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Alunni stranieri in Italia. Una, nessuna e centomila lingue

MATURITA': MILANOdi Valeria Iannazzone

Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto (Luigi Settembrini).

Al giorno d’oggi è sempre più usuale imbattersi nel termine intercultura, sia attraverso i mezzi di comunicazione che nel vissuto quotidiano di ciascuno, sin da quando mettendo il piede fuori casa ci si scontra/incontra con qualcuno considerato “diverso”. Si scrivono nuove norme che hanno come obiettivo di promuovere e salvaguardare l’interculturalità, ma il fatto è che, come hanno dichiarato provocatoriamente molti intellettuali, l’intercultura non esiste tout court né può essere imposta per legge. Essa esiste solo in quanto relazione tra soggetti, esseri umani portatori di culture diverse.

La spiegazione di questa parola reca con sé una molteplicità di significati e costituisce un elemento fondamentale nella costruzione dell’identità personale, che nel tempo quotidiano che ci è dato vivere è frutto di tensioni, di paure, di conflitti, essendo l’identità comunque un costrutto culturale, un processo aperto all’incontro, alle contaminazioni. Per definizione, in tutta evidenza, non esiste interculturalità senza pluralismo. La matrice fondativa dell’educazione interculturale è la pluralità e la sua negazione è il pensiero unico, l’omologazione come processo di azzeramento delle differenze fino al monoculturalismo (Balboni, 2015).

A un livello più profondo l’interculturalità comporta anche un investimento affettivo, ossia quella dimensione della relazione umana chiamata “empatia” che sul piano educativo significa «sentire come sente l’altro». Identificazione e dunque stima, valorizzazione, rispetto e apprezzamento per la cultura altra, evitando in questo modo che l’educazione interculturale degeneri in forme di esotismo o semplice curiosità (Gallisot, Rivera, 2001). In una società in cui cresce l’odio etnico e religioso, in cui tornano a diffondersi fondamentalismi e ghettizzazioni, bisogna prendere posizione rispetto a questo status quo se si vuole costruire una comunità pluralista e una convivenza democratica. Per tutto questo diventa importante evitare la tentazione di cadere nella trappola del buonismo, dell’irenismo, della neutralità e dell’equidistanza, perché generatrici di illusioni che negano l’esistenza dello scontro, degli avversari, dell’intolleranza e non ultima della violenza.

L’educazione interculturale non è l’invenzione di una “terza via”, peraltro inesistente (laddove l’intercultura è intesa come luogo di sublimazione delle identità e dei conflitti), ma un’occasione di cambiamento che agisce sui valori e sui fattori che determinano le relazioni interculturali, per favorire nel futuro l’incontro tra differenze in un determinato contesto storico-sociale. Appare decisivo allora, lavorare sulla riforma di un pensiero nuovo, plurale, olistico e non più solo binario e lineare. Un pensiero capace di oltrepassare schemi ormai obsoleti. L’intercultura non esiste come prodotto ma come processo che cerca di intervenire sui pregiudizi e, indirettamente, per via “culturale” sui rapporti di forza, onde salvaguardare i due aspetti delle relazioni interculturali: l’incontro e la differenza.

Interrogarsi a questo punto su cosa significhi “bisogno comunicativo” all’interno dello studio dell’italiano come lingua seconda in classi interculturali e cercare di raccontare le necessità comunicative degli attori coinvolti in questo processo al fine di tracciare un ponte tra di essi, non può prescindere da una restituzione dei processi didattici che accompagnano la società contemporanea. Inoltre, una volta delineate questa serie di concomitanze di eventi attuali, il tema in oggetto si connette solidamente allo sviluppo di un cammino personale (più o meno) consapevole. Da qui l’esigenza di percorrere una strada che al momento non possiede corsie preferenziali, né asfalto drenante in caso di acquazzoni, quanto solo una serie di aree di servizio per poter sostare.

