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Alterità e rischio: se il fascismo viene dal Sud del mondo

downloaddi Antonello Ciccozzi 

Colgo l’occasione data dalla recensione del direttore di Dialoghi Mediterranei Antonino Cusumano (2023) al volume che ho da poco pubblicato – Muri e ponti. Migrazioni e polarizzazione (Ciccozzi 2023b) – per fare alcune precisazioni, e per proseguire un discorso che propongo da diversi anni. Prima però non posso esimermi dal ringraziarlo, per più di un motivo. Il primo è che la sua disamina è attenta e dettagliata, il secondo è che da oltre due anni sta ospitando su Dialoghi Mediterranei dei miei contributi che, in gran parte, sono confluiti nel libro in oggetto, il terzo è che, pur entro alcune significative divergenze di vedute (Antonino è più ottimista del sottoscritto rispetto alle possibilità che la diversità culturale si traduca in arricchimento), egli ha accettato di accogliere le mie posizioni critico-problematizzanti; e quindi, appunto, di dialogare con me sul tema dell’alterità, in riferimento alla questione migratoria e ai suoi dintorni.

Quest’ultimo punto è il più importante, soprattutto dal momento in cui oggi in campo scientifico-umanistico si assiste a un singolare paradosso, per cui il valore della diversità viene tanto formalmente esaltato come oggetto di studio quanto sostanzialmente rifiutato se si presenta in riferimento ai metodi interpretativi: così come la diversità culturale viene considerata aprioristicamente un valore, la diversità ermeneutica viene sempre più guardata con sospetto, se non proprio censurata come se fosse un male da debellare. Soprattutto stando nel mondo universitario oggi è molto difficile, se non pericoloso, sottolineare i rischi dell’apertura all’altro, i problemi derivanti dall’accoglienza dei migranti, le minacce del fondamentalismo islamista, senza correre il rischio del blaming, dell’etichettamento, di essere stigmatizzati quali reazionari, come gente “di destra”, e quindi condannati all’oblio come gente sotto sotto in odor di razzismo e fascismo.

Dico questo perché in Muri e ponti c’è anche un tentativo di mettere in discussione certi eccessi dell’assetto disciplinare che si è delineato con l’affermazione del paradigma postcoloniale e il rovesciamento assiologico del valore dell’identità e del complesso di superiorità Occidentale in quello dell’alterità e del senso di colpa coloniale. Pur essendo un discorso che cerco di comporre da una ventina di anni, mi rendo conto che quanto ho confezionato consiste in un impianto argomentativo per molti versi incompleto e traballante, poiché (come lo stesso Cusumano ha notato) perennemente esposto al rischio di precipitare a destra. Tuttavia, sarà perché oggi (purtroppo) la Storia sta bussando più che mai alle porte del presente (e dunque anche a quella delle scienze umane), a volte ho, se non la presunzione, l’impressione che probabilmente un giorno quello che ho scritto sarà più chiaro; almeno rispetto a certi rischi di essere frainteso in merito alla tesi che sostengo, che, in estrema sintesi, consiste nell’evidenziare il seguente paradosso: pur presentandosi come pratica antifascista, l’apertura incondizionata e generalizzata all’altro espone al rischio del suo fascismo [1]. Vale a dire che il rischio dei ponti è che ci passino i costruttori di muri. Se il paradosso della tolleranza ci avverte che non si può essere tolleranti con gl’intolleranti, ha senso sottolineare che il rischio dell’antifascismo è aprire le porte al fascismo altrui.

9788842819530_0_536_0_75Le aporie dell’“accogliamoli tutti”

Venendo alla recensione, Cusumano nota che, in quella che delineo come polarizzazione tra una cultura dell’accoglienza (progressista, immigrazionista) e una cultura della sicurezza (conservatrice, sovranista), mi soffermo più sulle aporie della prima. Questo è esatto, e il motivo di ciò è abbastanza autoevidente: nelle scienze umane l’orizzonte valoriale della cultura della sicurezza viene sottoposto da anni a una critica costante, tanto severa quanto estesa; per cui non c’è bisogno di un altro testo che si unisca al coro gregoriano che sottolinea all’unisono quanto sono brutte le destre, le chiusure, le xenofobie, i razzismi. Le destre, le chiusure, le xenofobie, i razzismi sono brutte; ma, se si smette di ragionare in modo binario, dualistico, manicheo, si può notare che anche l’opposizione polare ad esse – la xenofilia incondizionata – può covare un negativo, dei problemi, dei paradossi che dovrebbero essere fatti emergere e posti a oggetto di discussione, almeno accademica. In merito ho specificato che, se la xenofobia è la paranoia data dalla paura dello straniero (il rifiuto, l’odio, la repulsione generalizzata verso l’altro, il diverso), il suo rovesciamento polare nella xenofilia rischia di risolversi nell’ingenuità della generalizzazione inversa, di postulare che l’altro sia sempre e solo positivo, una risorsa, che la sua diversità non faccia altro che arricchirci. In tal senso, proprio a partire da questa dogmatica, la xenofilia assoluta espone al rischio di rimuovere il problema dell’eventuale xenofobia dell’altro rivolta nei nostri confronti.

Quando affermo che anche la xenofilia dogmatica e generalizzata può essere un problema mi riferisco al fatto che da decenni in ambito scientifico-umanistico si assiste a un’egemonia del paradigma della communitas, a un nuovo orizzonte morale e disciplinare xenofilo che si è affermato come attuale regime di verità, anche e soprattutto come onere espiatorio per i peccati coloniali dell’Occidente. Questo Zeitgeist postcoloniale xenofilo si fonda essenzialmente sul valore dell’apertura all’altro. Nel testo sostengo che questo valore sia positivo ma che ad essere perniciosa sia la sua assolutizzazione, soprattutto quando essa viene tradotta in termini di pratica politica, e trasformata in senso comune progressista a partire da un processo di discesa culturale che va avanti da oltre mezzo secolo. Proprio in tal senso mi sono concentrato criticamente sulle poetiche dell’“accogliamoli tutti”, a partire da come tale visione è stata delineata dal senatore progressista Luigi Manconi in un pamphlet che ha come titolo proprio questo slogan-proposito (Manconi, Brinis 2013).

Questo perché se l’“accogliamoli tutti” –  l’apertura incondizionata, assoluta, all’alterità migrante del Sud del mondo – si presenta come conditio sine qua non e quintessenza dell’antifascismo contemporaneo, esso espone a un rischio paradossale, quello di favorire il fascismo esterno; un neofascismo esotico che può essere rintracciato nell’atteggiamento negativo di una parte dei migranti, ispirati in una postura di estraneità ostile contro l’Occidente, impregnati di un background culturale che presenta una commistione intersezionale di risentimento postcoloniale, razzismo antibianco e aggressività jihadista. Si tratta semplicemente di notare che la xenofobia non è solo una tara dell’Occidente (o meglio della sua parte di destra, dell’Occidente conservatore) ma, in quanto attitudine universale umana, può essere rintracciata anche in alcune forme di risentimento culturale che anima alcuni migranti. Si tratta di ammettere che – se vale il principio dell’unità psichica dell’uomo – anche i migranti, proprio in quanto umani come noi, possono talvolta odiare l’altro da loro, ossia gli occidentali. Anche tra i migranti ci sono i fascisti, e il loro fascismo è rivolto verso i loro stranieri, quindi verso di noi; e se accogliamo tutti i migranti accoglieremo anche i migranti fascisti.

