il centro in periferia
di Pietro Clemente
Con il nostro lavoro sul Riabitare l’Italia vogliamo dare centralità alle periferie mentre purtroppo siamo nel mezzo di una nuova ondata di Covid con numeri spaventosi di contagio. Eravamo forse tutti convinti che dopo maggio non sarebbe più successo. Tanto che anche i nostri pensieri, i nostri articoli, si stavano organizzando sul dopo la pandemia. Tenendone conto sì, ma guardando avanti. Invece ci siamo ancora dentro, e il dopo, quando sarà, sarà ancora più difficile.
Il virus sta colpendo alcune grandi città che sono roccaforti dell’identità plurale dell’Italia: Milano e Napoli per tutte. Ma sta colpendo anche, per via di processi lunghi e complessi di trasmissione indiretta, anche quelle periferie nelle quali spesso si sono riversati durante l’estate nuovi turisti e, sul rilancio delle quali, la nostra riflessioni andava costruendosi. Questa fase avrà una sua fine, ma non sappiamo come sarà. Le nostre riflessioni torneranno a guardare oltre, ma non sappiamo che cosa sarà successo nel frattempo e quale bilancio trarre della fase che stiamo vivendo.
Stiamo imparando a vivere nel terremoto? Forse no. Difficile in questo scenario accettare il ritorno in scena degli ‘opposti estremismi’ con i conflitti con la polizia nelle strade e nelle piazze. Anche se tutto è possibile in un scenario in cui Stato, Regioni e comuni continuano ad esprimere incredibili livelli di stonatura corale. Di anarchia dei poteri, di protagonismo soggettivo dei governatori, di incapacità di dialogo e di fare rete, di ‘anarchismo feudale’ si sarebbe detto in passato.
Ritroviamo il tema del lutto. Si torna a morire anche nelle Case di Riposo. L’immagine stessa dell’Italia felice perché longeva, perché animata da un welfare legato alle generazioni, perché capace di offrirsi e offrire cibi e ambienti di vita salubri, sta franando. Ed è difficile dire quel che ancora e sempre ci connette con il verso di Ungaretti sulla Grande Guerra (alla fine della quale ci fu la grande pestilenza battezzata ‘spagnola’): Nel mio cuore nessuna croce manca.
L’incubo dei camion militari che portano via le bare a Bergamo resta nella letteratura enfatica e retorica di questi giorni, accompagnato da nuove espressioni tecnico-gergali, una fioritura di anglismi e di neologismi che continua a crescere con i numeri dei positivi al ritmo alla pandemia. Non ce la facciamo a porre tutte le croci di questo tempo nel cuore. Avevo a suo tempo provato ad inseguire la memoria dei morti nelle pagine commoventi di un numero del Corriere della Sera che aveva pubblicato i profili di tanti uomini e donne scomparsi. Avevo letto le loro brevi storie, cercato i sardi e i toscani, i coetanei e i vicini di età, gli omonimi, così da sentirmi più vicino. Non ho trovato più nulla di simile sulla stampa. Così pochi giorni fa ho seguito un’altra traccia per potere lasciare altre croci pensate umanamente, interpretate e capaci di segnare anche il ricordo.
Filemone e Bauci
«Quando le due parti di una coppia che è stata insieme per tutta la vita vanno incontro alla morte l’una dopo l’altra. come se non volessero riposarsi in solitudine neanche un po’, si entra nel territorio dell’insondabile, che è quello di competenza dell’amore. Nel caso di Lea Vergine e di suo marito Enzo Mari, siamo oltretutto lontanissimi da ogni modello tradizionale» (Massimo Gramellini, Il Corriere della Sera, 21/10/2020).
