Caro Direttore,
circa un anno fa Dialoghi Mediterranei (n. 46, novembre 2020) ha ospitato un mio breve pezzo – più uno sfogo che una riflessione sistematica, a dire il vero – sulle carenze nella formazione di base degli studenti universitari; in particolare nel campo delle abilità linguistiche e di scrittura. Nella mia esperienza, una buona maggioranza degli studenti iscritti a corsi di laurea triennale nei campi umanistici (cioè corsi che dovrebbero avere nella padronanza linguistica il loro punto di forza) non appare in grado di esprimere per iscritto (spesso anche oralmente) le proprie idee, o i contenuti appresi nello studio, in modo chiaro, comprensibile e corretto. La cosa che mi colpiva di più è che questo problema, che è enorme e basilare rispetto a ogni più specifico aspetto della didattica universitaria, è ben conosciuto da chi nell’università lavora, ma quasi mai è tematizzato, né sembra che si faccia nulla per affrontarlo (non dico risolverlo). Ma neppure per misurarlo: i test di ingresso valutano le competenze linguistiche passive (comprensione di un testo etc.) ma non quelle attive. Col risultato che persone che non sanno parlare e scrivere correttamente in italiano sono ammesse all’università, superano esami e si laureano – imparando magari contenuti specifici ma senza migliorare la loro competenza di base.
Se questo è un problema generale, come v’è ogni ragione di credere, la conseguenza è evidentemente una svalutazione radicale dei titoli di studio nel campo umanistico e delle scienze sociali, e la perdita di filtri di qualità nel reclutamento di professioni cruciali come quella di insegnante. Ma vi è una conseguenza ancora più importante: la progressiva scomparsa del ruolo di ascensore sociale della formazione scolastica e universitaria, e del successo scolastico come riequilibratore delle differenze di classe. Quest’ultimo punto può apparire forse meno evidente, dal momento che siamo abituati a pensare – a partire almeno dal celebre studio di Bourdieu e Passeron sulla riproduzione – che al contrario sia la disuguaglianza sociale a influire sul successo scolastico. Il che è senz’altro vero, in modo tendenziale; ma è altrettanto vero, per usare ancora il linguaggio di Bourdieu, che nella società contemporanea la scuola e l’università sono i principali strumenti attraverso i quali è possibile compensare il capitale culturale ereditato con quello acquisito. Laddove tali strumenti siano svalutati, resta solo il capitale di nascita a decidere la futura collocazione professionale e sociale dei giovani. Una società con una scuola cattiva o debole, non rigorosa e non selettiva, è una società meno mobile e più castale – anche se la debolezza, questo il paradosso, deriva da una malintesa spinta all’eguaglianza.
Questa problematica è stata di recente sollevata con forza dal volume dei coniugi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola – sociologo universitario il primo, scrittrice e (ex-) insegnante di scuola superiore la seconda. In Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, 2021), i due autori sostengono appunto che l’abbassamento di livello qualitativo dell’istruzione scolastica ha danneggiato e danneggia proprio i ceti popolari. L’impoverimento della scuola sarebbe il frutto di riforme volte a contrastare la possibilità che la scuola riproduca e anzi amplifichi le disuguaglianze sociali, rendendola inclusiva e facendone anzi un fattore di riequilibrio. Ma abbassare il livello ed eliminare la selettività affinché nessuno possa essere escluso sortisce alla fine l’effetto opposto: priva i ceti più bassi del più importante strumento di promozione ed emancipazione. È una tesi limpida e lineare, che Ricolfi tenta di dimostrare anche con gli strumenti della sociologia quantitativa.