Partendo dalla definizione del termine bisogno il Vocabolario della lingua italiana edito da Treccani scrive: «mancanza di qualcosa che sia indispensabile o anche solo opportuna, o di cui si senta il desiderio. Necessità, indigenza, povertà». Ancora più specifica è la sua traduzione con il Webster New Collegiate Dictionary che ospita, fra le definizioni di bisogno, «necessary duty: obligation;  a lack of something requisite, desirable, or useful; a physiological or psychological requirement for the well-being of an organism; a condition requiring supply or relief; lack of the means of subsistence: poverty».

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Test d’ingresso per Italiano L2 (ph. V. Iannazzone)

Riportando questa definizione nella nostra società contemporanea, dove si affermano quotidianamente e dialetticamente la relazione interpersonale, la cultura sociale e la libertà personale, la stessa categoria di “bisogno” assume un significato specifico, perché caratterizzato ed inserito in un preciso contesto storico-culturale. Appare ovvio scrivere che, a seconda di determinate selezioni contestuali, utilizziamo il termine bisogno come la necessità che ha una lingua di esprimere, con tutti i mezzi che ad essa appartengono, una diversa visione del mondo, la così detta ipotesi Sapir-Whorf [1].

Ne è esempio estremizzato quella prima oramai nota immagine del corpicino privo di vita del bambino siriano Aylan, morto dopo una estenuante traversata in mare con i suoi genitori, per raggiungere l’Europa. Al di là del pur straziante caso specifico, quello che ancora una volta appare evidente, e che deve spingere ad una seria riflessione, è che l’unico interesse umanitario e il senso di giustizia che ne deriva prendono forma solo se sono toccate le corde dell’emotività. La modalità di comunicazione piuttosto che il contenuto di ciò che si comunica rende esistente la condizione degli immigrati solo nel momento in cui si assiste alle immagini della loro morte. Per paradosso quindi, quando essi non esistono più. Viceversa risulta difficile riconoscere i loro diritti ed avere un confronto con loro dal momento che l’unica dominante prospettiva è quella proposta da politiche nazionali e sovranazionali non tese ad una mediazione ma a miti da costruire: «sono troppi, tolgono lavoro agli italiani, gli danno anche le case, vengono dal Terzo mondo, portano malattie, sono ignoranti e maleducati, vanno ad accrescere la malavita, sono fondamentalisti, l’Italia è un paese di immigrati, una volta entrati non vanno più via» (Nanni, Weldemariam,1994: 58).

La prospettiva dialogica s’inserisce così in una prospettiva complessa, non riduzionista, non banalizzante, che tende a dare spessore alle cose, a complessificarle. Dunque, scrivere di bisogno comunicativo, in un periodo come questo, assume una connotazione semantica particolare perché finalizzato a favorire un interesse socioculturale verso l’individuo e non solo verso il gruppo. Come racconta una leggenda indiana, dovremmo «camminare per tre lune nei mocassini dell’altro» per comprendere a pieno i motivi delle sue azioni. L’inclusione dell’individuo in una realtà sicuramente diversa fa sì che abbia inizio un lento processo di socializzazione e autonomia dello stesso. In questa spinta centripeta si identifica il linguaggio non solo come fenomeno sociale, come confronto in una realtà di sproporzione di forze, ma anche come contenitore di una moltitudine di schemi linguistico-culturali dentro giudizi di valore.