Mi ha molto colpito la storia di questi due intellettuali ottantenni, una coppia di lunga data, morti insieme al San Raffaele di Milano. Lui con il design moderno, il legame con Ludwig Mies van der Rohe e il neorazionalismo, è stato anche parte di una cultura che ho condiviso da giovane sull’architettura e sul design. Il suo sguardo d’architetto è entrato nella vita quotidiana: molte sedie di casa nostra, molte posate sono frutto dei suoi disegni. Lei altera e compenetrata nella sua figura di donna dell’avanguardia, introdusse già nel 1974 il tema della Body art, che ho scoperto almeno venti anni dopo. Lei che muore 24 ore dopo di lui. Non sappiamo se vicini e consapevoli o solo come due anziani intubati tra i molti. Anche questo per me è un modo di ricordare. O forse di contenere nella nostra coscienza, ormai universalista, l’orrore di questa valanga di morti. Come è possibile pensare a quelli che affrontano la pandemia negli USA, in India, in Brasile: ogni tanto lo puoi fare pensando a qualcuno che conosci e che sta in quei luoghi col quale condividi il disagio a distanza: mia nipote a Leuven, l’amico collega antropologo a Barcellona…
Questo spunto di Gramellini mi ha portato a cercare queste storie su web. Mi ha ricordato che Giorgio Amendola e la moglie parigina Germaine morirono a brevissima distanza, prima lui e poco dopo lei (col sospetto di un suicidio), come avvenne per il grande antropologo britannico James Frazer e sua moglie, Elizabeth, la francese. Anche Lea Vergine è morta subito dopo il suo compagno. Figure quasi leggendarie. Seguire le tracce sul web fa scoprire un mondo. Forse un altro modo per far diventare persone le tante e cieche immagini dei morti-numero. A Castelcovati in provincia di Brescia Rosanna e Giovanni, più giovani di me e di mia moglie, morti insieme. Ad Aosta Lilliana ed Ezio, a 24 ore di distanza come Lea Vergine. Lui appena più grande di me, lei un po’ più giovane. A Ghedi, ancora in provincia di Brescia, Franca e Sandro; Graziano e Patrizia invece a Figline Valdarno. Un’altra coppia a Mezzojuso, un’altra a Long Beach Jerry e Frances. I viaggi sul web sono spesso geograficamente confusi.
Ma inoltrandomi in questi elenchi di morte mi rendo conto che l’impostazione di Gramellini è sbagliata. Sono le morti come quelle degli Amendola e dei Frazer che rientrano nella categoria delle morti mitiche, quelle legate alle figure di Filemone e Bauci delle Metamorfosi di Ovidio. Una storia, la loro, di ‘teoxenia’, che mostra l’umanità di questa umile coppia di anziani che in Frigia dove gli dèi (Zeus e Mercurio) giravano di casa in casa chiedendo un’ospitalità che veniva loro negata, offrirono quanto di meglio avevano. Gli dèi, rivelatisi e grati, si offrirono di ricambiare con un grande dono. Essi chiesero di poter morire insieme e alla loro morte divennero come due alberi, una quercia e un tiglio fusi in un solo tronco. Un racconto bellissimo di accoglienza e di umiltà, ma anche di morte solidale, che forse tutte le coppie hanno in mente. Certo anche io.
Ma il problema è che Lea Vergine ed Enzo Mari sono morti per il coronavirus e non per un dono degli dèi, e così Rosanna e Giovanni, Franca e Sandro, Graziano e Patrizia, diversamente dai Frazer e dagli Amendola. Il vero nodo è la morte che colpisce gli anziani, i miei coetanei. Anche se il Covid 19 ci dà la chance di morire in coppia, noi preferiamo sopravvivere e morire insieme in un modo diverso da quello della pandemia. E quindi la morte di Lea e di Ezio va vista non col romanticismo dei due alberi in un solo tronco, ma con la rabbia di un sistema che non difende abbastanza gli anziani. Tanto che i figli di alcune di queste coppie, morte insieme nel silenzio, e senza l’abbraccio dei propri cari, hanno fatto causa agli ospedali per capire se è stato fatto tutto per tutelarli. C’è un sistema sanitario che non li difende abbastanza e un sistema informativo che non li racconta, se non per qualche caso più eclatante, e tende a trascurare, se non nascondere, la centralità di questa classe di età in un tempo che è stato anche definito come epoca dei nonni.