Per la verità, la sezione statistica del libro non risulta così persuasiva, vista la disomogeneità dei dati disponibili e la difficoltà nel sottoporre a misurazione i criteri di qualità. Ma non c’è bisogno di dimostrazioni numeriche per una correlazione che appare evidente. Né a me pare dubbia l’assunzione di base del libro, cioè la mediocrità della preparazione che la scuola offre. Si tratta anche di uno scadimento, cioè di un peggioramento nel tempo? Nel suo precedente libro, La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019), Ricolfi aveva sostenuto che la preparazione raggiunta oggi alla fine di un corso di laurea triennale equivale a quella offerta dalla vecchia scuola media, prima dell’unificazione del 1962. Un raffronto forse buttato lì, ma non del tutto implausibile, specie per quanto riguarda le competenze comunicative di base. Il che significherebbe che il livello dei titoli di istruzione è enormemente aumentato da allora, ma la preparazione complessiva no. Qui di dati oggettivi a supporto non ce ne sono molti (le prove Invalsi si fanno da 15 anni, cioè da un periodo in cui – secondo gli autori – le cose erano già precipitate). Ci sono però le esperienze soggettive di chi nella scuola e nell’università lavora. Anche Ricolfi e Mastrocola si affidano a questo terreno esperienziale e soggettivo-narrativo, raccontando i rispettivi percorsi scolastici e testimoniando del loro ruolo di docenti – rispettivamente – universitari e liceali. Il primo parla di una fetta molto consistente di studentesse e studenti che affrontano gli esami in uno stato di impreparazione che potremmo chiamare radicale, che non dipende dal non aver studiato quei contenuti specifici ma dalla mancanza delle condizioni minime di carattere logico, cognitivo ed espressivo che servirebbero a comprendere la materia d’esame e ad esporla in modo ordinato e pertinente.
Quanti sono questi studenti? “Una maggioranza”, afferma Ricolfi, anche se poi distingue fra quelli che raggiungono a malapena la sufficienza e quelli (“almeno 1 su 3”) che ne sono ampiamente al di sotto). Una «catastrofe cognitiva», commenta il sociologo; catastrofe che risalta ancora di più a confronto con quella minoranza che dispone invece di normali strumenti cognitivi e ottiene buoni risultati agli esami. Quanto possiamo generalizzare? Per quel che conta, la mia esperienza non è molto diversa, anche se trovo che vi siano grandi differenze fra corsi di studio. Ricolfi fa riferimento a corsi di laurea in psicologia, che prevedono di solito accesso a numero chiuso ma sono rappresentativi di una fascia medio-bassa di competenze di base (misurata in termini di voti ottenuti all’esame di maturità, ad esempio). Ciò che colpisce è quanto l’università di oggi sia stratificata in corsi di studio di élite (in particolare medicina e ingegneria) e di “base” (in particolare i corsi umanistici e di scienze sociali, a loro volta con gerarchie interne, che vedono dal lato “alto” filologia classica o filosofia, ad esempio, e da quello “basso” scienze della comunicazione, discipline della moda e analoghi). È comunque un fatto che un’ampia percentuale di studenti arriva a questi corsi priva delle necessarie competenze di base, che raramente riesce a recuperare, dal momento che la didattica universitaria non è attrezzata per fornire abilità che dovrebbero essere apprese nelle scuole secondarie, superiori e persino inferiori.
Dal punto di vista delle superiori, a sua volta, Mastrocola disegna un quadro sconfortante, sostenendo che
«mediamente almeno un terzo di una classe di prima liceo fa errori gravi di ortografia, non ha nessuna nozione di punteggiatura, confonde una congiunzione con un avverbio, non sa fare l’analisi logica di una frase né l’analisi di un periodo; non è in grado di fare un discorso orale più lungo di un minuto; non comprende un romanzo del Novecento; non sa costruire un testo organizzandolo su basi logiche ma affianca solo le frasi una accanto all’altra, scarne e banali, senza alcuna capacità di raccontare, di esprimere compiutamente un pensiero, una riflessione, un’opinione…».
Tutte abilità che andrebbero acquisite nei cicli di studio precedenti, e che è difficile recuperare al liceo: in ogni caso, la loro mancanza costringe gli insegnanti ad abbassare costantemente il livello delle attività proposte.