Le prime analisi dei rapporti fra le lingue e le società si ebbero nel corso degli anni Sessanta in Gran Bretagna grazie agli studi del sociologo Basil Bernstein sulla rilevanza del linguaggio nell’educazione, e in America, per mezzo di William Labov, con le ricerche sui correlati sociali della variazione linguistica. Alla luce di questa prospettiva si constatò che il linguaggio verbale, oltre a essere una delle capacità innate degli esseri umani e dotato di una propria strutturazione autonoma, si realizzava nella vita sociale e nei comportamenti interazionali degli individui. Si rese quindi necessario, per una comprensione globale dei fenomeni linguistici, tenere conto delle interrelazioni fra la lingua e l’ambiente sociale in cui questa veniva impiegata. La sociolinguistica, in effetti, individuò due fondamentali livelli di studio: un primo livello chiamato micro sociolinguistico dedicato «all’analisi degli eventi di interazione comunicativa» (Berruto, 1974: 67). Un secondo livello macro sociolinguistico riguardante «l’analisi dei sistemi linguistici in una comunità parlante: la scala di riferimento è l’intera comunità sociale con le varietàdel codice in essa utilizzate […], gli elementi interessanti non sono i singoli atti comunicativi ma i sistemi linguistici che intervengono negli atti comunicativi» (Berruto, 1974:43).

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Lezione di italiano presso Cidis (ph. V. Iannazzone)

Negli anni Settanta il linguista Giovan Battista Pellegrini, in merito alla varietà della lingua italiana, riconobbe nel repertorio verbale di un parlante italiano quattro registri espressivi fondamentali: dialetto, koinè dialettale, italiano regionale e italiano standard. «In molti casi un italofono […] nel nostro secolo è passato attraverso l’esperienza di quattro registri [o tastiere], ed è ancora in grado di poterli utilizzare tutti e quattro in determinate circostanze» (Pellegrini, 1975: 37). Il concetto di italiano standard, cioè lingua comune, è per molti versi un concetto arbitrario e convenzionale (se non addirittura fittizio, una mera ipotesi di lavoro, come sostenne Berruto). Più delle altre lingue europee, l’italiano standard è strettamente ancorato alla tradizione letteraria e sembra aver vita quasi esclusivamente nello scritto. La questione dell’italiano standard risale all’epoca della politica linguistica attuata dai Governi dopo l’unificazione dell’Italia. Dopo l’unità d’Italia infatti, il processo di unificazione linguistica (avviatosi grazie a differenti fattori, quali la scolarizzazione, l’urbanizzazione, i mass-media) portò al superamento di quella situazione di totale diglossia che era tipica del periodo precedente [2]

Nel contempo, l’italiano parlato ha risentito e risente dell’azione di forti fattori extralinguistici, come il rapporto di ruolo fra i parlanti, il mezzo, l’intenzione, che danno poi luogo ad altre varietà. Si può affermare con certezza infatti che la lingua che usiamo oggi non è la stessa di quarant’anni fa: sono, ad esempio, venute meno nell’uso comune alcune parole, mentre se ne sono imposte delle altre. Così anche, alcuni fenomeni morfologici e sintattici che fino a qualche anno fa erano banditi dalle grammatiche, ora sono entrati non solo nella lingua parlata, ma anche nello scritto (o, almeno, in certi tipi di scrittura). Inoltre a causa del persistente uso dei dialetti si tende a parlare un italiano che subisce, in misura più o meno rilevante, l’influenza delle parlate locali.

Il nuovo quadro linguistico che ci viene così presentato è quello di bilinguismo: gli italofoni si trovano a “possedere” sia la lingua che il dialetto (ma in realtà anche una gamma di varietà intermedie) e scelgono di utilizzare l’una o l’altro secondo le situazioni. L’elemento forse più interessante è il fatto che tradizionalmente è sempre esistita una netta differenza tra la lingua letteraria italiana e il parlato. Anche se negli ultimi anni si è registrata una situazione di trasformazione caratterizzata principalmente da un avvicinamento tra scritto e parlato, definito come un processo di ristandardizzazione dell’italiano (Berruto, 1987; Todisco, 1984).

Il docente di italiano come Lingua seconda si trova così davanti a una domanda cruciale: “tra tante forme alternative, che derivano da varietà diverse di italiano, quale va privilegiata nell’attività didattica? E come?”. Sappiamo che il codice che di solito viene utilizzato dagli italiani con un grado di istruzione elevato è quello che Berruto ha definito neo-standard, sia nel parlato in situazioni formali che nello scritto di parlanti colti: è basato sullo standard ma è ricco di suoni e costrutti che sono risaliti dal sub-standard e che oggi sono largamente accettati nell’italiano comune.

