di Chiara Dallavalle
La guerra è forse l’unica attività umana che, per sua stessa natura, produrrà con certezza delle vittime. Che si tratti di difendere il proprio territorio, competere per delle risorse oppure semplicemente voler affermare la propria sete di potere, qualunque conflitto avrà un costo più o meno elevato in termini di vite umane. Siamo ormai abituati a confrontarci con immagini di uomini e donne massacrati dall’avanzare degli eserciti, civili sterminati da bombardamenti e armi di distruzione di massa, e migliaia di profughi costretti ad abbandonare i luoghi teatro del conflitto. L’impostazione totalmente antropocentrica con cui ci accostiamo al dramma della guerra ha finora misurato il costo dei suoi effetti funesti esclusivamente in termini di vite umane, o comunque in relazione ad attività prettamente umane. Quando si menzionano ad esempio i danni causati dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, ci si riferisce soprattutto alla distruzione di abitazioni civili e di vaste aree produttive, oppure alla perdita di edifici di elevato valore storico ed artistico, quali chiese, monumenti, teatri e via dicendo.
Tuttavia, questa visione, per quanto drammatica, oggi mostra tutta la propria parzialità e per questo va sottoposta ad una riformulazione radicale. Per la prima volta nella storia appare una nuova vittima, incapace di proferire alcun lamento ma non per questo meno martoriata: l’ambiente. L’impatto devastante della guerra sui contesti naturali è stato finora lasciato in secondo piano rispetto al prezzo pagato dalle vite umane, ma oggi finalmente l’interconnessione tra questi due ambiti inizia ad emergere in tutta la sua drammaticità. Ambiente e uomo sono sempre più strettamente legati, e se la guerra porta a distruzioni ambientali di massa, anche l’uomo non può che risentirne pesantemente.
Risalendo indietro nel tempo, possiamo dire che l’attività bellica abbia da sempre influenzato negativamente i contesti naturali. Una delle strategie più utilizzate in antichità per prevalere sul nemico consisteva nel compromettere il suo approvvigionamento idrico e alimentare, obiettivo che veniva raggiunto bruciando i campi e inquinando le falde acquifere. Con il trascorrere del tempo, la macchina bellica ha perfezionato gli strumenti a propria disposizione, peggiorando di conseguenza anche gli effetti deleteri sull’ambiente.
I primi veri disastri ambientali, perpetrati più o meno consapevolmente, si sono avuti durante la Seconda Guerra Mondiale. Pochi sanno ad esempio che nell’Europa teatro di guerra nel Novecento venne operata la distruzione di intere foreste e campi coltivati per far posto a basi militari, oltre che per approvvigionare di legname l’indotto militare. Il deturpamento del paesaggio è stato inoltre il danno secondario, ma non per questo meno devastante, dei bombardamenti a tappeto operati dall’aviazione alleata, oppure dell’azione deliberata delle truppe tedesche in fase di ritirata per sottrarre ogni tipo di risorsa alimentare al nemico in arrivo. Ma questo non è nulla a paragone dei danni ambientali inflitti agli habitat dell’Oceano Pacifico nello stesso periodo. Nel momento in cui sia gli USA che il Giappone entrarono nel conflitto, la guerra si estese a zone ancora incontaminate, e che furono pertanto spaventosamente deturpate. Molti degli avamposti militari giapponesi erano infatti situati in piccole isole rimaste fino a quel momento quasi completamente isolate dal resto del mondo, e per questo sede di ecosistemi unici e particolarmente fragili.
La conquista di questi atolli da parte delle truppe americane portò ad una distruzione ambientale totale di questi habitat: foreste intere vennero abbattute per costruire campi di aviazione per velivoli militari, e la stessa sorte toccò alle delicate barriere coralline eliminate per far posto a banchine per l’attracco delle navi da guerra. Per non parlare nelle tonnellate di iprite, un’arma chimica particolarmente usata a quel tempo, e di gasolio rilasciate irresponsabilmente in mare. Molti fondali marini sono ancora oggi compromessi a causa di quelle scellerate azioni (Lanier-Graham 1993, in Swintek 2006). Credo poi non ci sia bisogno di menzionare l’impatto tragico sull’ambiente delle bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki, perché è facilmente intuibile che il costo in vite umane sia andato di pari passo a quello di interi habitat naturali, con milioni di piante e animali distrutti nello spazio di pochi minuti.
Questo rapido excursus dà già una idea abbastanza precisa di come la guerra implichi inevitabilmente la devastazione più o meno totale dell’ambiente naturale in cui si attua. Tuttavia, è solo dalla guerra in Vietnam in poi che la distruzione ambientale divenne una vera e propria strategia di guerra. Il Vietnam costrinse le truppe americane a confrontarsi con un nemico invisibile, che allo scontro aperto prediligeva la guerriglia, forte di una profonda conoscenza del proprio territorio. La risposta americana fu quindi quella di eliminare l’elemento che consentiva ai vietcong di muoversi nell’invisibilità: le foreste. Questo venne realizzato attraverso l’uso massivo di napalm e Agent Orange, due sostanze letali che causarono la distruzione di migliaia di ettari di foresta e l’estinzione di innumerevoli specie animali. Ancora oggi gli effetti di questo genocidio naturale sono visibili in molte zone del Vietnam in cui l’assenza di alberi ha causato importanti fenomeni di erosione mentre la presenza di agenti inquinanti nel suolo ne hanno provocato l’infertilità. Dal Vietnam in poi la distruzione ambientale è purtroppo divenuta una strategia bellica sempre più diffusa, come il caso della Guerra del Golfo e del massivo inquinamento causato dalla politica militare di Saddam Hussein testimoniano tristemente.