Morti da ricordare per rivendicare uguaglianze, diritti, tutele. Intanto ci affidiamo alle pratiche di lutto possibili nel tempo della chiusura e della lontananza, che si svolgono in gran parte sui social, su Facebook, su Whatsapp. Luoghi dove ancora è possibile il cordoglio comune e costruire comunità di ricordo e di pianto.
In questo scenario scrivo dunque questo editoriale, forse più una meditazione, sui contenuti de Il centro in periferia. Forte di questa suggestione, mi pare giusto dire che, nonostante il loro numero statisticamente rilevante e quasi determinante per i nuovi modi della genealogia e della famiglia, gli anziani sono ancora invisibili. Sono quella periferia che ha bisogno di essere posta al centro, per capire in modo più chiaro una società travolta dalla pandemia e vista con gli occhi di una generazione di mezzo che vede corpi e non storie, farmaci e non generazioni. La medicina è un problema di coscienza di luogo, è un riabitare in modo diverso la vita, un organizzarsi per aderire alla terrestre vicenda degli esseri umani e migliorarla. Come il PIL rende opaca la vita reale delle persone così l’approccio all’economia pensato come se i soggetti fossero solo individui senza relazioni, non avessero nonni o nipoti né età, nasconde il vero stato del mondo. Medicina territoriale, telemedicina, presìdi medici nelle zone interne, sono modi di pensare in termini di coscienza di luogo e di riabitare l’Italia. Congeniali al senso della sopravvivenza degli anziani, e del senso profondo di essa, anche di me stesso e di tutti noi anziani. Mi è capitato di connettere in un post su Facebook anche il libro curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi, Noi partigiani. Un memoriale della Resistenza, Feltrinelli, 2020) con questi temi, essendo un libro fatto da voci che stanno sul confine della vita:
«Sono voci di anziani, e sono anche per questo una risposta al virus e alla trascuratezza della nostra civiltà al mondo dei longevi, che considero una avanguardia del futuro e un segno di una nuova forma di vita e di rapporto tra le generazioni. Gli anziani devono vivere: sono la nostra frontiera sia col passato che col futuro».
“Il Centro in periferia” è una sezione della rivista nata con il n. 27 del 2017, dopo alcune collaborazioni avviate nel 2016. Con il numero di gennaio 2021 festeggeremo i 20 numeri, e i 4 anni di collaborazione con Dialoghi Mediterranei, il suo staff e il suo direttore Antonino Cusumano. Nonostante il tempo precario la vita va avanti. Lo spettacolo resta in scena. Quel che oggi è fuori della cornice più prossima resta nel tempo più lungo. Va pensato nella durata di un anno o di due, durata che dobbiamo tenere presente per cominciare a fare rete di nuovo anche fisicamente, e per trasformare di nuovo i mondi virtuali nei mondi sociali e reali che erano stati. Alla fine dell’anno più drammatico del nuovo secolo aprire “Il centro in periferia” del n.46 è quasi una nuova inaugurazione, un rito propiziatorio.
Ad inaugurare sono assai pertinenti i due primi testi, di Leandro Ventura e di Sandro Simonicca che aprono temi nuovi e lanciano nuove discussioni e proposte comuni. Sandro Simonicca indaga il tema del turismo in rapporto al mondo delle zone interne. Un tema sul quale ero tornato più volte negli editoriali, per suggerire la centralità di una gestione adeguata e attenta del turismo nel mondo delle piccole realtà locali, dove questa dimensione viene vista per lo più tra timore e speranza, come evento meteorologico più che come un insieme di fenomeni da programmare e gestire. Sandro Simonicca indica le coordinate per riflettere sul turismo in modo antropologico, e per pensarlo come fenomeno che si può e si deve cercare di padroneggiare. E contiamo che questo dibattito continui anche nei prossimi numeri della rivista.
