educare, sui quali riversare compatto e luminoso il proprio sapere (parola che risplende come croco in mezzo a polveroso prato) ma come esseri umani attivi da coinvolgere». In particolare, secondo Rodari, è necessario allenare in loro la creatività, alimentare la fantasia.
Sì, la fantasia. Che occorre distinguere dalla fantasticheria. Nel suo Antefatto Roghi si sofferma sul potere della fantasia e soprattutto sul potere della fantasia per Rodari. Quando nel 1970 riceve il premio Andersen, lo scrittore dichiara che
«la fantasia è quella capacità che abbiamo tutti, fin da bambini, di immaginare cose che ancora non esistono. Una caratteristica non solo dei poeti ma anche degli scienziati. […] Fantasia è anche cercare il modo di sperimentare ordini politici, economici e sociali, diversi da quello attuale, e coincide a volte con l’utopia, ciò che non sta, ancora, da nessuna parte».
Anche Newton insomma ha avuto fantasia per scoprire la legge della gravitazione universale, anche Marx, per immaginare un mondo in cui i lavoratori non sono oppressi. E la fantasia è ben diversa dalla fantasticheria perché è strumento per trasformare, mentre la seconda è un vagare senza meta, come di chi «seduto in poltrona immagina di vincere alla lotteria e poi se ne va in ufficio». Saper cogliere questa differenza fin da piccoli è molto importante, secondo Rodari: se infatti la fantasticheria non è indispensabile per crescere bene, la fantasia è fondamentale; senza fantasia non è possibile immaginare niente di nuovo e diverso, niente di migliore rispetto a ciò che esiste già.
A nutrirla, la fantasia, ci pensa la realtà, che è inesauribile fonte di storie se la si guarda con gli occhiali giusti, come spiega Rodari a una lettrice su «Paese sera» il 14 settembre 1969. Ma soprattutto la fantasia cresce grazie alla parola. Che è sasso nello stagno dei pensieri, è in grado di agitare le acque, produrre «onde di superficie e di profondità» [3], provocando «una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni» [4], e può toccare la nostra memoria, la nostra esperienza, il nostro inconscio con inaspettati risvolti generativi. Sebbene questo processo possa far affiorare anche fantasmi e ricordi dolorosi. Rodari sceglie di perseguire la via della fantasia e della leggerezza. A tal proposito Roghi ricorda il dramma del padre fornaio morto precocemente di polmonite per aver soccorso un gatto in una notte di pioggia a cui lo scrittore reagisce popolando di «gatti favolosi le sue storie e filastrocche».
Al valore creativo della parola per Rodari la studiosa dedica pagine interessanti, facendo risaltare le connessioni con il contesto storico-culturale e con altri intellettuali. Se la scelta della leggerezza richiama inevitabilmente il Calvino delle Lezioni americane, è tutto il contesto del dopoguerra con le ferite profondissime della Storia a chiedere un nuovo modo di guardare e chiamare la realtà. La retorica fascista ha piegato il linguaggio a strumento di violenza e dominio. Occorre perciò rifondarlo. Per tutti la parola deve avere non solo una funzione poetica ma anche politica.
Tutta la Grammatica è attraversata da un profondo interesse per la lingua e i suoi usi che si fonda proprio sull’idea che l’educazione linguistica sia un lavoro politico, perché base della cittadinanza democratica: le parole possono cambiare il mondo. Per l’elaborazione di queste convinzioni è fondamentale la lettura di Gramsci. Di questo Roghi ci parla all’inizio del bel capitolo intitolato Le parole gentili evidenziando come per Rodari la scoperta di Lettere dal carcere dopo anni di letture surrealiste abbia significato l’inizio di una riflessione sulle implicazioni sociali della lingua. D’altra parte la riflessione politica sulla lingua come strumento di cittadinanza caratterizza anche altri straordinari intellettuali nel dopoguerra, come don Milani e Mario Lodi.