L’eventualità dell’estraneità ostile di alcuni migranti, la loro xenofobia nei nostri confronti, viene invece non percepita dalla cultura dell’accoglienza; questo per un misto di senso di colpa coloniale, di ingenuità, di rimozione data dal prevalere di uno sguardo parziale, di contrapposizione ideologica. Ciò avviene dal momento in cui l’opposizione all’altro interno (la cultura della sicurezza, le destre) prevale rispetto alla presa di consapevolezza dell’eventualità che le migrazioni non siano solo un momento palingenetico di rigenerazione dell’Occidente attraverso l’arricchimento dato dalla diversità dell’altro, ma che questa diversità possa essere anche foriera di rischi, di impoverimenti. Se la percezione xenofoba dell’alterità consiste essenzialmente in stereotipi negativi che generalizzano qualsiasi migrante come cattivo-clandestino quale problema-carnefice, quella xenofila si risolve in un rovesciamento di tale preconcetto, per giungere alla generalizzazione data dallo stereotipo positivo del buon-migrante quale risorsa e vittima.

In tutti i modi, direi che l’osservazione più critica mossami da Cusumano è la seguente: «viene evocata una presunta “dittatura dell’accoglienza” mentre di fatto in realtà trionfa una politica non solo nazionale di chiusure e respingimenti, di patti internazionali per difendere la Fortezza Europa, di drammatiche deportazioni in Paesi terzi». Nel libro parlo proprio della contrapposizione tra la percezione sovranista data dal vedere la questione migratoria come se vi fosse un dominio incontrastato di una dittatura dell’accoglienza (dei ponti) e quella immigrazionista (che per Cusumano è la realtà) data dal vedere solo un trionfo dei respingimenti (dei muri). Se per le destre l’Occidente è sopraffatto da una dittatura dell’accoglienza le sinistre negano totalmente questa visione, e, all’opposto, postulano il dominio di una dittatura della sicurezza dedita alla pratica genocidaria del «migranticidio». L’ipotesi che sostengo è che l’Occidente contemporaneo stia vivendo una schizofrenia politica in cui l’oscillare irrazionalmente tra questi due poli finisce per produrre, per eterogenesi dei fini, un equilibrio forzato e traballante. Ho cercato di rappresentare analiticamente questo processo in vari modi, riferendomi soprattutto al modello teorico della schismogenesi (Bateson 1977), e ho cercato di semplificarlo e renderlo più intellegibile anche attraverso una metafora, suggerendo che 

«una volta che la Storia ci ha gettati di fronte all’altro, ci comportiamo alla stregua di una casa di matti: la moglie alla porta invita tutti indistintamente, ospiti e ladri; e non si capisce se lo faccia più per bontà sua o per far torto all’odiato marito, il quale da parte sua sta affacciato alla finestra e punta a tutti il fucile per cacciare indistintamente ospiti e ladri, un po’ per avversione verso chi viene da fuori e un po’ per ricambiare il sentimento della consorte. Così finisce che chi vuole accogliere di più, per evitare che l’anelito verso il “di più” nella chimera dell’accogliere tutti diventi un “troppi” insostenibile, si appoggia implicitamente a chi vuole respingere di più. Così come, in senso opposto e complementare chi vuole accogliere di meno, per evitare che l’anelito verso il “di meno” nella chimera del respingere tutti diventi un “troppo pochi” altrettanto insostenibile, si ap- poggia implicitamente a chi vuole accogliere di più. In questo modo si produce un equilibrio coatto per eterogenesi di finalità mutuamente autoescludenti. Allora in questa tensione tra opposti si finisce per trovare una mediazione tra apertura e chiusura obtorto collo, come esito derivato di un gioco tra alterità esterna e alterità interna. Tale bilanciamento coatto produce una conciliazione precaria, intermittente ma durevole, che va a lenire la tensione schismogenetica di fondo, tanto quanto basta per evitare che esploda in una rottura insanabile, definitiva» (Ciccozzi 2023b: 173-174). 

Forse la Storia, all’opposto di quanto immagino, rivelerà che ho vari bias, ma per ora, almeno per come percepisco il fenomeno, ritengo che in realtà queste due istanze siano compresenti seppure in misure diverse e in una certa alternanza; e, soprattutto, mi pare che l’“accogliamoli tutti” configuri in sostanza un anelito a una dittatura dell’accoglienza, dal momento in cui si impone come imperativo categorico e rappresenta qualsiasi opzione di chiusura all’alterità migrante come atto nazista.

stranieri_residenti-small500In tal senso il fulcro teoretico del testo che ho scritto riguarda una critica all’impianto argomentativo di Donatella Di Cesare, che avevo già anticipato su Dialoghi Mediterranei (Ciccozzi 2021b), e che a questo punto mi pare il caso richiamare. Già dal momento in cui la filosofa identifica la xenofobia e il razzismo dell’epoca postnazista con la pretesa di ritenere «legittimo decidere con chi coabitare» (Di Cesare 2017: 13), l’antirazzismo viene sostanzialmente vincolato all’obbligo universale dell’accoglienza incondizionata. Questo vale a dire che ad essere classificato come nazismo non è più il rifiuto generalizzato dell’altro ma anche qualsiasi rifiuto particolare dell’altro: per non essere razzisti, xenofobi, nazisti non si deve chiudere la porta a nessuno. Tanto più che il “migrante filosofico” delineato in questo discorso è un migrante idealizzato, postulato come diversità che arricchisce e basta, poiché «lo straniero è la chance che riapre la comunità» (ivi: 243), immaginato sempre e solo in positivo, come una sorta di trickster anarchico redentore (ivi: 12) che ci libererà dalle catene della sovranità detenuta dallo Stato. Di contro il negativo, l’avversione all’altro è una tara ascrivibile unicamente agli autoctoni residenti, poiché «l’ostilità ha stretto in una morsa l’Europa» (ivi: 109). Pertanto, l’associazione tra migrazioni e terrorismo sarebbe indice unicamente di «fobocrazia» (ivi: 113), di populismo subdolo e infondato, atto solo a coltivare paura, a fomentare odio. Questo configurare un aut-aut per cui o l’apertura all’altro è incondizionata o si è razzisti, esprime nettamente l’essenza dualistico-manichea della xenofilia radicale: l’alterazione di qualsiasi giudizio negativo particolare (sull’eventualità che l’alterità si possa manifestare anche come estraneità ostile) nella forma di un giudizio negativo universale (sicché il notare che nelle migrazioni vi può essere anche qualche aspetto negativo viene stigmatizzato travisandolo nei termini di una discriminazione inaccettabile, generalizzata contro tutti i migranti). Data la delicatezza della questione mi pare il caso di riportare alla lettera quanto ho scritto in merito a questo stigmatizzare qualsiasi chiusura all’altro etichettandola come nazismo: 