L’insegnante di italiano come lingua seconda, dopo avere portato all’apprendimento delle strutture fondamentali dell’italiano normativo, dovrebbe con l’aiuto di testi autentici far apprendere il neo-standard, per dare una base solida di conoscenza e dominio dell’italiano parlato (e in parte) dello scritto medio. La priorità nell’apprendimento dell’italiano neo-standard è data dal fatto che si tratta dell’italiano che si sente in televisione, alla radio, al cinema e che si legge sulla carta stampata. Non è l’italiano fisso ed imbalsamato nelle sue strutture prescritte dalla norma, ma è quello che permette al parlante di intendere, interagire e comunicare nella maggior parte delle situazioni comunicative reali.

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Classe di italiano L2 presso Cidis (ph. V. Iannazzaro)

L’apprendente L2 però dovrebbe poter riconoscere anche le caratteristiche della varietà diastratica bassa (italiano popolare) ossia quello che Berruto definisce «quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e (quando sia il caso) nello scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto, caratterizzati da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard normativo» (Berruto, in Sobrero 2014: 58). Sicuramente caratterizzato da sintassi con frasi semplici unite per paratassi, una morfologia semplificata e lessico generico, non si realizza solo nella produzione orale, ma anche, in molti casi, in quella scritta (il fenomeno va sotto il nome di scrittura dei semi-colti). Qui l’ortografia non è conforme alla norma, la punteggiatura o è sovrabbondante o è scarsa, quando non inesistente, la morfosintassi risente delle strutture tipiche del parlato. L’apprendente dovrà riuscire a riconoscere quei tratti, che probabilmente può vedere scritti o può sentire, ma che non appartengono alla norma. La nozione di diastratia può essere considerata l’iperonimo di una serie di spiegazioni molto complesse a seconda della realtà a cui si riferiscono. In particolare secondo Berruto (1995) lo status socio-economico e quello socio-culturale sono variabili oggettive che insieme a variabili soggettive concorrono nella definizione di classe o strato sociale. Appare certo però che queste variabili socio-culturali possono avere influenza sul processo comunicazionale in atto. Esse si fondano su fattori extralinguistici, facendo sì che una persona sia più vista che ascoltata (circa il 70% delle informazioni che raggiungono la corteccia cerebrale vi giungono attraverso gli occhi, mentre il restante 30 % attraverso tutti gli altri sensi, con la prevalenza dell’udito) e che la valutazione dell’aspetto esteriore prevalga su altre considerazioni. Inoltre l’utilizzo dello spazio e della distanza interpersonale (prossemica) può dare forma a sensazioni d’invasione dello spazio personale o viceversa a percezioni di disinteresse e/o distacco.

Ogni varietà sin qui presentata è caratterizzata da propri elementi distintivi fonetici e morfologici, ma non per questo le si può considerare monadi in sé concluse, ma piuttosto note di una medesima armonia. La distinzione fra una varietà e l’altra è frutto dello studio linguistico. Così se volessimo collocare le varietà omogenee su un unico segmento che ha per estremi quelle più fortemente caratterizzate in modo opposto, si potrebbe osservare che, lungo quel segmento, vi sono ampie aree di sovrapposizione.

La forte attenzione che si ha oggi per l’italiano come L2 deve ricercarsi nel desiderio di un’educazione linguistica efficace da parte di chi per professione deve insegnare come leggere, scrivere e parlare, utilizzando dei modelli di comunicazione non riconducibili alle linee portanti del “suo” italiano insegnato.