Se lavorare sulla lingua significa renderla strumento di progresso, strumento per governare il mondo, per dargli un ordine, per avere potere sulle cose, tanto più è necessario cominciare a lavorarci già con i bambini. La scelta, così viva nella Grammatica ma già nel Libro degli errori, di insegnare il cambiamento linguistico nella scuola come chiave per cambiare la società è di una sconvolgente attualità. La riflessione di Roghi a tal proposito è significativa. Davvero, come sostengono alcuni, è necessario prima pensare a cambiamenti di ben altra natura, tralasciando come fatto elitario e poco politico la riflessione sulla lingua? Non conviene forse fare le due cose insieme? E non è forse importante farlo con i bambini, anche attraverso quelle che sembrano solo storielle divertenti? La vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole: più siamo competenti nel padroneggiarle, più è completa la nostra partecipazione alla società di cui facciamo parte.
L’esperienza di Reggio Emilia è significativa per Rodari proprio perché gli permette il confronto con maestri, in particolare con Giulia Notari, che ritengono politicamente rilevante il lavoro su espressività e linguaggio con i bambini. Le parole possono regolare la vita comune, possono persino incidere sulla morale. Ecco spiegata l’attenzione per quelle che Rodari chiama storie escrementizie, come Pierino e il pongo, in cui il bambino protagonista usa la parola «cacca» in modo liberatorio, reagendo a un modello repressivo familiare e rovesciando in riso il senso di colpa. L’auspicio è che arrivi un giorno in cui sarà di «“cattivo gusto” sfruttare il lavoro altrui e mettere in prigione gli innocenti e i bambini, invece, saranno padroni di inventarsi storie veramente educative anche sulla “cacca”» [5]: la parola insomma consentirà un futuro più giusto cambiando il comune senso del pudore e «rendendo possibili le parolacce ma impossibile lo sfruttamento». Colpisce però che Rodari, nel capitolo Le storie tabù, dichiari che questo avverrà forse «solo dopo il Duemila», «intorno al 2017» [6]: è accaduto davvero quanto affermava-sperava lo scrittore?
Attraverso l’uso della lingua – e dell’immaginazione – Rodari promuove anche il superamento della contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica. Nel capitolo Le due culture Roghi si sofferma proprio su questo. Se infatti, come sostiene Galileo, il libro della natura può essere letto solo da chi ne conosce la lingua, ovvero quella della matematica, allora è necessario che questa lingua diventi accessibile a tutti ed è forse utile – e divertente – che ciò avvenga attraverso storie e filastrocche. Gli insiemi, le classificazioni ma in generale gli schemi logici tipici delle scienze sono fondamentali nella Grammatica. E non c’è nessuna opposizione tra poesia e scienza, anzi, esse stanno insieme, unite nell’immaginazione, come dimostrano le figure, care a Rodari, di Galileo Galilei o di Isaac Newton.
Ma torniamo alle storie e al rapporto di Rodari con esse, a cui Roghi dedica il capitolo 5. Quale importanza abbiano le fiabe in tutta la produzione rodariana non può sfuggire neppure ad un lettore inesperto o superficiale. L’indagine di Rodari su questa specifica forma letteraria genera il filo conduttore di molti capitoli della Grammatica della fantasia: i racconti tradizionali infatti possono fornire i mattoncini per costruire storie nuove. Della fiaba, tolta dalla categoria immeritata di letteratura di serie B, viene valorizzata l’originalità e la necessità storica «in quanto, dialetticamente, esito di una tradizione precipitata per caso nel mondo dell’infanzia con tutte le funzioni e le ambiguità e le possibilità della Letteratura».