«in nome della lotta al nazismo nostrano (il noi che rifiuta l’altro e che quindi si manifesta come altro interno da eliminare per il bene dell’umanità), l’accoglienza incondizionata espone al rischio del nazismo esotico (l’altro che rifiuta noi, il suo altro da sé). In questa demonizzazione (nazistizzazione) di qualsiasi istanza di chiusura all’altro e in questa santificazione del migrante (nella rimozione dell’eventualità che l’altro possa essere ostile) a mio avviso sta il limite, l’eccesso di una concettualizzazione che viceversa è in vari punti condivisibile. Tale eccesso opacizza che il nazismo, il fascismo, l’autoritarismo dell’altro si manifestano sotto forma di sentimenti e progetti diffusi in modo sfocato in vari luoghi del mondo. Un nazismo esotico dato da rizomi di odio antioccidentale e razzismo antibianco, pulsioni di dominio emergenti in una stagione in cui il vecchio e cadente imperialismo occidentale pare non accorgersi di essere circondato da imperialismi nascenti. Sarebbe paranoico temere che questi sentimenti e progetti riguardino genericamente tutti i migranti, ma sarebbe altrettanto ingenuo non accorgersi che di essi alcuni migranti sono sostenitori più o meno passivi o addirittura portatori attivi (il tutto anche attraverso pratiche eliminazionistiche di tipo terroristico apertamente dichiarate come tali, che troppo spesso da una prospettiva progressista ci ostiniamo a non inquadrare come espressioni particolari di un progetto implicito generale che non dovrebbe essere sopravvalutato ma nemmeno rimosso). In tal senso affermare che qualsiasi rifiuto dell’altro è un atto fascista, obbligando moralmente in questo modo all’apertura incondizionata, espone al rischio del fascismo dell’altro. E qui va chiarito che criticare il massimalismo di quest’apparato concettuale non vuol dire necessariamente rilegittimare il rifiuto generalizzato dell’altro, quello di matrice fascista. Uscendo dalla trappola manichea del ridurre la divergenza rispetto a un massimalismo al massimalismo ad esso opposto, si capisce che la critica può essere orientata a limitare quel dovere di accoglienza generalizzato, prevedendo la possibilità circostanziata di rifiutare l’altro particolare che ci rifiuta, ammettendo il diritto di poter sbarrare l’ingresso all’estraneità ostile. Chi rifiuta di accogliere tutti non sta dicendo necessariamente di non accogliere nessuno, può voler dire di non voler accogliere qualcuno. Esplicitando più in dettaglio la questione in termini di logica aristotelica, appare chiaro che, per evitare il rischio paradossale di nazismi di ritorno, l’opposizione al nazismo non dovrebbe riguardare solo la qualità del giudizio (passando da un giudizio negativo a uno positivo) ma anche la quantità del giudizio (passando da un giudizio universale a uno particolare). La proposizione universale negativa di matrice nazista (“nessuno deve essere accettato”) dovrebbe essere sostituita non da una universale positiva (“tutti devono essere accettati”) ma da una particolare positiva (“qualcuno deve essere accettato”). Questo in quanto il miglior modo per opporsi all’universale negativa dei nazisti non credo che derivi dall’adottare il giudizio contrario al loro giudizio universale negativo (l’universale positiva dell’accettare tutti, tipica dell’immigrazionismo); ma venga dall’adottare il giudizio contraddittorio, ossia la particolare positiva dell’accettare qualcuno, rifiutando di conseguenza qualcun altro. Si tratta semplicemente di comprendere che non sempre il contrario del male assoluto è il bene assoluto» (Ciccozzi 2023: 119-121). 

0164ffd8326deb1052-hardcover-750x1187-52-5In ultima istanza una simile concezione postula una “dittatura dell’accoglienza” come conditio sine qua non per l’antirazzismo: se il nazismo è, in sostanza, una dittatura della residenza (contro l’alterità), un antinazismo che si limita al ribaltamento polare di questo principio si espone alla dittatura dell’accoglienza (contro l’identità). Questo antinazismo che rovescia la pretesa nazista di rifiuto assoluto dell’alterità nei termini di un’apertura incondizionata all’altro non fa altro che mantenere un’assiologia manichea invertendone i poli; così dall’antinazismo si giunge a un nazismo inverso che implica il paradosso di esporre al rischio del nazismo dell’altro. Va notato in merito che se si definisce il razzismo come la pretesa di decidere con chi coabitare, e l’antirazzismo come rinuncia a questa pretesa, allora si espropria il residente di questa pretesa consegnandola al migrante: se nell’ottica sovranista a disporre del luogo è il residente nella sua stanzialità, in quella immigrazionista il luogo è alla mercè dell’erranza del migrante. E, appunto, questo non è antinazismo ma nazismo inverso, dato dal cambiare segno a una relazione che rimane unidirezionale, non negoziata. Agli estremi di questa polarizzazione, se per i sovranisti il migrante non può decidere la coabitazione, per gl’immigrazionisti il residente non può decidere la coabitazione.

A questo punto è chiaro che l’unico antinazismo realmente possibile al di fuori di queste implicazioni paradossali è quello che si basa sul riconoscimento reciproco, sulla mediazione tra apertura e chiusura, in funzione della capacità di accogliere con l’offerta di lavoro dignitoso in cambio di lealtà culturale. L’“accogliamoli tutti” non solo non è “di sinistra” in quanto, pur presentandosi come attitudine antifascista, espone al rischio del fascismo esotico: le migrazioni senza politiche del lavoro dignitoso sono di destra, sono neoliberismo. In merito nel volume ho voluto sottolineare che 

«L’impressione è che spesso più che nuovi cittadini servano nuovi poveri, disposti ad accettare a ribasso condizioni di lavoro che i vecchi poveri (che iniziano a scarseggiare demograficamente) ora rifiutano per aver incorporato principi democratici che li rendono in qualche modo difettosi rispetto alle esigenze economiche neoliberiste. Riprendendo una terminologia di base del marxismo classico, si può dire che la presenza di un esercito (post)industriale di riserva di disperati, abbassando il costo del lavoro, provvede alla ricostituzione di condizioni di accumulazione primitiva di capitale, controbilanciando così i fattori di caduta tendenziale del saggio di profitto».

Oggi la dittatura dell’accoglienza si manifesta anche come illusione che l’accoglienza sia non solo necessaria ma sufficiente. Invece siamo di fronte al moltiplicarsi di episodi che ci segnalano che l’accoglienza senza integrazione lavorativa e inclusione culturale porta marginalità sociale e contribuisce a produrre estraneità ostile. È proprio in tal senso ho affermato che le migrazioni dovrebbero essere gestite in un’ottica di sostenibilità quantitativa (lavorativa) e qualitativa (culturale) degli approdi. Non dovremmo accogliere chi non riusciamo a far lavorare dignitosamente, e non dovremmo essere indulgenti o ingenui nei confronti di chi è animato da sentimenti di odio antioccidentale. Come pure dobbiamo considerare l’interazione tra questi aspetti: chi sbarca e non riesce a trovare un lavoro dignitoso sarà più portato a reagire a questa marginalizzazione con un risentimento antioccidentale. In un’ottica di riconoscimento reciproco bisogna poter dare lavoro e poter chiedere lealtà.

Per questo non si può sorvolare sulla necessità di politiche migratorie incentrate sul lavoro, non ci si può illudere di fermarsi alla mera accoglienza intesa come vitto e alloggio liminoide al momento dell’approdo, esperita come una sorta di “erasmus dei poveri” in casa-famiglia, che serve a poco oltre che ad alimentare l’industria della solidarietà e l’economia degli aiuti umanitari che ruota intorno all’accoglienza. Tutto ciò puntualmente scade in una sotterranea sindrome NIMBY (“not in my back yard”) data dalla malcelata realtà di un “accogliamoli altrove” che si traduce o nell’impedire la circolazione intra-europea dei migranti (con i famigerati “accordi di Dublino”) o, all’opposto, nell’attesa che, una volta finito il welfare dell’accoglienza, i migranti vadano via verso il Nord Europa (sfidando proprio gli accordi di Dublino). Viceversa, troppo spesso chi resterà imboccherà, in mancanza d’altro, la strada di marginalizzazione che porta al bivio della scelta tra lavori servili e attività criminali. In questo modo l’accoglienza senza integrazione e inclusione, senza riconoscimento reciproco tra residenti e migranti, diventa un luogo di contagio dell’estraneità ostile, portando al rischio della moltiplicazione delle no go zones permeate dalla sharia, a una banlieueizzazione dell’Europa, a una terzomondizzazione dell’Occidente.