Il paradosso è che attualmente, nell’aprire una prospettiva di semplificazione all’apprendimento della L2 (Italo Calvino scrisse addirittura di una anti lingua, che con la sua esibizione di parole misteriose, e un po’ mistiche, incuteva nel cittadino un terrore semantico), hanno cominciato a palesarsi le ragioni di chi sosteneva che l’insegnamento della lingua italiana era stato inteso, per lungo tempo, come insegnamento della sola lingua letteraria e della grammatica normativa, tralasciando l’esigenza di venire incontro ai bisogni linguistici reali di chi si accingeva ad affrontare lo studio dell’italiano, immerso nella realtà linguistica del nostro Paese.

Se osserviamo le modalità di apprendimento di chi impara una lingua, alla luce di quanto sopra descritto noteremo che la prerogativa immediatamente evidente sarà la presenza di errori. Nel continuum che va dalla lingua di partenza alla lingua target ritroviamo quella che linguisticamente definiamo interlingua. Il concetto di interlingua spiegato per la prima volta da Larry Selinkernel 1972 è un sistema linguistico in continua evoluzione, organizzato sulla base di una “grammatica” specifica, cioè di un sistema di regole che l’apprendente «costruisce, elabora», a partire dalle caratteristiche dell’input (cioè campioni di lingua target).

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da Cidis onlus

Quanto sin qui detto rende manifesto come l’errore sia parte ineliminabile del processo di apprendimento di una lingua, ed anzi indice dello sforzo da parte del discente di ipotizzare una grammatica adatta a descrivere la L2 sulla base delle regolarità osservate e delle attese acquisite nella L1. Il rischio maggiore che potrebbe incidere sul livello di apprendimento della lingua parlata o scritta dal discente è dato dalla cosiddetta fossilizzazione. Questo concetto fu definito sempre da Selinker, come un meccanismo attraverso il quale i parlanti mantengono invariati certi elementi, regole e sottosistemi linguistici della propria interlingua, indipendentemente dalla quantità di sistemi di parole che vengono loro insegnate. Ad esempio, uno dei tipici errori di fossilizzazione in parlanti di italiano L2 è l’omissione degli articoli, delle preposizioni o della copula, parole funzionali la cui assenza non comporta quasi mai notevoli conseguenze sul piano dell’efficacia comunicativa. Un’interlingua fossilizzata, oltre a rivelare scarsi rapporti con i nativi, rappresenta chiaramente quello stato di fossilizzazione dell’identità che Lévi-Strauss definì «eccesso di comunicazione con se stessi» (Lévi-Strauss, 1983: 230).

La scelta da parte del docente di utilizzare determinate strategie di apprendimento per evitare fossilizzazioni e per agevolare il discente ad una collaborazione attiva nella lezione è una parte molto importante di questo processo, perché come già affermava Renzo Titone (1977: 39): «L’apprendimento non è fine a se stesso, ma mezzo per giungere all’arricchimento e alla maturazione sia del pensiero riflesso che delle potenzialità di autorealizzazione della persona, in senso individuale e sociale». Le strategie che il docente può applicare per traghettare il discente verso un corretto uso della lingua seconda sono molteplici e devono ovviamente subire delle variazioni qualora non ci fossero i risultati sperati. Infatti non dovrà mai mancare la chiara consapevolezza che alcune lezioni potrebbero naufragare e che occorrerà il buon senso di pazientare allorquando le motivazioni del discente potrebbero manifestare maggiori fragilità.