La riflessione su Rodari allora diventa una riflessione anche sul nostro tempo e sulla nostra relazione con le fiabe. Se la riscrittura può caricarsi di risvolti immaginativi straordinari capaci di liberare la creatività infantile c’è invece da chiedersi se riproporre le fiabe della tradizione come prodotti di largo consumo, come fa per esempio Walt Disney, non sia una banale semplificazione che ne riduce e svilisce il carico simbolico. Rodari sostiene che c’è bisogno di scrivere fiabe attuali usando quelle vecchie, e, per farlo, guarda al proprio tempo, come già aveva fatto Andersen. Ma ciò non vuol dire affatto che le fiabe della tradizione debbano essere giustiziate, epurate dei messaggi ritenuti cattivi. Le favole «buone» – scrive Roghi – riducono l’ampiezza «esplosiva» della fiaba, il suo «indugiare sulle soglie del significato». E, per giunta, per quanto la tentazione della lettura, come del gioco, edificante sia sempre presente, «usare la fiaba per fare la morale è come usare un orologio d’oro per fare buchi nella sabbia. Uno spreco oltreché un’idiozia». Inoltre, nel momento in cui si insiste sui contenuti si guarda ancora una volta al bambino come a «un soggetto passivo sul quale riversare contenuti che assimilerà in modo meccanico».
Il tema della ricezione ritorna nel capitolo In difesa di Goldrake, dove Roghi evidenzia l’originalità dello sguardo di Rodari nei confronti prima dei fumetti americani e poi dei cartoni animati, bersaglio polemico di quanti interpretavano negli anni Cinquanta e poi negli anni Ottanta i nuovi prodotti culturali come causa di violenza e analfabetismo di bambine e bambini fruitori. Chi o cosa è al centro del processo comunicativo? La domanda è interessante perché riguarda anche la fruizione di serie tv, giochi online, Tiktok e così via. Roghi ricorda che l’unidirezionalità del sistema comunicativo è stata ormai superata dagli studi culturali: l’attenzione ora è sul pubblico, la cui ricezione è un’esperienza sempre diversa. Occorre allora ragionare su come avviene l’accesso ai contenuti, procedere cioè ad un’alfabetizzazione all’uso dei media – libro, televisione o smartphone –, così da non restarne schiavi. «Non si può mai essere sicuri di quello che un bambino impara guardando la televisione. E non si deve mai sottovalutare la sua capacità di reagire creativamente al visibile» [7], scrive Rodari. Se il bambino non è mai passivo, allora conviene indagare gli esiti dell’immaginazione nell’inventare e reinventare storie proprio a partire da quelle trasmesse in televisione: si può cioè lavorare con i materiali televisivi, con Goldrake per esempio; giocare a fare Goldrake, come forse un tempo si giocava a fare Ercole, significa non volerlo subire, usarlo per se stessi.
Mentre ci parla di Rodari, Roghi ci mostra sempre quello che si muove attorno a Rodari, gli stimoli che hanno condotto all’approccio educativo contemporaneo o che si sono persi da qualche parte, con tutte le buone intenzioni, e andrebbero invece ripresi e valorizzati. Ci fa incontrare i messaggi di don Milani, di Mario Lodi, ma anche le riflessioni di Gramsci, di Makarenko, di Zolla, di Lorenzoni, di Malaguzzi e di tanti altri.
Mentre ci parla di Rodari e della sua Grammatica, Roghi ci pone di fronte ai problemi dell’educazione di oggi. Ad esempio ci parla della necessità di dare forma a un discorso sulla scuola che parta dai suoi protagonisti, ovvero dai bambini e dalle bambine, dai ragazzi e dalle ragazze: «a me pare questo il discorso dei discorsi, il più importante di tutti». Perché la scuola può cambiare ancora, come è già cambiata nel corso del tempo, anche grazie a riflessioni attente e nuove come quella di Danilo Dolci che per creare una casa dove stare insieme – non una scuola, ma una casa – si confronta proprio con i bambini, con le famiglie.