Leandro Ventura, anche per la sua posizione di riferimento nel Ministero dei beni culturali, ci apre e guida invece nel tema ormai istituzionale della Convenzione di Faro 2005, approvata da circa un mese da parte del Parlamento italiano, 15 anni dopo la sua nascita. Questa convenzione dunque, insieme con quella Unesco del 2003 sul Patrimonio Immateriale, diventerà parte del nostro sistema legislativo.
La sua approvazione è stata lentissima, e si intuisce che il sistema pubblico basato sulle Soprintendenze non ha visto di buon occhio il ruolo che si dà alle comunità di eredità in questa Convenzione. E anche il mondo tradizionale della storia dell’arte è ostile a questa idea. Non a caso una sparata contro la legge appena approvata è arrivata dalla opposizione di destra in Parlamento:
«Dopo l’approvazione a Montecitorio, diversi esponenti di Fratelli d’Italia e della Lega, inclusi i rispettivi leader Giorgia Meloni e Matteo Salvini, si sono scagliati contro questa convenzione, sostenendo che si tratti di una “resa culturale” e che ci sia “il rischio di dover censurare statue e opere d’arte”, in quanto potrebbero “confliggere” con la “sensibilità” di altre culture, vedi quella islamica» (https://pagellapolitica.it/blog/show/787/la-destra-sbaglia-sulla-convenzione-di-faro-le-opere-darte-ora-non-rischiano-nessuna-censura). La Convenzione che da anni attendevamo per il tema centrale delle comunità di eredità, che la caratterizza e apre alla gestione del patrimonio dal basso, è stata invece interpretata per un paragrafo meno rilevante che ripete temi che fanno parte del bagaglio generale della normativa internazionale. Con relativi attacchi di Sgarbi: «Sgarbi tuona contro la Convenzione di Faro: “Una schifezza del politicamente corretto”» (Il primato nazionale).
Sulla rivista di destra Il primato culturale si vede come elemento portante della Convenzione una sorta di relativismo della comunicazione visiva e dell’arte , dove si parla di «protezione degli altrui diritti o libertà» e di «procedimenti di mediazione per gestire equamente le situazioni dove valori contraddittori siano attribuiti allo stesso da comunità diverse» e ci si domanda quali siano i “valori contraddittori” rappresentati ad esempio dal David di Michelangelo tali da dover sottoporre il nostro patrimonio artistico a “limitazioni necessarie”. E soprattutto, quali sarebbero le “comunità diverse” che in Italia potrebbero sentirsi offese di fronte a un De Chirico, a un Canova o Guttuso (https://www.ilprimatonazionale.it/).Viene letta insomma in chiave di critica della ‘assolutezza dei valori dell’arte occidentale’, e nemmeno ci si accorge che il cuore della Convenzione sta tra noi, nelle ‘nostre’ comunità di eredità. Un tema che, se fosse più attenta, potrebbe interessare anche la destra. Leandro Ventura ci guida nei valori reali di questa nuova dimensione legislativa, che non hanno nulla a che fare con quanto detto dalla destra politica, ma hanno al centro il tema della partecipazione, della responsabilità, delle comunità: «il riconoscimento dell’eredità culturale da parte delle comunità diventa fondamentale proprio per assegnare il corretto valore alle eredità stesse. È una delle forme di cessione di potere da parte della Pubblica Amministrazione previste dalla Convenzione». Esplicita è la richiesta di modificare il Codice dei beni culturali, di carattere fortemente ‘materialista’ con la dimensione del patrimonio immateriale che nella Convenzione di Faro è centrale.
SNAI e cooperative di comunità
L’intervento di Marco Leonetti apre un fronte di contributi che vengono dalle esperienze della aree territoriali della Strategia Nazionale Aree Interne. Si tratta di un resoconto e di una riflessione che fa entrare il lettore nel mondo delle amministrazioni locali che cercano di mettersi in rete con fatica, che sono sollecitate a condividere temi comuni, senza averne l’abitudine, e rende concreto l’orizzonte progettuale delle esperienze SNAI e al tempo stesso mette in luce le difficoltà di farlo diventare operativo. Anche su questi temi speriamo di poter ospitare nuovi interventi.
