La Tunisia ha conosciuto escursioni e diari di viaggio di non pochi italiani, soprattutto nella prima metà del Novecento. Tra i viaggiatori-scrittori che hanno visitato la Tunisia Vincenzo Menghi è autore di un libro Da Tunisi alla Jung-Frau, Impressioni di Viaggio, Maglione Ed., Roma 1939) che alla Tunisia ha dedicato 48 pagine, accompagnate da alcune fotografie per la maggior parte di monumenti e di siti archeologici. La data di pubblicazione è il 1939 (e non mancano gli accenti di propaganda fascista), ma le impressioni di viaggio portano la data del 1914, dopo la conquista della Libia.
Diversamente dalle due precedenti relazioni di viaggio (vedi Dialoghi Mediterranei, n. 34), questa porta chiaramente un messaggio politico e di propaganda. Lo sguardo rivolto alla Tunisia è condizionato da considerazioni storiche e politiche, con una chiara rivendicazione della Tunisia all’Italia fascista. Ne testimoniano i titoli dei capitoli che compongono la prima parte del volume, dedicata alla Tunisia: La Tunisia valorizzata dagli italiani; Polemiche coloniali; La piazzaforte di Biserta; Nel regno di Dido; Nelle viscere dei Monti Africani; La condizione giuridica attuale degli italiani in Tunisia.
L’intento dello scritto è chiaramente annunciato nella prefazione:
«Se volete conoscere appieno le virtù del nostro lavoratore dovete studiarlo in Colonia e all’ Estero. Dura è spesso la sua vita e le difficoltà in cui si dibatte quotidianamente sono enormi. Ma quale tenacia, che frugalità e quanta ingegnosità e modestia lo distinguono tra quelli delle altre Nazioni!»
Il protagonista per eccellenza in queste pagine non è più l’Arabo o il Beduino, o la fanciulla nel suo abito tradizionale, ma è la gente italiana operosa ed ingegnosa quale ce la presenta la retorica del regime. Poche descrizioni di paesaggi o di ambienti, salvo quando servono a magnificare il lavoro degli italiani in Tunisia, in compenso quante pompose dichiarazioni sulle virtù dell’italiano: «L’italiano è dappertutto perché di lui non si può fare a meno» o ancora «È dappertutto l’italiano perché ha la virtù – insita nella razza – di ambientarsi presto e di associarsi con i popoli più differenti per lingua , per costumi, per sentimenti, per religione».
E fornisce cifre sul numero degli italiani di 120 mila unità di cui 15 mila agricoltori, e 2500 famiglie lavorano su terreni propri. Evoca l’esempio del professore Canino che «è riuscito in pochi anni a mettere in coltura ben 3200 ettari di terreni, che si estendono, ora a valloncelli ora a collinette, a 30 km. Da Tunisi, sulla rotabile di el-Keff » (l’attuale Borj-el-Amri).
La sua relazione di viaggio è un inno all’ingegno e all’energia del lavoratore italiano:
«Nella Tunisia siciliani, napoletani, toscani, marchegiani, sardi… hanno risvegliato dai loro sani organismi le sopite energie della razza e si sono dati entusiasticamente al lavoro.Le case più artistiche e mastodontiche, le ville più attraenti e più verdi, i teatri e i ritrovi più affollati, le fabbriche e i negozi più ricchi, le automobili più vistose e più rapide sono degli italiani»
E sulla diffusione della lingua italiana dice:
«E la lingua italiana, popolare e aristocratica, s’infiltra dovunque, dalle taverne dei sobborghi alle scalee dei palazzi diplomatici, dalle banchine dei porti alle capanne beduine dell’interno».
Osservazione che conferma quanto abbiamo rilevato in altre occasioni sulla larga diffusione della lingua italiana, con le sue voci regionali, soprattutto quella siciliana, presso la popolazione autoctona e nelle varie zone della Tunisia, e sul fatto che la parlata tunisina di oggi abbia conservato molti vocaboli di origine italiana.