Se le destre sono portate a esagerare allarmisticamente e in senso xenofobico questi rischi generalizzandoli a tutti i migranti e elevandoli a unica realtà sociale prodotta dalle attuali migrazioni, le sinistre reagiscono a tali paranoie proiettando tutto il male sul fascismo nostrano per rimuovere il trauma del fascismo esotico, dato dall’eventualità che la postura del migrante sia improntata a un’estraneità ostile. E lo fanno con il rassicurazionismo xenofilo accomodante degli slogan sulla diversità che arricchisce e basta. Il punto è che chi mette in dubbio il dogma “la diversità è ricchezza” finisce bollato come xenofobo. Se le destre hanno torto a generalizzare in negativo la questione migratoria, la risposta è data da controstereotipi positivi? Fino a che punto potremo seguitare a vivere nel mondo noumenico, rappresentazionale costruito da certe statistiche – finalisticamente orientate e presentate come se fossero “la realtà” – dove i migranti non fanno altro che pagarci le pensioni? dove non esiste nessun nesso tra criminalità e devianza? dove il considerare le migrazioni anche foriere di problemi, notare che a volte i migranti si pongono in termini di estraneità ostile, è solo frutto di “percezioni errate” e pregiudizi razzisti? A me pare che la realtà indichi che le migrazioni si stanno traducendo sempre più spesso in un degrado della qualità della vita nei luoghi d’approdo. Se la pretesa di signoria assoluta nel luogo in cui si risiede è nazismo, l’antinazismo che espropria totalmente i residenti di questa pretesa per consegnarla ai migranti degenera nel paradosso di un nazismo inverso (ed è anche in tal senso che affermo che, se il problema che impedisce all’umanità un abbraccio ecumenico è il fascismo, allora bisogna fare anche attenzione al fascismo altrui). Il punto è che 

«i luoghi per mantenersi bene hanno bisogno di essere amati dalle persone che li abitano. Come pure, allo stesso modo, le persone, per vivere bene, hanno bisogno di essere ben volute nei luoghi dove abitano. Un simile rapporto è particolarmente delicato nel caso dei migranti, le persone che nei luoghi sono gli ultimi arrivati; e se nella prima circostanza siamo di fronte alla richiesta assimilazionista di lealtà dei migranti ai luoghi, la seconda si configura come richiesta multiculturalista di apertura dei luoghi ai migranti. Da un lato si tratta del doversi adattare dei migranti ai luoghi d’approdo, dall’altro di dover adattare i luoghi all’approdo dei migranti. Si delinea così una dimensione contrattuale caratterizzata da una dialettica tra accoglienza (delle persone) e appartenenza (ai luoghi); una dialettica che rimanda a una reciprocità come scambio tra lealtà (come rispetto donato al luogo dove si vive, in segno di riconoscimento del suo valore culturale) e possibilità (come dono alla persona che approda nel luogo per abitarlo, in segno di riconoscimento del suo valore umano). Se l’assimilazionismo punta prima di tutto a tutelare i luoghi di approdo dalle diversità contrastive dei migranti, il multiculturalismo punta prima di tutto a tutelare le diversità dei migranti rispetto alle specificità degli orizzonti culturali dei luoghi di approdo» (Ciccozzi 2023b: 141-142). 

Oggi i propositi di convivenza, integrazione, inclusione, mescolamento sono sempre più minacciati da un multiculturalismo alla rovescia che, nella realtà dei fatti, si traduce in chiusure e disconoscimenti reciproci. Quello che sostengo è che si tratterà di prenderne atto, non per configurare irrealistiche, immorali e impossibili chiusure, ma per ridefinire una grammatica dell’apertura che rinunci all’assolutezza per comprendere il valore del limite, solidamente e concretamente basata su criteri di sostenibilità dell’accoglienza e improntata a un’etica del riconoscimento reciproco.

cover__id12579_w600_t1662964505-jpgLa doppiezza e la dialettica tra il muro e il ponte come tensione costitutiva dell’Occidente 

In merito alla tensione tra xenofobia e xenofilia che caratterizza la weltanschauung occidentale, è il caso di tornare sulla questione per provare a riassumere il discorso che ho cercato di fare sui momenti topici del percorso storico che ha portato al mutamento paradigmatico da una modernità egemonizzata dal valore del muro (ossia dell’identità, della chiusura, del complesso di superiorità coloniale occidentale) a una postmodernità egemonizzata dal valore del ponte (ossia dell’alterità, dell’apertura, del senso di colpa postcoloniale). Questo spostamento assiologico rimanda a una tensione iniziata cinquecento anni fa, all’alba della modernità, con la scoperta dell’altro implicata dalla conquista dell’America, e l’emergere della spaccatura tra chi riteneva l’altro etnocentricamente inferiore, peggiore di noi e chi lo riteneva umano come noi o superiore a noi in quanto non macchiato dal nostro peccato di superbia. Uno dei punti di rottura più drammatici di questa tensione si è avuto quando l’Occidente ha preso coscienza degli orrori del nazismo e, subito dopo, dei soprusi coloniali. Se l’etica dell’apertura si è affermata come reazione a quel senso di colpa quale cifra della cultura progressista ed è diventata egemonica nello Zeitgeist postcoloniale, permane un’inerzia conservatrice verso la chiusura, e questa doppiezza configura una situazione di schismogenesi, di polarizzazione della cultura antropologica in cui queste due istanze contraddittorie sono compresenti a partire da un paradosso morale, un doppio vincolo tra un’etica egualitarista e un’economia che ha bisogno di una strutturazione gerarchica della diversità. Questo in quanto, da sempre e oggi più che mai, quella promessa di eguaglianza (ossia di disponibilità di risorse che consentano il livello di benessere su cui quell’ideale di eguaglianza è implicitamente definito) non è sostenibile per un’umanità di otto miliardi di persone in continua crescita.

Tale doppiezza non è da intendere come una configurazione culturale inevitabilmente nefasta: in essa si manifesta un compromesso per molti versi necessario per quanto contraddittorio che controbilancia riflessivamente istanze che si pensano come mutuamente esclusive, escludenti e autosufficienti ma che non sarebbero sostenibili se si affermassero universalmente o l’una o l’altra, annullando la controparte. Queste istanze sono, appunto, l’anelito all’apertura assoluta e l’anelito alla chiusura assoluta. Esse sono superficialmente contrapposte ma nel divenire storico lavorano, per così dire, come i pedali di una bicicletta: configurano quello che in fisica si chiama “momento di forze”, dove vettori formalmente opposti concorrono sostanzialmente a produrre, nella loro alternanza, un moto unitario verso una direzione (in questo caso quella della storicità della società Occidentale). Nella rappresentazione metaforica dell’Occidente che ho prima ripreso, immaginandolo come una “casa di matti”, intendevo proprio questo.