Ammesso che sia giustificata una rappresentazione così negativa e pessimistica della scuola di oggi, quali sarebbero le ragioni del suo scadimento? Ricolfi e Mastrocola sembrano non avere alcun dubbio: la colpa è di un’intera e lunghissima stagione di riforme volute dagli indirizzi politico-culturali “progressisti” o “democratici” che hanno governato la scuola, a partire dalla introduzione della media unificata nel 1962. I due autori, nelle loro rispettive parti scritte sul filo dell’autobiografia, individuano una serie di tappe di un percorso univoco e lineare di declino della scuola: dall’abolizione dell’avviamento, appunto, che necessariamente abbassa i contenuti della scuola media; a Lettera a una professoressa e ad altri impulsi del Sessantotto, che combattono la logica della selettività e distruggono i contenuti classici della cultura umanistica su cui la scuola si era fin allora fondata (a favore magari di un carattere puramente “pratico” dell’istruzione); e ancora, alle didattiche sperimentali degli anni ‘70, all’introduzione negli anni ’80 della pedagogia di impianto cognitivista che costruisce i percorsi di apprendimento per skills piuttosto che per contenuti specifici. Fino ad arrivare al passo che in modo definitivo sprofonderebbe l’istruzione italiana nell’abisso, vale a dire le riforme legate al nome di Luigi Berlinguer (che fra l’altro viene erroneamente definito «fratello del mitico Enrico», mentre era suo cugino): quella dell’università del 1999 e quella della scuola del 2000. Sulla prima, Ricolfi sostiene che ha sancito una volta per tutte l’idea che «gli studenti siano dei bambini fragili, bisognosi di protezione, accudimento, tutoraggio», con un «diritto al successo formativo» che l’università deve assicurare a tutti i costi. Abbandonando, così, il fondamentale principio «che lo studio fosse un dovere, e la conquista del titolo non fosse un diritto, bensì la giusta ricompensa del dovere compiuto». E Mastrocola dice della riforma berlingueriana della scuola che si fonda su
«tre ingredienti decisivi: i progetti extracurricolari, la valutazione oggettiva (i test), e il diritto al successo formativo. Cambiava la sostanza: la scuola diventava un’impresa, si agganciava al mondo del lavoro, o meglio, tentava goffamente di assumere i valori e i criteri della produzione e del mercato. Non ci potevo credere che tutto questo fosse opera della sinistra. E il fatto che il ministro fosse un esponente del governo di sinistra fu una vera iattura: impossibile criticare, levarsi contro, tentare una battaglia. Chi osava criticare quella riforma veniva relegato nello stanzino buio dei reazionari, quando non addirittura fascisti».
Mastrocola aveva già espresso questa sua critica radicale in alcuni precedenti lavori (La scuola raccontata al mio cane, Guanda, 2004; Togliamo il disturbo, Guanda, 2011; La passione ribelle, Laterza, 2015), dando voce ad una diffusa insoddisfazione degli insegnanti ma ricevendo al tempo stesso accuse di passatismo e conservatorismo dal mondo progressista. Forse proprio l’inasprimento del dibattito l’ha portata ad accentuare sempre di più l’attribuzione di responsabilità a una linea “progressista” di pensiero pedagogico e di azione politica. Ma proprio questo è l’aspetto più debole della sua posizione e del libro scritto insieme al marito. In particolare, l’attacco all’unificazione della scuola media non regge a un minimo di analisi storica. Quella riforma è intervenuta in una società italiana in cui le disuguaglianze di classe erano ancora radicali e difficilmente superabili: e andava proprio nella direzione che Ricolfi e Mastrocola sostengono, quella della scuola come ascensore sociale. Come poteva la scuola funzionare da ascensore sociale se un bambino doveva già a 11 anni decidere del proprio destino sociale, e abbandonare – scegliendo l’avviamento (cosa che avveniva non perché «non aveva voglia di studiare» ma per appartenenza familiare) – ogni possibilità futura di studi? Discutibili sono anche le letture di figure-chiave della “scuola democratica” come Don Milani. Non solo Lettera a una professoressa dovrebbe essere un po’ più contestualizzato, sia rispetto al periodo storico sia rispetto al pensiero complessivo di Lorenzo Milani, centrato attorno alla testimonianza pastorale più che alla pedagogia. Ma, soprattutto, appare discutibile la convinzione di Mastrocola che la scuola di oggi assomigli molto a quella che il priore di Barbiana avrebbe voluto – un punto sul quale tornerò più avanti.