Ma quali sono esattamente i danni ambientali provocati dalle guerre contemporanee? L’impatto maggiore delle attività belliche sull’ambiente è la consistente perdita di biodiversità. Questo è il prodotto di diversi fattori che purtroppo tendono a sommarsi, amplificandone gli effetti finali. Innanzitutto, l’attività bellica richiede l’impiego di consistenti materie prime, di cui il legname è una delle principali. Il legno viene massivamente utilizzato sia per la costruzione di strutture temporanee di appoggio alle truppe, sia per l’innesco di incendi per scopi militari. Questo porta al sacrificio di aree estremamente vaste di foreste, con la conseguente perdita degli ecosistemi in esse ospitati. Infatti, la distruzione del patrimonio boschivo fa sì che molte altre specie animali e vegetali perdano il proprio habitat e siano quindi maggiormente esposte al rischio di estinzione.
La biodiversità è minacciata anche dall’utilizzo sempre più frequente di armi chimiche e biologiche, le cui sostanze tossiche penetrano nel terreno e nelle acque inquinandole diffusamente. La contaminazione di suolo e falde acquifere perdura per tempi molto lunghi anche dopo la fine del conflitto e questo spesso rende la vita impossibile in questi luoghi. A questo si aggiunge il degrado del territorio causato dal passaggio di mezzi militari pesanti, dai bombardamenti e dalla devastazione deliberata del paesaggio da parte degli eserciti come azione ritorsiva nei confronti del nemico.
Il caso della guerra in Ukraina è emblematico in tal senso. La regione del Donbass, coinvolta nel recente conflitto armato, è al centro di una catastrofe ambientale iniziata nel 2014. Si stima che siano stati devastati oltre 500 mila ettari di ecosistemi e 150 mila ettari di foreste, oltre all’inquinamento di ampie porzioni di territorio e di corsi d’acqua. La crisi ambientale del fiume Dnipro, originata dalla distruzione della diga di Kakhovka, è soltanto un terribile esempio delle conseguenze ambientali del conflitto, conseguenze che probabilmente si protrarranno per decenni se non addirittura secoli anche dopo la cessazione delle ostilità.
Anche l’aria viene pesantemente inquinata dalle attività belliche. Gli incendi di legname e di altri combustibili fossili causano il rilascio di elevate quantità di Co2 nell’atmosfera, contribuendo all’incremento di problemi respiratori nella popolazione. Inoltre, l’esplosione di bombe e missili provoca la liberazione di polveri sottili e di altri agenti particolarmente inquinanti, che peggiorano la qualità dell’aria con un impatto non solo sulla salute degli uomini ma anche su quella degli animali. A questo si aggiunge il fatto che la produzione di elevate quantità di Co2 legate all’utilizzo di veicoli e altri strumenti bellici (aerei, carrarmati, navi etc.) accelera in modo significativo il fenomeno dei cambiamenti climatici. Rispetto a questo tema, va detto che petrolio e gas vengono consumati in grandi quantità sia per le esercitazioni militari sia durante gli scontri diretti:
«Per avere un’idea dei consumi dei mezzi militari, un carro armato leggero consuma 300 litri di combustibile per 100 chilometri e immette oltre 600 kg di CO2 in atmosfera. Un caccia F-35 utilizza oltre 400 litri di carburante ogni 100 chilometri e immette in atmosfera un’enorme quantità di anidride carbonica: circa 28.000 chilogrammi per ogni missione di volo» (Lorenzoni 2022).
Per concludere, visto l’impatto profondo e devastante sull’ambiente della guerra, la domanda da porsi è: ne vale la pena? Oggi fortunatamente iniziamo a guardare ai conflitti armati con maggiore preoccupazione proprio alla luce dei cambiamenti climatici. L’ambiente non è più lo sfondo neutro sul quale possono andare in scena indisturbate le azioni umane. Al contrario ogni attività umana che porta a delle conseguenze ambientali va soppesata con attenzione, chiedendosi quale effetto avrà nel breve e nel lungo termine. È ormai chiaro che il futuro dell’ambiente è anche il futuro dell’uomo, e non vi sarà possibilità di sopravvivenza del genere umano se non verrà preservato il contesto naturale che gli fornisce le risorse vitali. Per questo i conflitti del presente appaiono ancora più miopi di quelli del passato, perché non soltanto chiedono un tributo sempre troppo alto in termini di vite umane, ma amplificano esponenzialmente l’impatto dei cambiamenti climatici sul paesaggio, rendendo l’esistenza dell’uomo ancora più precaria e a rischio. Ne vale davvero la pena?
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Riferimenti bibliografici
Hupy, J.P. 2008, The Environmental Footprint of War, in Environment and History, Vol. 14, No. 3 (August 2008): 405-421.
Lanier-Graham, S. D. 1993, The Ecology of War: Environmental Impacts of Weaponry and Warfare, New York: Walker Publishing Company, Inc.
Lorenzoni, S. 2022, Risorsa online https://www.thegoodintown.it/limpatto-ambientale-della-guerra/
Swintek, P. 2006, The Environmental Effects of War. Student Theses 2001-2013 Environmental Studies
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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