Roghi si sofferma sulla voce degli adulti, sull’educazione dei genitori, che è anch’essa un procedimento fantastico per Rodari, come si evince dalle tecniche suggerite nel suo capitolo Un viaggio intorno a casa mia, educazione che non può prescindere dal rispetto per i bambini, «per quello che sono e per quello che diventeranno con i loro limiti e slanci», senza mortificazioni, inganni, senza prepotenze, e dalla considerazione dell’infanzia come «spazio autonomo e non il prodromo di qualcosa ancora da venire». Parla dell’importanza per Rodari della trasmissione delle passioni ai figli e ai ragazzi, attraverso l’esperienza, e della necessità di impegnarsi a decifrare il linguaggio dei bambini per decifrare il presente e immaginare il futuro, elementi indispensabili, mi pare, non solo per i genitori ma anche per gli insegnanti, per quanti insomma hanno a che fare con esseri umani in crescita, in formazione.
Roghi riflette anche sul ruolo dei genitori nella scuola, sull’incontro con gli insegnanti che prima non c’era – la sudditanza e l’impotenza delle famiglie di fronte alle scelte scolastiche negli anni Sessanta – e che ora c’è ma è spesso vissuto ancora in maniera distorta e improduttiva – il ricevimento scolastico come un mero elenco di «Come va mio figlio?» «Potrebbe fare meglio»; il disprezzo della scuola per i genitori, ma, aggiungo io, anche quello dei genitori per la scuola –. «Se quest’incontro fallisce, secondo Rodari, la struttura non vive».
E ancora, troviamo in queste pagine considerazioni fondamentali sull’uso dei media, di ogni genere, e siamo invitati a riconsiderare smartphone e social, ma anche gli stessi libri, perché il diavolo non è mai il mezzo ma l’uso che se ne fa e l’insegnamento, anche in questo caso, è necessario a promuovere una ricezione attiva e consapevole.
Roghi ci guida attraverso la complessità dell’officina rodariana e delle questioni sempre attuali che Rodari pone e lo fa con uno stile estremamente comunicativo e coinvolgente a cui contribuiscono le parentesi narrative autobiografiche che favoriscono un processo di immedesimazione e riflessione, ma anche le rubriche che aprono ogni capitolo, anch’esse di tono narrativo, e sempre seguite da illuminanti epigrafi rodariane. La lezione della leggerezza e dell’infanzia l’ha accolta anche lei in questo percorso alle origini della Grammatica che media un messaggio rivoluzionario e ancora non pienamente compreso. Così nell’ultimo capitolo, quando la storia del vecchio gambero di Favole al telefono le suggerisce il riferimento a La chiocciolina e la balena di Julia Donaldson – una letteratura pensata proprio per l’infanzia ora comincia ad essere realtà, verrebbe da dire, pensando a Rodari che si rammaricava della deplorevole assenza nel capitolo Un viaggio intorno a casa mia della Grammatica – per riflettere sul fondamentale ruolo che noi adulti abbiamo nei confronti dei più giovani che hanno appena iniziato il loro viaggio nella vita, si lascia andare a una critica partecipata verso il vecchio gambero:
«dopo di me il diluvio!, sembra ripetere, ai miei tempi…, insiste. Io quel vecchio gambero lo detesto. Più del padre che non capisce, più delle rane comari che lamentano la mancanza di ogni rispetto. Lo detesto perché il mondo si è fermato quando la sua giovinezza è finita e ha perso ogni curiosità verso chi verrà dopo di lui, che poi è il futuro».
Il messaggio che Roghi ci consegna allora, attraverso la lezione di Rodari, è questo: occorre crescere per essere ancora bambini, conservare la meraviglia, perché nell’infanzia non c’è tanto nostalgia, regressione, irresponsabilità ma soprattutto un fondamentale «nucleo salvifico» di immaginazione e creatività nel disporsi verso il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi Ragazzi, Trieste, 2024: 163.
[2] Ivi: 9.
[3] Ivi :11.
[4] Ibidem.
[5] Ivi :119.
[6] Ivi :118-119.
[7] Ivi :19.
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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108. Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.
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