L’impeto autobiografico porta Mastrocola a descrivere in modo efficace e persino commovente le sue esperienze di studentessa in una scuola più selettiva e tradizionale. Ma da qui a pensare che l’unico modo possibile per tornare a innalzare la qualità della didattica sia reintrodurre i vecchi contenuti e le vecchie metodologie ce ne corre. Mastrocola invece su questo non ha alcun dubbio. Rivaluta non solo l’insegnamento tradizionale della grammatica, ma anche i temi come unica possibile didattica dell’italiano; vantandosi di aver continuato ad usarli (invece che «articoli brevi o altre panzane simili»), con titoli «di una riga, massimo due: Le mie vacanze, La peste nei Promessi sposi, Cade la pioggia, Dialogo con mia nonna, La libertà nell’era di internet, Dove vanno le mosche d’inverno…». E poi dedica un intero excursus all’elogio della parafrasi dei testi antichi.
Va bene, può darsi che queste modalità didattiche siano state liquidate un po’ troppo frettolosamente, o magari sostituite dal nulla metodologico. Ma non ne consegue logicamente che tema o parafrasi sono l’unico modo possibile per insegnare a scrivere, ad amare e comprendere i testi antichi e letterari, ad arricchire il lessico e capire l’etimologia delle parole. Dire questo significa ignorare decenni e decenni di dibattiti sulla didattica linguistica, che sono partiti proprio dalla constatazione della inefficacia metodologica del tema o della parafrasi e hanno cercato di sostituirli con tecniche migliori, più adeguate alla multifunzionalità dell’espressione linguistica. Tutta “fuffa pedagogica”? Mi sembra difficile sostenerlo a priori, e comunque bisognerebbe farci i conti e non limitarsi ad una pur suggestiva evocazione letteraria di come era bella la traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti.
Da dove viene la crisi della scuola?
Insomma, a me pare che Ricolfi e Mastrocola abbiano perfettamente ragione nel porre il problema di una insufficiente preparazione degli studenti liceali e universitari, di un impoverimento della scuola, del declino del suo ruolo sociale e della sua funzione come strumento di mobilità sociale. E che, tuttavia, cadano in semplificazioni a dir poco ingenue nell’attribuzione delle responsabilità e nella individuazione delle cause di tale declino (per non parlare dei possibili rimedi, che non possono esser solo il ritorno al passato).
Uno dei difetti del libro è di non confrontarsi minimamente con la produzione specialistica sulla storia della scuola, sulla didattica delle competenze di base, sulla misurazione e sulla comparazione anche internazionale dei livelli di apprendimento. Sembra che solo evocare questi termini e l’esistenza di scienze dell’educazione che se ne occupano significhi concedere qualcosa al “nemico”. Ed è infatti proprio su questo terreno che il “nemico” li attacca, mostrando facilmente i limiti del loro approccio troppo soggettivistico. Mi riferisco alle numerose stroncature già uscite da parte di chi sta invece saldamente dalla parte della scuola progressista. Capisco che per chi si occupa professionalmente di pedagogia, storia della pedagogia e didattica un libro come questo possa apparire irritante, persino offensivo per la pretesa di formulare giudizi per così dire dall’esterno (dall’esterno di un linguaggio e di una tradizione di studi, intendo dire, anche se dall’interno di un’esperienza personale). Altrettanto irritanti sono però i luoghi comuni che si allineano invariabilmente in risposta. Il primo è che queste analisi non dicono niente di nuovo, che già si sapeva; il fatto che una scuola debole danneggi per prime le classi subalterne è la scoperta dell’acqua calda (C. Raimo, V. Roghi, Il danno scolastico, in “Minima&Moralia”, 17 novembre 2021). Non mi pare così scontato; se tutta una tradizione riformista intende la scuola come momento di riequilibrio sociale, e ottiene poi l’effetto inverso, forse qualche ripensamento magari anche autocritico di quella tradizione sarà opportuno, o no?