Questa tensione è un elemento costitutivo della storicità Occidentale, e si esprime in una doppiezza, una ineludibile compresenza tra chiusura e apertura, tra immunitas e communitas, tra sfruttamento ed emancipazione, tra dominio e liberazione, tra promessa di emancipazione egualitarista e garanzia di mantenimento di privilegi acquisiti, tra etnocentrismo ed esotismo, tra xenofobia e xenofilia, tra confini e attraversamenti, tra identità e alterità. Tutto questo confluisce in una schismogenesi della cultura antropologica in direzione politica che si manifesta nella polarizzazione tra destra e sinistra, che spesso immaginiamo nella figura del muro contrapposta a quella del ponte. Se il movimento della Storia, forse sostenuto da un anelito umano che cerca di farsi profezia autoadempiente, cerca di andare verso un ecumenismo che è aumento dell’apertura all’altro, abbattimento dei muri e costruzione dei ponti, communitas, verso la fine delle opposizioni tra “noi” e “loro”, questo processo va compreso nella sua fragile costituzione dialettica. In tal senso, richiamando un monito inascoltato di Alberto Mario Cirese sui rischi di abrogare in toto la civiltà occidentale come atto di contrappasso espiatorio per i peccati coloniali, ho sottolineato che 

«sarebbe bello giungere a un futuro in cui certe opposizioni saranno fenomenicamente decostruite, dissolte; ma vivere nel noumenico postulato di questa liquefazione propiziata come se fosse già avvenuta è una forma di incoscienza che serve solo ad opacizzare con poetiche decostruzioniste delle categorie che, fuori da certe idealizzazioni, restano esperite come delle essenze. Un conto è cantare “Imagine” di John Lennon, altro è immaginare già di viverci dentro, prima del tempo (senza contare che, peraltro, l’artista profetizzava un mondo senza religioni tra le pre-condizioni per il suo sogno di pace cosmopolita): bisogna “abbattere i confini”, certo; ma per farlo andrebbero prima create le condizioni culturali ed economiche adatte a tal fine, andrebbero prima diluiti i dislivelli di cultura che i confini spesso non solo sostengono ma seguono. Questo per evitare il rischio di ammazzarci a sassate con le macerie dei muri appena abbattuti. Bisogna abbattere muri e confini, e capire che per farlo bene ci vuole tempo» (ivi: 194).

Questo per dire che se la civiltà è ecumenismo antietnocentrico, ampliamento del riconoscimento dell’umanità dal proprio gruppo tribale al globo intero, il cammino da seguire è quello verso l’apertura, verso il riconoscimento dell’umanità dell’altro. Tuttavia, illudersi di essere già arrivati alla meta stigmatizzando come razzismo e nazismo tutte le ragioni della chiusura all’altro, espone al rischio di aperture ingenue; ovvero al rischio di subire la chiusura altrui, il disconoscimento della nostra umanità da parte dell’altro, l’eventualità che il prossimo ci si ponga di fronte con sentimenti di estraneità ostile. Mi pare che oggi, tra una popolazione umana che cresce affamata di risorse e eguaglianza ben oltre la sostenibilità che l’uso tecnologico del pianeta può garantire, le condizioni per pervenire a questo abbraccio ecumenico siano minacciate da vari contagi di odio, che spesso si presentano vestiti nei panni di istanze di liberazione dal dominio; ma che, sia in forma istituzionale sia come emergente pulviscolo rizomatico, altrettanto spesso sottendono volontà di imposizione di domini inversi. 

islamismislam2-e1394128889726Islam e islamismo

Cusumano nota inoltre la mia insistenza sulla questione della differenza tra Islam e islamismo, e su questo mi pare di capire che siamo più in linea. Tale distinzione è uno dei temi che ho precedentemente discusso proprio su Dialoghi Mediterranei, soprattutto a partire dal riferimento all’impianto argomentativo di Bassam Tibi (2012). Il punto è che evitare di confondere queste due realtà rimanda a una duplice necessità rispetto alla questione della percezione della jihad globale.  Da un lato bisogna superare la postura progressista rassicurazionistica che rimuove questo rischio in nome di un’islamofilia irenistica che generalizza in positivo tutto ciò che riguarda l’Islam (come corollario del dogma della diversità che arricchisce, e basta). Dall’altro va evitato l’allarmismo conservatore che generalizza in negativo questo rischio, ascrivendolo all’Islam tout court, per arrivare all’implicazione islamofobica dell’incompatibilità radicale tra Islam e Occidente (che poi sottende lo stereotipo essenzialmente razzista che vede in ogni musulmano un potenziale terrorista). L’islamismo è un problema che riguarda anche una tensione schismogenetica interna ai Paesi musulmani, basta vedere quanto è divisiva la questione dell’obbligo del velo a partire dal caso iraniano dell’uccisione di Mahsa Amini per capire che, per quanto sofferente in una lotta impari, in molti di quei luoghi c’è un diffuso dissenso rispetto alla sharia (Ciccozzi 2023a). In tal senso nel testo che ho pubblicato mi è parso il caso di sottolineare che spesso l’abuso del termine ‘islamofobia’ per accusare a tappeto di razzismo qualunque approccio critico alla sfera dell’Islam finisce con l’imporre un clima di omertà culturale di cui beneficia proprio il fondamentalismo islamista (che si immunizza in tal modo dalla possibilità di porgli delle critiche). 

Poi, per la comprensione di queste dinamiche, seguito a ritenere centrale la distinzione tra le religioni e i loro usi sociali; o meglio tra le religioni intese rispetto al nucleo dei testi sacri e le orbite politiche tracciate dagli usi sociali delle religioni (date dalle interpretazioni di quei nuclei dottrinali). È inutile e dannoso incentrare la discussione sulle religioni a partire da una prospettiva focalizzata solo sui testi sacri: da un punto di vista antropologico culturale ciò che conta non è tanto quanto è scritto nei testi sacri ma è quello che le persone, i gruppi, le società fanno in nome della religione. L’agency riguarda un background culturale elaborato sì a partire dai testi sacri, ma in cui è il processo interpretativo e selettivo della culturalizzazione del sacro a determinare la direzione dell’azione sociale, molto più della “materia prima dottrinaria”. Sottolineo questo perché purtroppo spesso il dibattito pubblico sui problemi dell’integrazione si sofferma su inutili e dannosi tentativi esegetici rivolti proprio ai testi sacri.

Se riuscissimo a emancipare il dibattito pubblico da rappresentazioni dualistiche, superficiali e fuorvianti del tipo “è tutta colpa dell’Islam” vs “l’Islam non c’entra niente” capiremmo che è negli usi sociali della religione che si gioca una tensione che riguarda le stesse comunità musulmane, in Occidente come nei Paesi della sfera islamica. La stessa vicenda di Saman Abbas – la giovane italo-pakistana vittima di un delitto d’onore maturato in ambito domestico in seguito all’accusa di non essere una buona musulmana – testimonia che la frattura tra laicità, diritti civili e fondamentalismo, sharia, tribalismo avviene su molti piani, fino ad attraversare l’interno delle stesse famiglie musulmane, perennemente in bilico tra mondi apparentemente inconciliabili (Ciccozzi 2021a).