È una novità la presenza di due articoli di presentazione di ‘cooperative di comunità’ in due regioni diverse, in Sardegna a Fluminimaggiore (Marco Corrias), e in Toscana a Murlo (Filippo Lambardi). Le cooperative di comunità, di recente diventate forme di cooperazione basate sulla erogazione di servizi comunitari, hanno molto a che fare con le ‘comunità di eredità culturale’ della Convenzione di Faro. Ne sono forme possibili quando i servizi sono anche valori del territorio, forme della cultura locale, modi di vivere. In queste cooperative la centralità della cura degli anziani e dell’offerta di accoglienza ad essi, sembra anche rispondere alla crisi drammatica delle RSA nella pandemia. È un settore che vorremmo seguire e discutere e sollecitiamo l’arrivo alla rivista di altri esempi e resoconti.
Lo scritto di Francesco Faeta, apre a un altro scenario, una sorta di storia dei piccoli paesi, della quale Lacedonia (Avellino), fotografata da Cancian negli anni ’50, è un caso paradigmatico. Separata dal dibattito antropologico degli anni del dopoguerra, e riletta in una chiave di storia della cultura e dell’immagine, la vicenda dei ‘villaggi’ oggetto di studio, sembra aprirsi a nuove visibilità. Francesco Faeta ci invita così alla mostra Un paese del Mezzogiorno italiano. Lacedonia (1957) che si tiene al Museo delle Civiltà (MuCiv) di Roma e l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI) del MiBACT, con il patrocinio della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC), della Società Italiana per lo Studio della Fotografia (SISF), della U.S.-Italy Fulbright Commission, del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma 3, della Fondazione “Un paese” di Luzzara (RE), del Museo Etnografico di Morigerati (SA).
Tra gli altri contributi quello di Francesco Erbani, riprende il tema della città e della metropoli, avviato nel numero scorso dallo scritto di Alessandra Micoli su Milano. Il rapporto città-aree interne è da sempre al centro della riflessione dei territorialisti. E anche in queste pagine si è detto che occorre conquistare culturalmente la città perché abbia senso riabitare le zone interne in un dialogo tra città da alleggerire e periferie da incrementare. Ma lo scritto di Erbani (come quello della Micoli) è bene leggerlo come ‘decostruzione della città’, lettura di essa da altre angolature, smontaggio della città nei pezzi che talora la fanno simile ai paesi o alle imprese innovative dei nuovi abitanti di essi. La mostrano come un laboratorio ricchissimo. È stato anche teorizzato un modello di città fatto di agricolture interne, di reti nuove non centrate sulla crescita di una urbanizzazione densa. Il testo di Emanuela Rossi porta a “Il centro in periferia” la problematica antropologica delle nuove feste e identità dei paesi, e benché, in parte nella forma dell’intervista a un sindaco, è un contributo alla lettura dinamica del campo della antropologia del patrimonio culturale.
I contributi di Settimio Adriani con Giacomo Pasquetti e Lavinia Susi, quelli di Cinzia Costa, Angelo Cucco, Nicola Grato, Corradino Seddaiu, messi qui in ordine alfabetico, mi permetto di non commentarli singolarmente, anche se alcuni autori intervengono nelle nostre pagine per la prima volta. In questi testi c’è il clima del nostro ‘seminario costante’ sui piccoli paesi, un clima familiare, in cui ci scambiamo notizie dal fronte. Come in una veglia in cui ci sono alcuni ospiti fissi, che sono anche, in parte, i nodi della rete dei piccoli paesi. Con loro cresce la rivista in questa sezione e loro sono anche gli indici del vento che tira nelle realtà locali. Semplicemente li ringrazio della loro presenza.