A tale argomento si aggiunge quello del carattere reazionario, nostalgico, passatista della posizione di Ricolfi e Mastrocola: sempre Raimo e Roghi si distinguono per questa tendenza ad usare un linguaggio morale, definendo Il danno scolastico come un libro in cui «ogni pagina lascia interdetti, per la quantità di informazioni false, di argomentazioni fallaci, e per l’ideologia reazionaria che trasuda»; proseguendo poi con aggettivi come vergognoso, irricevibile etc., e prendendosela soprattutto con la pretesa degli autori di non essere reazionari. Il principale bersaglio critico di Raimo e Roghi sono infatti «i reazionari che si spacciano per progressisti», vale a dire quelli che non la pensano come loro. È una categoria che mi inquieta perché suppongo, nel mio piccolo, di farne parte anch’io – come mi viene ogni tanto rinfacciato per le mie proteste contro l’uso del catechismo woke nelle scienze sociali. Quindi non conta che Ricolfi e Mastrocola dichiarino di parlare dal punto di vista della sinistra, o almeno degli obiettivi storici della sinistra (riduzione della forbice sociale, opportunità di promozione per i ceti subalterni): no, sono oggettivamente reazionari, praticamente fascisti, per la posizione sociale e generazionale privilegiata da cui parlano, e comunque perché non la pensano come Raimo e Roghi stessi.
Del resto non lo diceva anche Rodari che si può essere progressivi in politica e reazionari nella scuola? Ecco come Vanessa Roghi vede la cosa:
«Fu un’insegnante di un liceo classico di Roma a mettermi di fronte a questa triste verità, che molte insegnanti che leggevano Repubblica e votavano a sinistra non necessariamente credevano davvero nel fatto che la scuola dovesse partecipare alle trasformazioni del mondo di cui, evidentemente, loro stesse avevano beneficiato. Potevano, insomma, serenamente, fare bei discorsi sui migranti, e sui salari, e sul femminismo, ma poi in classe comportarsi esattamente come avevano visto fare dalle loro insegnanti nella scuola del tempo che fu, con una linearità, una congruenza impressionante».
Il passo è interessante perché mostra che cosa significhi essere progressista e fare bei discorsi su migranti e femminismo in termini di strategie di distinzione sociale e di costruzione di superiorità morale; ma al tempo stesso quel che impressiona me è che si possano usare le categorie di progressista e reazionario non solo in modo così astorico (Rodari diceva quelle cose in pieno ’68, in una società e in un clima politico che non hanno nulla a che vedere con quello di oggi), ma come caselle oggettive in cui classificare in bianco e nero ogni atteggiamento o punto di vista. E se l’incoerenza fosse della commentatrice, piuttosto che di quella tal professoressa del liceo classico?
Una versione un po’ attenuata di questo argomento è che i coniugi Ricolfi darebbero »«voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato», solo che per un gioco della falsa coscienza se la prendono «con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del proprio fallimento didattico» (Roberto Maragliano, citato sempre in Raimo-Roghi). Il che somiglia molto alla classica giustificazione che la sinistra dà delle proprie sconfitte elettorali – il popolo bue e arrabbiato che segue inclinazioni “di pancia” e finisce per supportare quelli che sono invece i suoi oggettivi nemici di classe. In ogni caso, nessuno dei critici mette in dubbio l’assunto fondamentale di Ricolfi e Mastrocola, vale a dire la “crisi” della scuola e le enormi lacune nella preparazione degli studenti. Ma, si sostiene, il problema non sono le riforme e la loro logica: piuttosto, il fatto che esse non siano state applicate. C’è la versione classicamente “sindacale” di questo argomento:
«Le cause sono la povertà storicamente cronica delle nostre scuole, lasciate senza risorse per combattere gli svantaggi, per consentire i recuperi, per lottare contro la dispersione, per garantire la formazione continua degli insegnanti. Risorse finanziarie, umane, di mezzi, di strutture e di spazi a causa di quella stessa cultura dei Ricolfi e Mastrocola che ha governato il Paese per oltre vent’anni» (G. Fioravanti, La scuola dannosa e gli ultimi difensori della Fortezza Bastiani, in “Gessetti colorati”, 18 ottobre 2021).