E anche quando parla di Cartagine, Vincenzo Menghi non dimentica di legare il presente glorioso del fascismo al passato glorioso di Roma :
«Non si va in Tunisia senza visitare Cartagine. Sono le rievocazioni classiche, è il desiderio intenso di trovare una pietra di paragone fra la nostra e l’antica civiltà, è il vago impulso della razza che vi sospingono verso le pendici assolate e verdeggianti di Byrsa…».
Ciò che interessa al Menghi non è la Tunisia araba, con i suoi paesaggi, i suoi monumenti islamici e la sua gente, ma i ruderi della Tunisia antica, perché testimoniano della grandezza di Roma:
«Il misticismo di Kairuan, la città santa, le coreografie beylicali, i sorrisi maliziosetti e clandestini delle arabe in veletta, i panorami d’acqua, di sole e di foreste non vi appagano completamente se di quando in quando non vi fermate, in Tunisia, a vagabondare fra gli scheletri smozzicati di vetuste città»
Parlando della miniera di Gebel Ressas, egli non manca di osservare che «tutta la maestranza è italiana» alla dipendenza della società francese. E fornisce alcune cifre:
«Quattrocento sono gli italiani occupati al Gebel Ressas ed essi fraternizzano cordialmente con i 400 arabi addetti alle mansioni più umili, perché vengono anche loro da un lembo d’Italia: sono tripolitani che varcarono la frontiera negli scorci del 1911 per non essere costretti a combatterci»
Più che impressioni di viaggio si tratta di una retorica nel puro stile fascista, dove il Menghi sfrutta il più banale degli episodi per ricordare l’operato del regime e del suo Duce, come quando attraversa i campi allagati di Mateur dopo una grossa pioggia: «Ho creduto in certi punti di attraversare le terre acquitrinose delle paludi pontine», e con un rimando a fondo pagina osserva «Ora redente da Mussolini».
L’ultimo capitolo sulla Tunisia “La condizione giuridica attuale degli italiani in Tunisia”, datato Roma, gennaio 1939, è un vero e proprio attacco alla Francia che ha imposto il Protettorato sulla Tunisia «in chiave anti-italiana», e riprende storicamente lo statuto degli italiani favoriti dal Bey Mohamed Es-Sadok, con il trattato dell’8 dicembre 1868 che porta anche la firma di Vittorio Emanuele II, e come a partire dal 1881 la Francia si è adoperata sempre per ridurre l’influenza italiana in Tunisia.
Vincenzo Menghi ricorda che in virtù del trattato del 1868, gli italiani potevano
«senza restrizione alcuna, stabilire il loro domicilio nella Reggenza, viaggiare da un capo all’altro del territorio senza passaporto, negoziare, comprare e vendere beni immobili, pescare nelle acque tunisine alle stesse condizioni imposte ai sudditi del Bey, professare liberamente qualsiasi culto».
Dopo l’occupazione della Tunisia da parte della Francia nel 1881, «con il pretesto di punire i Crumiri che sconfinavano per fare razzie in Algeria», il decreto francese del 17 maggio 1881 riconobbe in apparenza lo stato di fatto goduto dagli italiani prima del Protettorato, ma nei fatti si abolirono alcuni privilegi e i tribunali consolari furono soppressi creando un clima di tensioni e di conflitti, che si protrasse fino alle Convenzioni del 28 settembre 1896. Per esse
«gli italiani in Tunisia , relativamente alle persone e ai beni, debbono essere trattati negli stessi modi e nelle stesse condizioni (art.1) consentite ai francesi e agli indigeni, godendo gli stessi diritti. Si conferma la libertà di soggiorno, di commercio, di undustria ammessa dalla carta bejlicale del 1868».
Ma la Francia, secondo Menghi, si comportava come se la Tunisia fosse un territorio francese e non un Protettorato, interferendo nelle decisioni interne con decreti presidenziali, dimenticando che la Tunisia è uno Stato sovrano, con a capo il Bey, e la Francia «non può manomettere le leggi e i tattati emanati e sottoscritti dal Bey». Inoltre, egli condanna i tentativi francesi di naturalizzare gli italiani, e anche se lamenta che per alcune migliaia di italiani (per necessità economiche), vi sono riusciti, egli inneggia agli altri (150 mila!) che hanno tenuto duro e si sono stretti attorno alle autorità consolari e al loro patriottico giornale, L’Unione, fondato nel 1886.