Quanto sin qui descritto in tema di validazione linguistica si riflette nella complessità dell’insegnamento e dell’apprendimento della lingua italiana come Lingua seconda, in quanto i corsisti stranieri che ob torto collo si trovano a studiare e ad essere esaminati in Europa sono valutati secondo i livelli presenti nel Quadro Comune di Riferimento Europeo. Proprio in virtù di questo modus operandi è emerso che non sempre le competenze, risultato di determinate acquisizioni, sono in grado di procedere allo stesso passo da quello dettato nel QCER. Con ciò si intende dire che il percorso per arrivare all’apprendimento non è soltanto una questione di metodo, tecniche e strategie ma è una ricerca continua e a tratti snervante per far sì che l’apprendente possa trovare un proprio modo di esprimersi in un’altra lingua. Non si potrà parlare quindi di una sola lingua, in quanto la “propria lingua” è l’unica possibile. Una lingua che non è quella parlata o scritta dagli italiani, ma quella che il discente utilizza per esprimere strutture e contenuti della lingua italiana rendendola comprensibile. Il campo d’azione sul quale è possibile misurare il processo di integrazione, assimilazione e manifestazione di tale incontro è dato dall’interlingua: «L’interlingua è il regno delle irregolarità, necessarie alla negoziazione di intenti, significati e modalità espressive adeguate all’esperienza del soggetto. È il luogo dove si manifesta più chiaramente la concezione saussuriana di linguaggio come articolazione che si esplica secondo la modalità dell’interrogazione nei confronti della langue» (Lenci, 2009: 15).

Si potrebbe altresì dire che l’apprendimento della lingua è inserito in una dimensione messianica del tempo, per cui la L1 (lingua materna) e la L2 (una lingua non materna appresa nel Paese d’origine dei parlanti madrelingua) non giungeranno mai, in definitiva, a coincidere del tutto. Questo presupposto porta l’apprendente ad assimilare la lingua seconda nonostante le cosiddette interferenze (termine usato e forse abusato in analisi contrastiva) in quanto la L1 ed L2 agiranno all’unisono e interagiranno facilitando, o quanto meno non si creeranno impedimenti tali da arrestare o impedire, l’apprendimento stesso. La profonda comprensione di questa teoria non può non influire sulla storia professionale del docente e più in generale sulla cultura dell’insegnamento che, per molti anni, è stata cultura dell’omogeneità. Ad un certo punto in Italia ci si è resi conto che non si potevano più dividere meticolosamente le classi di corsisti sulla base di meri criteri linguistici come se fossero tavole di coniugazione, con il modo Indicativo, tempo della certezza, diviso dal Congiuntivo, tempo della probabilità. Difatti i discenti stranieri interagivano fra di loro mentre schiere di educatori, professionisti e non, temevano questo melting pot. «Il dato della diversità (indiani che studiavano assieme a cinesi e arabi) cozzava in modo violento con l’idea di omogeneità, di livellamento, di livelli identici di apprendimento, di ritmi uguali per tutti ma anche di pratiche scolastiche di tipo metodologico/didattico ispirate a principi di uguaglianza e di omogeneità con l’altro» (Compagnoni, 2003: 105).

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da Cidis online

Sulla scia della paura della disomogeneità anni di lavoro didattico si sono irretiti nel pensiero di ciò che “era giusto fare”. Ma purtroppo in molti casi non sempre è stato possibile prendere una decisione giusta da parte dei docenti, e l’apprendimento ha talvolta percorso strade non battute e dai risultati inaspettati a dispetto dei tanti timori e cliché.

Un importante e decisivo piano operativo nell’apprendimento e nell’insegnamento della lingua L2 ci è stato offerto dal “mosaico canadese” – concetto ironico con il quale si indica la società multiculturale del Canada – oggi più che mai preso in esame. Questo modello sviluppatosi negli anni è riuscito ad infondere un senso condiviso di identità e di appartenenza tra le diverse etnie che popolano quel Paese. Peculiarità di questo studio è stata la definizione del lavoro dell’insegnante attraverso il sillabo, nel quale sono gettate le basi delle attività didattiche da svolgere in classe. Il primo incontro one to one tra l’educatore e il discente assume una posizione rilevante rispetto a quello di programmazione antecedente al lavoro in classe, in quanto attraverso di esso si hanno le prime informazioni sugli obiettivi del corsista nonché sulla sua motivazione.  «…many language students (even adults) like to be told what to do, and they only do what is clearly essential to get a good grade — even if they fail to develop useful skills in the process. Attitudes and behaviours like these make learning more difficult and must be changed, or else any effort to train learners to rely more on themselves and use better strategies is bound to fail» (Lessard-Clouston, 1997: 10).