Beh sì, reclamare risorse è importante, e sappiamo che l’Italia spende per l’istruzione una percentuale di PIL inferiore alla media europea (anche perché paga poco gli insegnanti, che però sono in un rapporto molto più vantaggioso rispetto al numero di studenti rispetto a quasi tutti gli altri Paesi). Ma, insomma, non può esser tutto qui il problema. Anche perché non si capisce bene: se le riforme le fanno i governi, perché poi dovrebbero boicottarle finanziariamente per farle fallire? «A causa di quella stessa cultura dei Ricolfi e Mastrocola che ha governato il Paese per oltre vent’anni» – inveisce il recensore appena citato. E qui non si capisce più nulla: ma Ricolfi e Mastrocola non erano quelli che accusavano la cultura di governo? Ma allora chi ha governato l’Italia?
Il Sessantotto realizzato?
In effetti si rischia di fare confusione nel momento in cui si ipotizzano percorsi di sviluppo univoci e lineari, e si pensa a una “scuola progressista” e a una “reazionaria” come modelli coerenti e frontalmente contrapposti. Ricolfi e Mastrocola sostengono che in ambito educativo è stato il modello progressista e inclusivo ad esercitare una egemonia più o meno continuativa, anche – sembra di capire – negli anni di governo delle destre. Ma sostengono anche (soprattutto Ricolfi) che la destra (sia quella democristiana prima, sia quella populista poi) non si è opposta in modo significativo a tale egemonia; anzi, ne ha assecondato alcuni punti, in particolare l’idea del diritto al successo formativo, coerente con la visione del mondo utilitarista, consumista, edonistica che ha caratterizzato la cultura cosiddetta berlusconiana.
Per quanto in teoria meritocratica, la destra non ha avuto alcun interesse a restituire alla scuola una funzione fondativa nella selezione della classe dirigente del Paese, privilegiando il successo imprenditoriale e, per così dire, il capitale economico e relazionale rispetto a quello culturale. Insomma, gli autori del libro non amano Moratti o Gelmini più di quanto amino Berlinguer (anche se i loro oppositori non possono crederci, perché per loro o stai di qui o stai di là, o sei con noi o con il nemico). Se questa posizione è plausibile, andrebbe però articolata meglio sul piano storico. A me non pare molto credibile l’idea di un unico percorso, che dal ’62 ad oggi porta alla rovina la scuola italiana, guidato da un’unica logica coerente e compatta (inclusione, lotta alla selettività, successo formativo garantito, eliminazione dei contenuti “tradizionali” a favore di varie “panzane” etc.), guidata dalla sinistra progressista con il tacito appoggio o almeno il disinteresse della destra. Mi pare si dovrebbe distinguere fra diverse fasi, diverse logiche e culture di riferimento, scenari contraddittori che si sono sovrapposti storicamente e che continuano a farlo oggi. Ad esempio, su una cosa Raimo, Roghi e altri commentatori hanno ragione: quella scuola che l’eroica testimonianza di Don Milani sognava, che le riforme “democratiche” auspicavano e le sperimentazioni didattiche degli anni ’70 mettevano alla prova, che la pedagogia cognitivista delle skills tentava di codificare negli anni ’80 e ’90, non si è mai realizzata.