Mi scuso invece per non avere ancora dato conto dei miei viaggi tra fine agosto e primi di ottobre che mi hanno portato a conoscere Fiamignano e Berceto, e a tornare a Paralup. Ho imparato un bel po’ di cose (l’antropologia è un mestiere che non si smette mai d’imparare) e in parte ne darò conto in un articolo sulla rivista dei territorialisti (Scienze del Territorio), ma raccontarle qui in dialogo con le altre non mi è stato ancora possibile, anche per le difficoltà sempre maggiori a girare per il mondo dei piccoli paesi. Come se troppo tardi mi fossi reso conto di quale incredibile diversità accompagni ogni luogo che si visita, di quale ricchezza vi si trovi, di quale sguardo sul mondo si possa avere da quelle svariate angolature. Tra i paesi della rete c’è però una buona notizia: a Ittireddu, nelle elezioni di pochi giorni fa, ha prevalso la lista che sosteneva il sindaco Franco Campus, protagonista di una amministrazione che punta molto sulla cultura, archeologo, direttore di un museo di grande rilievo, animatore anche della apertura a Ittireddu di Ammentos. Archivio memorialistico della Sardegna. Lo aspettiamo con un articolo in queste pagine e gli facciamo complimenti e auguri.
Segnalo infine l’uscita di alcuni volumi che spero potremo presentare nel prossimo numero:
Gustavo Alàbiso, Immagina Riesi, a cura di Laura Cappugi e Gaetano Pennino, Centro regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione grafica, fotografica, aerofotografica, audiovisiva, Regione Sicilia, Palermo, 2019.
Luca Bertinotti, a cura di, Da borghi abbandonati a borghi ritrovati, Atti accresciuti del Convegno omonimo di Pistoia del 2018 promosso dalla “Associazione ‘9cento”, Aracne, Roma, 2020, pp.670.
Nicolò Fenu (a cura), Aree interne e Covid, LetteraVentidueedizioni, Siracusa 2020
Del numero della “Rivista della Società dei territorialisti” che uscirà a breve diamo qui in conclusione l’avviso che compare sul sito, insieme a un primo articolo già apparso sul tema Scienze del territorio e Covid. Ne voglio dare ampia notizia perché riflette il clima difficile e doloroso delle nostre imprese culturali in questo tempo complicato:
Cari Colleghi e Amici,
la pandemia del coronavirus ha stravolto le vite di molte persone, comunità e famiglie. Il Comitato scientifico, il Comitato editoriale, la Redazione e tutti i corrispondenti nazionali e internazionali della Rivista Scienze del Territorio sono vicini a coloro che hanno perso persone care e a tutti quelli che sono in prima linea nella cura degli ammalati. Il pensiero non può non andare ai tanti lavoratori della sanità che hanno dedicato e stanno dedicando tempo, a rischio della propria vita, per alleviare le pene di chi sta soffrendo a causa del Covid-19.
In breve tempo lo spazio possibile del mondo si è ristretto allo spazio obbligato della casa, generando un contro-esodo che sta svuotando metropoli e città verso le campagne e i territori interni. La pandemia sta costruendo una nuova mappa mentale dove i luoghi del desiderio sono rarefatti, ricchi di ambiente e di facilità di accesso al cibo, dove la salubrità territoriale viene anteposta alla crescita economica.
Sono temi a cui la nostra Rivista ha dedicato da sempre la sua attenzione e continuerà a farlo con il nuovo numero speciale dal titolo (riformulato) “Abitare il territorio al tempo del Covid”, cui si riferiva la call indicata sotto e scaduta il 15 Luglio.
Le attività di tutti i redattori della Rivista sono ovviamente rallentate a causa del virus. Come tutti stiamo lavorando per lo più in remoto, ma continuiamo a svolgere il nostro lavoro, con la ricezione degli articoli, la valutazione e la realizzazione dei fascicoli. Restiamo come sempre a disposizione dei nostri autori e dei nostri lettori per tutte le loro necessità; e speriamo che questa apertura dello sguardo su un futuro diverso contribuisca in qualche modo ad avvicinarlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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