Attraverso queste first impressions l’educatore riesce ad avere un piccolo quadro generale sul singolo corsista e su come gestire la classe. Esistono numerose tipologie di esercizi da poter utilizzare: dalla scelta multipla all’associazione in coppia, dalla ricostituzione dell’ordine sintattico di frase alle domande a breve risposta aperta, dai close alle composizioni scritte ed orali. L’importante è che l’insegnante abbia la consapevolezza necessaria nel cercare di studiarli, dosarli e di migliorarli nel caso non diano i risultati sperati. Impegnativo inoltre sarà creare in ogni lezione un piccolo traguardo da raggiungere in modo che tutti (soprattutto per i discenti adulti) possano trarre motivazione dai progressi, anche piccoli, compiuti. Bisogna considerare che il docente non può ignorare i comportamenti, le azioni, le culture di provenienza, l’analisi dei vissuti quotidiani dei suoi corsisti né tantomeno evitare di raccontarsi, perché tutto ciò, oltre a facilitare una comunicazione efficace, favorisce la relazione con i propri discenti e dunque il clima d’aula. Questo, insieme al decentramento dei punti di vista personali, è la chiave fondamentale per aprire spazi nuovi alla conoscenza di sé e dell’altro, al di là di qualsiasi accordo economico, finanziario e monetario stabilito dai Governi e dalle Istituzioni comunitarie.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
 Note
[1] L’ipotesi Sapir-Whorf prende il nome da Edward Sapir antropologo statunitense e Benjamin Lee Whorf ingegnere chimico che lavorò come ispettore di una compagnia assicurativa e coltivò un interesse per la linguistica. Entrambi studiarono a Yale a partire dal 1931 ed il loro assioma, altresì conosciuto come ipotesi della relatività linguistica”, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare.
[2] Diglossia è un sostantivo femminile che etimologicamente deriva dal greco ed è formato dal prefisso di- e da glossa che significa lingua. Essa rappresenta una situazione di bilinguismo imperfetto che implica la presenza di due idiomi che non hanno la stessa valenza politica, sociale e culturale, e che quindi vengono utilizzati a seconda del contesto
 Riferimenti bibliografici
P. Balboni, Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse, Utet, Torino 2015.
G. Berruto, Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche, in Sobrero A. A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. Le variazioni e gli usi, Laterza, Roma-Bari, 2014: 37-92
E. Compagnoni, Implicazioni dell’approccio pedagogico interculturale nella formazione degli insegnanti, La Meridiana, Molfetta 2003: 105.
R. Gallisot, A. Rivera, L’imbroglio etnico. In quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001.
M. G. Lenci, La scrittura in L2/LS: una prospettiva interculturale per lo sviluppo dell’identità, in “Lingua nostra, e oltre”, marzo 2019:14-20.
Lessard-Clouston, Language Learning Strategies: An Overview for L2 teachers, Kwansei Gakuin University, December 1997:7-11
C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, Il Saggiatore, Milano 1983.
A. Nanni, H. Weldemariam, Stranieri come noi, Emi Bologna 1994.
G.B. Pellegrini, Saggi di linguistica italiana: storia, struttura, società, Boringhieri, Torino 1975.
L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, Rizzoli Milano 1964.
R. Titone, Psicodidattica, La Scuola, Brescia 1977.
A. Todisco, Ma che lingua parliamo. Indagine sull’italiano di oggi, Longanesi, Milano 1984.

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Valeria Iannazzone, giovane laureata in Lingue e Culture Moderne, presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, attualmente docente di italiano come Lingua Seconda per immigrati adulti. E’ in possesso del diploma DITALS sia di primo che di secondo livello.

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