Se nel mondo musulmano la religione gode di una salute nettamente migliore di quanto avviene nell’Occidente, va ricordato che in generale le religioni servono a orientare la prassi, a distinguere, a separare ciò che è consentito da ciò che non lo è, e in questo funzionano un po’ come dei coltelli da cucina; poi sono le persone che i coltelli a volte li usano non per tagliare il pane ma per ammazzare il prossimo (perché gli ruba il pane, o per rubarglielo inventando pretestuosamente quest’accusa). Ricorro a questo espediente retorico per dire che le religioni possono essere usate come pretesto per la violenza non tanto per i loro contenuti dottrinari quanto in funzione del fatto che manca il pane (o che aumentano le bocche da sfamare), ovvero come strumenti di affermazione politica (e in questo funzionano bene nella loro capacità di legittimare la violenza sacralizzandola). Come pure va sempre ricordato che, come animali culturali, siamo capaci di ammazzarci anche senza religioni, come il Novecento ha ampiamente dimostrato (dove varie letture sottolineano che il nazionalismo nazi-fascista e l’internazionalismo comunista diventarono sostanzialmente delle religioni laiche, sicché quando sacralizziamo qualsiasi entità ci disponiamo a imbellettare l’assassinio del prossimo per il nostro tornaconto in termini di sacrificio per la gloria di Dio, o di qualsiasi ideale posto al di sopra della Storia). Quando Olivier Roy (2005) sostiene che, più che a una radicalizzazione dell’Islam, siamo di fronte a un’islamizzazione del radicalismo, mi pare che in fondo intenda una cosa simile. E in un mondo in cui le moltitudini musulmane diseredate dalla Storia crescono demograficamente delineando un nuovo sottoproletariato globale, la radicalizzazione della religione può derivare più da una domanda di risentimento sociale che da predisposizioni dottrinarie (che, inoltre, vengono immaginate forzosamente in un determinismo poco plausibile). In tal senso si potrebbe dire che il Medio Oriente non è in rivolta contro l’Occidente perché c’è l’Islam, ma l’Islam si veste da islamismo perché il Medio Oriente è in rivolta contro l’Occidente (per come la vedo è abbastanza plausibile però che si tratti di un rapporto non così unidirezionale ma, in una certa misura, riflessivo, in cui le componenti religiose e quelle politiche si alimentano a vicenda).

618iy2zvbal-_ac_uf10001000_ql80_Quello che è piuttosto chiaro è che in futuro l’Europa molto plausibilmente dovrà affrontare l’estendersi di nuove fratture culturali; e qui se essa non accetterà di distinguere tra Islam e islamismo, diventando uno dei luoghi in cui si manifesta una tensione tra musulmani moderati e fondamentalisti, si troverà in una trincea di contrapposizione tra civiltà, diventando il luogo di una conflittualità campale tra occidentali e musulmani. Vale a dire che se confondiamo tutti i musulmani con gli islamisti finiremo con il costruirci il nemico che temevamo.

Il punto è che nella questione del fondamentalismo islamista, della jihad globale, si manifesta una delle forme più funeste di fascismo esotico, di estraneità ostile. È in questi casi che la questione migratoria si presenta nitidamente come rischio implicato dal contatto con l’alterità. È lo fa presentandosi nel dramma indirettamente suggerito da Tododov (1984: 303) dato dalla tensione tra «la tentazione di scomparire per meglio servire l’altro» e quella di «assoggettare gli altri a se stessi».  Siamo di fronte al doppio vincolo che emerge dal versante negativo, più oscuro e tremendo del contatto, per restare intrappolato nel dilemma che si delinea tra l’uccidere l’altro o essere uccisi dall’altro. Se da questo dilemma si può uscire solo o con la reciproca evitazione rituale o con il riconoscimento reciproco dell’umanità dell’altro, il problema è che, appunto non vi può essere riconoscimento unilaterale (il riconoscimento unilaterale dell’umanità dell’altro finisce con la sottomissione all’altro che non ricambia tale riconoscimento).

Qui non si può seguitare a guardare la questione solo da un lato per fingere che il muro da abbattere sia solo nel disprezzo dell’altro insito nelle destre xenofobe occidentali: dall’altra parte di quel muro il mondo è variamente punteggiato anche del disprezzo verso il “noi” occidentali che proviene dalla xenofobia dell’altro, da quella parte dell’alterità che divide il mondo tra credenti e infedeli; o che, mossa da un risentimento di matrice postcoloniale, immagina l’Occidente solo come un’entità malvagia e sfruttamentista, rimuove tutto il portato storico di emancipazione dovuto all’Occidente, per avere un pretesto di odio, di vendetta, di predazione. Questo è evidente in un presente dove il jihadismo globale usa sempre di più il risentimento postcoloniale per presentare il suo imperialismo aggressivo finalizzato alla sottomissione dell’Occidente in nome della religione nella forma difensiva della liberazione dall’oppressore coloniale. Non a caso attualmente la polarizzazione tra complesso di superiorità coloniale e senso di colpa postcoloniale, si manifesta in uno scontro tra la tentazione alla conservazione delle pretese di un Occidente conservatore – che seguita ad essere impregnato di un malcelato razzismo sempre più putrefatto di fronte alla Storia – e quelle di un esotismo espiatorio che rovescia il segno di quella disastrata pretesa gerarchica in una tirannia della penitenza (in cui la poetica postcoloniale della liberazione dall’oppressore finisce con il fare da cavallo di Troia per il jihadismo globale montante).

Qui è il caso di sottolineare che nel testo preciso che se l’Occidente ha il diritto di difendersi dal fascismo esotico rappresentato dal fondamentalismo islamista, questo diritto non riguarda una presunta essenza etnico-culturale, o, men che mai, varie bianchezze da preservare: esso rimanda a un nucleo di valori che possono essere intesi in continuità con i principi dell’umanesimo, e a una concezione giuridico-culturale della persona che si basa sul diritto positivo e non su una concezione teologica e teocratica della vita. Poi, certo, come difendersi dal jihadismo? Con la rimozione? Con quel multiculturalismo taumaturgico, miracolistico, impregnato di un paternalismo trasognante (e tacitamente in odor di proto-evoluzionismo e di razzismo culturalista) che ipotizza che una volta assaggiato il balsamo progressista della civiltà, gli islamisti saranno sedotti dalla laicità e abbandoneranno le loro intenzioni di sottomissione? Con l’equiparazione di tutti i musulmani a terroristi sanguinari? Quello che sostengo è che non confondere tutti i musulmani con gli islamisti è proprio un modo per difendersi dall’islamismo, nella speranza che i musulmani moderati (o meglio quelli che noi chiamiamo “moderati” per intendere che rifiutano la sharia), seguitino a preferire di mettersi dalla parte del diritto positivo e non siano tentati a islamizzarsi come mezzo di rivendicazione politica. Perciò, se è illusorio pensare di ammansire gl’islamisti invitandoli qualche volta al teatro o a fare l’aperitivo, andrebbe compreso che il legame con i musulmani moderati si creerà non di certo cercando di delegittimare moralmente le loro sacre scritture, bensì offrendogli benevolenza, istruzione e lavoro, in cambio di lealtà. 

jared-diamond-collasso-come-le-societa-scelgonoSul baratro del presente 

Nei giorni in cui ho scritto questo articolo l’umanità intera è piombata in un baratro di orrore senza fine, a causa di un’esplosione di violenza assai connessa con il tema che ho trattato. Il 7 ottobre del 2023 il pogrom contro gli ebrei messo in atto da Hamas travestendo di poetiche postcoloniali di liberazione un atto genocidario jihadista, ha affermato – e realizzato di fatto – una condizione secondo la quale i musulmani sarebbero legittimati da Dio a sterminare gli ebrei, gli infedeli, gli occidentali. Non è la prima volta: nell’emica islamista questo è il senso di tanti attentati jihadisti, dall’11 settembre al Bataclan – passando per Barcellona, Londra, Berlino, in una processione di stragi che si allunga sempre di più – fino agli atti puntiformi di singoli lupi solitari che funestano da anni l’Europa. Quello che colpisce nel caso attuale è la proporzione di quanto è avvenuto e la sua connessione profonda con la voragine culturale da cui scaturisce quest’odio tanto antico quanto attuale. Nello specifico si tratta di un’intenzione antisemita di annientamento che il fondamentalismo islamista va più o meno apertamente predicando da anni (nell’indifferenza prevalente della comunità mondiale che non si è mai resa conto della gravità della cosa), messa in atto non da un gruppo di terroristi separato dalla Palestina (come molti vogliono credere) ma una forza politica che gode di un consenso maggioritario tra la popolazione, di cui rappresenta la volontà preminente (e questo è l’aspetto più inquietante della vicenda, nonché quello che, non a caso, stiamo rimuovendo di più).