Il suo sguardo sulla Tunisia si conclude ovviamente con cupi auspici per la Francia, la quale
«è in pieno marasma politico e morale e in continua decrescenza demografica. Non potranno salvarla dallo sfacelo nè i battaglioni senegalesi, nè l’oro, nè gli armeggi diplomatici. Di ciò si sono accorti già i nazionalisti o desturiani tunisini che si agitano e non passerà molto tempo che il Protettorato, creato in funzione anti-italiana, sarà solo un triste ricordo».
L’ultimo sguardo sulla Tunisia proviene da un viaggio a bordo di un idrovolante, il quale partito da Palermo effettua un ammaraggio allo scalo di Khereddine, vicino a Tunisi. Le pagine dedicate alla Tunisia non sono molte (circa 13) frammiste di fotografie di aeroplani, ritratti di piloti e soprattutto di disegni a carboncino che riproducono paesaggi e monumenti della Tunisia.
Il racconto segue l’evoluzione della traversata :
«La traversata è breve: i 300 chilometri che ancora ci dividono dalla terra africana sono superati press’a poco in due ore: ma già molto prima si comincia ad intravedere il contorno della costa africana che piano piano si concreta, prende aspetti più decisi ed evidenti. Entriamo nell’ampia insenatura che va da Capo Bon a Capo Farina: sorvoliamo l’isola di Zembra e poco dopo siamo su Cartagine»
Seguono alcune considerazioni storiche su Cartagine dalla sua fondazione per opera di Didone agli scavi archeologici intrapresi dal Cardinale Lavigerie. Gli aviatori subiscono comunque il fascino del paesaggio:
«Il luogo, dal punto di vista naturale , è di una bellezza incantevole e la città nei suoi periodi migliori, con i suoi templi, le terme, l’anfiteatro, i monumenti ed i palazzi, gli acquedotti perdentisi lontano verso il monte Zaguan donde era tratta l’acqua pura ed abbondante che riforniva l’abitato, doveva avere un aspetto di grandiosità e suntuosità eccezionali».
Scesi a terra, i piloti sono rimasti delusi: «È questa l’Africa? Questa città dalle grandi strade, dai boulevards alberati…?» Ma quando entrano nella parte araba scoprono questo mondo sconosciuto che andavano cercando:
«Stradine strette, tortuose, spesso attraversate da volte di altezza disuguale che uniscono una casa all’altra, finestre munite di mucharabie, tratti di mura da cui si affaccia una lussureggiante vegetazione. Numerosi e caratteristici i souks, mercati indigeni quasi sempre coperti, in cui i mercanti, raggruppati secondo il genere delle merci, offrono con voce acuta i loro prodotti o fingono di nulla vedere, accoccolati sulla soglia della loro botteguccia, pronti però a piombare sul probabile cliente non appena scorgano in lui un segno di attenzione anche fugace».
Fra le località più interessanti nei dintorni di Tunisi vengono evocati Sidi Bu Said «lindo e graziosissimo villaggio arabo», La Marsa dove si trovano il palazzo del Bey e la residenza estiva del Ministro di Francia, Hammam lif «rinomata per la spiaggia e lo stabilimento termale», Korbous «stazione climatica termale, con clima dolcissimo, rinomato fin dall’antichità per l’aria pura e la temperatura costante in tutto l’anno».
Vengono poi citate rapidamente Susa, Sfax, Sbeitla, El Djem, Bulla Regia, e soprattutto Kairouan, dove
«si penetra veramente in un altro mondo che appaga la fantasia più viva, l’aspettativa più esigente; quella solennità silenziosa, quel biancore accecante si impongono al visitatore, il quale istintivamente abbassa il tono della voce ed alleggerisce il proprio passo che resta sempre troppo sonoro in confronto di quello arabo, leggerissimo e silenzioso».
La visita di Kairouan, concludono gli autori, «che nessuno, andando in Tunisia, dovrebbe trascurare, esercita anche sui più indifferenti un fascino profondo e lascia un ricordo che nessun altro luogo riuscirà a cancellare».