D’altro canto, la risposta estrema, feroce di Israele, il bombardamento massiccio di Gaza che sta causando la morte di migliaia di persone e alimentando un’insopportabile scia di dolore collettivo soprattutto nel mondo musulmano ma non solo, finisce nei fatti per somigliare troppo al genocidio che si è appena subìto, ad assumere le sembianze di una pericolosa vendetta primordiale che eccede il diritto alla difesa di una nazione che si autodefinisce civile e democratica. In una spirale sacrificale in cui ognuno ritiene di potere incarnare la parte della vittima (e affibbiare quella del carnefice esclusivamente alla controparte), dopo il sangue degli ebrei, il sangue dei palestinesi sta seguitando ad alimentare un vortice di odio e di violenza che minaccia di risucchiare il mondo intero nello scontro di civiltà tra Occidente e Islam; scontro da sempre temuto, e finora a fatica forse più rimandato (per paura di farci i conti) che scongiurato (per capacità di affrontarlo).

In questa immane tragedia basta poi affacciarsi su un media qualsiasi per vedere che, come al solito, ci polarizziamo in opposte tifoserie, da ciascuna parte bardati della propria empatia selettiva rispetto allo spettacolo del dolore mediatico e armarti di altrettanto selettive genealogie della legittimità, per apparecchiare rappresentazioni di comodo dove il bene è nettamente separato dal male sia da un lato che dall’altro, così che noi possiamo stare dalla parte che ci siamo scelta. Nella guerra di narrazioni che accompagna quella delle armi, tali posture non fanno altro che occultare il fatto che siamo di fronte a un processo del tipo aggressivo-aggressivo, di schismogenesi simmetrica (Bateson 1977) in cui si assiste a una escalation bilaterale di ostilità che arriva al 1947 e oltre; dove, soprattutto in questo momento, serve a poco stabilire chi ha iniziato per prima e chi ha ragione, se non a riprodurre ed esasperare le due verità già in conflitto.

Così, di fronte a due fazioni in lotta che si accusano reciprocamente di genocidio, le moltitudini occidentali, che si posizionano moralmente intorno a questa tragedia riducendosi a due tifoserie mediatiche pronte a rilanciare tali accuse, rivelano un’impasse culturale data da un duplice eccesso: da un lato la tentazione coloniale malcelata di attaccare l’altro in nome della presunta superiorità della democrazia (l’invasamento che appoggia la distruzione di Hamas senza preoccuparsi delle sue conseguenze genocidarie, e rimuove il problema dell’occupazione); dall’altro l’acquisizione di un impedimento postcoloniale nel difendere le democrazie dagli attacchi dell’imperialismo dell’altro (l’invasamento che esalta il pogrom di Hamas come atto di resistenza e rimuove il fatto che esso è un atto jihadista intenzionalmente genocidario e rivolto non solo contro gli ebrei ma, in senso ampio, contro l’Occidente intero). Ancora una volta ci polarizziamo tra chi pensa che ciò che intendiamo come “civiltà” o “democrazia” ha solo ragioni da difendere e chi pensa che ha invece solo torti da espiare. Soprattutto, l’“Alluvione Al-Aqsa” – questo è il nome dato da Hamas al suo attacco – è un atto che ha suscitato nel mondo un’interpretazione a due facce.

Questo perché esso è, per molti versi, intrinsecamente ambivalente: è sia liberazione, resistenza sia pogrom, genocidio, sia politica sia religione, sia indipendenza sia jihadismo. E se da un punto di vista postcoloniale la jihad globale è un mezzo per la liberazione palestinese, da un punto di vista islamista la liberazione palestinese non è il fine ultimo ma un mezzo della jihad globale contro l’Occidente. Oggi tutte le conquiste civili della «società aperta» (Popper 1973), l’antirazzismo, il proposito dell’eguaglianza del genere umano si trovano più che mai di fronte paradosso popperiano sulla tolleranza, che se illimitata porta alla sua scomparsa: si possono tollerare persone e società che non tollerano che l’umanità intera non si sottometta al loro Dio? Il fatto che queste persone e società spesso lamentino di aver subito torti coloniali è sufficiente a edulcorare la loro richiesta di sottomissione? È per tutti questi motivi che dovrebbe essere chiaro che questo dramma non riguarda solo la questione coloniale, reale ma parziale, anche ammettendo la necessità di fare dei passi indietro, soprattutto riconoscendo lo Stato della Palestina: in esso si consuma un conflitto eterno di reciproci etnocentrismi che pretendono di derivare una legittimità del legame tra popolo e suolo ciascuno in nome del proprio Dio, dove il Dio esclusivista dei sionisti riserva la salvezza solo egli ebrei e quello conquistatore degli islamisti chiede la sottomissione di tutti i popoli. In merito non possiamo non notare che, a partire dall’innesco dato dall’invasamento religioso, il tutto inizia a somigliare per più di un verso anche a uno scenario di tipo ruandese; a una situazione in cui potremmo finire nel baratro di una globalizzazione dell’odio etnico-culturale, dove l’uccisione dell’altro diventa un’opzione allettante, anche e soprattutto in quanto si rivela propedeutica all’impossessamento della sua terra, delle sue risorse.

Questo è il worst case scenario, l’eventualità di rischio peggiore che ci riserva il futuro, ne parlo nell’ultimo capitolo del libro che ho scritto, a partire dalle riflessioni di Jared Diamond (2005), sostenendo che, se non è il caso di farne una paranoia, ci sono vari segnali che indicano che bisogna essere allertati, e non rimuovere tale rischio: l’allarmismo va evitato ma va evitato anche il rassicurazionismo.

41jadiwhh3lQui occorre ribadire che da un punto di vista islamista quello che è in gioco non riguarda semplicemente la Palestina di Gaza contro Israele. Quello che è in gioco in Terrasanta è la jihad globale, la guerra santa contro gl’infedeli, in quanto da quella prospettiva – puramente monoteistica, etnocentrica, fascista – esiste una linea di confine netta che separa la vera umanità, quella musulmana, la sola degna di esistere, dalla subumanità degli infedeli, che vanno messi a morte (se ebrei) o convertiti e sottomessi. Questo imperialismo dell’altro non lo sappiamo riconoscere, sia per paura sia perché si maschera di intenti difensivi di liberazione: la jihad ha imparato ad usare un lessico postcoloniale dove la lotta, la resistenza, la liberazione dall’oppressore coloniale è una mezza verità che nasconde l’altra mezza verità data da intenti aggressivi che nascono da un desiderio di sottomissione dell’Occidente.

Il rischio in questione riguarda anche il contagio jihadista pulviscolare tra i migranti sbarcati in Occidente, la legittimazione religiosa di azioni rizomatiche di violenza contro gl’infedeli. In tutto ciò preferiamo spesso muoverci con i paraocchi della cultural blindness, che, di fronte alle manifestazioni di odio antioccidentale, di estraneità ostile dei migranti, rimuovono qualsiasi nesso di causalità culturale. Così i segnali di presenza tra i migranti di spore di una volontà genocidaria jihadista vengono ignorati dai media progressisti e raccontati solo dalla stampa di destra [2], così non siamo capaci di riconoscere il micelio che connette intersezionalmente questo clima culturale all’emergere di una violenza quotidiana sempre più connotata etnicamente; in cui  – tanto per fare un esempio tra la marea montante di casi simili che la cronaca ci propone da anni – capita di leggere che un migrante marocchino ha accoltellato alla gola un giovane italiano perché questi avrebbe rifiutato la rosa che voleva vendergli [3]. Nel mondo progressista in merito a questi episodi vige da anni un regime emozionale di empatia selettiva: la partecipazione accorata al dolore talvolta sofferto dai migranti corrisponde a una rimozione spietata del dolore talvolta cagionato dai migranti.

Simili episodi sono da interpretare reiteratamente in una profilassi che li depura da qualsiasi connotazione culturale? o testimoniano una diffusione di atti di violenza xenofoba contro il loro straniero – noi occidentali – dove in molti casi sono presenti anche elementi variamente spontanei e irriflessi di violenza jihadista rivolta contro gli infedeli?  Per tutto questo dobbiamo capire che c’è una differenza fondamentale tra i musulmani che vogliono convivere con gli occidentali nel rispetto reciproco dei diversi background culturali (e nella reciproca consapevolezza che queste diversità non dovrebbero essere pensate fisse come monoliti perennemente separati ma come flussi di valori che possono mutare e mescolarsi) e la parte islamista dei musulmani che considera gli occidentali degli infedeli che al più si possono sopportare, ma che, quando sarà il momento, dovranno essere sottomessi attraverso la conversione o lo sterminio. Si tratta di una parte. É proprio in tal senso che ho insistentemente sottolineato la necessità di non confondere tutti i musulmani con gli islamisti, di non confondere le religioni con i loro usi sociali, di non confondere l’Islam con la sharia. Certi rischi non si scongiurano rimuovendoli; anzi, all’opposto la rimozione li fa lievitare. Perciò essi vanno compresi, va compreso che c’è una guerra tra Occidente e islamisti, che a volte rallenta in un conflitto a bassa intensità, altre si manifesta in modo travolgente, e che per vincerla serve un’alleanza con i musulmani. Premesso che musulmani sono tra noi e che in futuro aumenteranno, è in tal senso che – riprendendo il nodo individuato da Bassam Tibi, per quanto egli si sia infine orientato più in senso pessimistico rispetto a questa possibilità – va compreso che, se il rifiuto radicale dell’Islam porterà allo scontro di civiltà, l’unico modo per evitare l’islamizzazione dell’Europa (in nome della sharia) è accettare di europeizzare l’Islam (in nome del diritto positivo). Non so dire se sto concludendo con delle pie illusioni, ma di meglio non trovo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 
Note
[1] Intendo in merito il termine ‘fascismo’ non tanto nella sua accezione storica quanto in un senso antropologico e più ampio del termine, come un sentimento universalmente diffuso di etnocentrismo (Sumner 1962) tanto attitudinale quanto ideologico fatto di prepotenza, autoritarismo, chiusura culturale, disposizione predatoria rivolta contro l’altro e orientata al dominio. Il tutto anche in riferimento al concetto di «ur-fascismo» (Eco 2016) riguardo alla dimensione sociale, collettiva e al concetto di «personalità autoritaria» (Adorno 1973) riguardo alla dimensione psicologica, individuale. In tal senso il fascismo può essere inteso nei termini di un etnocentrismo che attinge da motivazioni variamente culturali o religiose per caricarsi di ragioni e finalità politiche che lo trasformano in un progetto più o meno esplicito.
[2] Mi riferisco a delle recenti intercettazioni dai contenuti estremi, dichiaratamente in linea con il fascismo islamista espresso in questi anni da organizzazioni come l’ISIS. In queste indagini sono emersi contenuti rivolti ai non musulmani di questo tenore: «oh scimmie e maiali! i monoteisti vi sgozzeranno come le pecore», «frantumeremo le vostre croci», «faremo in modo di far crescere una generazione che ama i campi di battaglia per seguire il percorso dei loro padri: i martiri», «non avremo pace finché non applicheremo la legge di Dio nella sua terra» (https://www.ilgiornale.it/news/politica/pronta-generazione-martiri-2227561.html). Qui occorre ripetere: se è paranoico e dannoso immaginare tutti i musulmani mossi da simili sentimenti di odio, è ingenuo e pericoloso non comprendere che tali sentimenti sono significativamente diffusi tra quella parte dei musulmani che è mossa da una volontà di conquista jihadista ispirata al fondamentalismo islamista. È proprio in merito a episodi simili che mi preme far notare che in ambito scientifico umanistico c’è un doppio standard: da un lato una notevole, costante e diffusa attenzione nei confronti della xenofobia-fascismo degli occidentali contro i migranti; dall’altro una pressoché totale disattenzione, omertà, rimozione, negazione riguardo alla xenofobia-fascismo dei migranti contro gli occidentali (che si presenti in forma di generica estraneità ostile o che assuma connotazioni politico-religiose).
[3] https://www.ilmattino.it/primopiano/cronaca/piazza_bologna_lite_rosa_marocchino_uomo_accoltellato_gola-7700699.html.  
Riferimenti bibliografici 
Adorno, T. et al., 1973, La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano. 
Bateson, G., 1977, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano. 
Ciccozzi A., 2021a, “Diversità che non arricchiscono: la questione dell’estraneità ostile nei reati culturalmente motivati”, in Dialoghi Mediterranei, n. 51, Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/diversita-che-non-arricchiscono-la-questione-dellestraneita-ostile-nei-reati-culturalmente-motivati/. 
Ciccozzi, A., 2021b, “Migrazioni, cittadinanza, polarizzazioni”, Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre, Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/migrazioni- cittadinanza-polarizzazioni/.   
Ciccozzi, A., 2023a, “I due lati del velo: sull’opportunità di distinguere l’Islam dall’islamismo”, Dialoghi Mediterranei, n. 59, Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/60289/.  
Ciccozzi, A., 2023b, Muri e ponti. Migrazioni e polarizzazione, Bari, Edizioni di Pagina. 
Cusumano, A., 2023, “Migrazioni, rappresentazioni e polarizzazioni”, Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre, Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/migrazioni-rappresentazioni-e-polarizzazioni/. 
Diamond J., 2005, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Torino, Einaudi. 
Di Cesare, D., 2017, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Torino, Bollati Boringhieri. 
Eco, U., 2016, Cinque scritti morali, Milano, Rizzoli. 
Manconi, L., Brinis, V., 2013, Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, Prefazione di Cécile Kyenge, Milano, Il Saggiatore. 
Popper, K. 1973, La società aperta e i suoi nemici, vol. I: Platone totalitario, Roma, Armando
Roy O., 2005, Islam alla sfida della laicità. Dalla Francia una guida magistrale contro le isterie xenofobe,Venezia, Marsilio. 
Sumner W. G., 1962, Costumi di gruppo, Milano, Edizioni di Comunità.
Tibi, B., 2012, Islamism and Islam, New Haven and London, Yale University Press.

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Antonello Ciccozzi, è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.

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