La scuola di oggi non è quella immaginata dalle “riforme progressiste”, né quella prescritta dai tecnocrati delle scienze dell’educazione di matrice anglosassone; non è quella dell’inclusione e dell’uguaglianza realizzata auspicata dalla sinistra, né quella della formazione al lavoro e all’imprenditorialità su cui tanto ha insistito la destra. Ci sono dentro, per quanto posso capirne, molti e diversi elementi, non sempre coesi e coerenti, che corrispondono in qualche modo alle diverse fasi storiche o scenari politico-epistemologici cui Ricolfi e Mastrocola fanno riferimento. In primo luogo, c’è ancora molta di quella didattica tradizionale – i temi, le parafrasi etc. – che tanto piace a Mastrocola: solo, e qui lei ha ragione, depotenziata, frammentata, privata dei suoi punti di forza che consistevano da un lato nella selettività e nella imposizione dello studio come sforzo, sacrificio e achievement, e dall’altro – sociologicamente – nel carattere distintivo della stessa astrusità, non ordinarietà di quei contenuti. C’è forse ancora un pizzico degli entusiasmi democratici e progressisti degli anni ’60, che si manifestano più che altro nella persistente passione umana e nell’impegno verso gli strati sociali più marginali di una parte almeno del corpo insegnante; la parte migliore, direbbero Raimo e Roghi, e come non si può essere d’accordo? Anche se naturalmente è difficile poi trasformare cose come la “passione”, il senso di una missione o di una testimonianza, e le “sperimentazioni” che vi si accompagnano, in tratti professionali diffusi.
Ancora, nella scuola di oggi restano il lessico, le pratiche burocratiche e forse anche qualche momento di didattica ereditati dalla rivoluzione cognitivista delle competenze, dalla logica della programmazione didattica, degli obiettivi e delle finalità, dei metodi assunti in modo indipendente dai contenuti (i quali sarebbero secondari e volti solo all’acquisizione di astratte skills), della docimologia etc. Questa pedagogia, che ha avuto il maggiore impulso tra gli anni ’80 e ’90, è stata presa sul serio, io credo, da una minoranza di insegnanti: la maggioranza vi si è adeguata producendo programmazioni astratte che più o meno potessero corrispondere alla didattica effettivamente svolta, più che il contrario. Docenti illuminati vs. pigri e tradizionalisti? Forse. Personalmente ho vissuto questa fase con le mie prime esperienze di insegnamento nelle scuole secondarie alla fine degli anni ’80. Ho cercato di pormi fra gli illuminati, ma mi sono pian piano convinto che il sistema non funzionava: la pretesa della programmazione di definire “scientificamente” a priori l’intero processo di apprendimento sulla base di oggettivi criteri psico-pedagogici, ovvero di una teoria assoluta dello sviluppo della mente, era fallace. Non coglieva una serie di aspetti cruciali del processo educativo, le sue contingenze, la sua natura non psicologica ma culturale – nel senso antropologico del termine. Soprattutto, era del tutto irrealistica la pretesa di lavorare su pure competenze astratte in modo del tutto separato dai contenuti. Nell’insegnamento della storia, ad esempio, insistendo sugli obiettivi generali di acquisire “il senso del tempo”, la “capacità di costruire relazioni causali fra gli eventi” etc.; e svalutando invece la narrazione e l’intrinseca importanza della conoscenza in sé di scenari ed eventi storici specifici.
Il lessico delle competenze è ancora usato, credo di poter dire, come legittimazione di quel che si fa in classe, ma non come base per programmare il lavoro didattico. In compenso si è diffuso anche nelle università: una pedagogia e una burocrazia arroganti e dogmatiche hanno finito per imporre (come requisito per la valutazione della qualità dell’offerta didattica) la compilazione di programmi in cui il syllabus (insomma i contenuti e la bibliografia) è preceduto dalla enunciazione degli obiettivi, delle capacità che si vogliono costruire, perfino dei comportamenti che si vogliono sollecitare negli studenti (come se si parlasse della socializzazione in una scuola elementare), e delle modalità di verifica di tutti questi aspetti. Come se per un esame universitario – di storia contemporanea, di chimica organica, di anatomia patologica, di letteratura francese – si potesse separare l’obiettivo dell’insegnamento dalle capacità e dai comportamenti (gli studenti fanno i bravi in classe? Socializzano?), e tutte queste cose dai “contenuti”. Come se l’obiettivo dell’esame non fosse semplicemente l’apprendimento di quei contenuti e non di abilità cognitive astratte, che semmai sarebbero presupposte e senza le quali non si potrebbe neppure accedere all’università (Il senso del tempo? Saper formulare relazioni causali? Saper classificare gli elementi chimici o le componenti anatomiche del corpo umano? Comprendere un testo letterario?). Cosicché la redazione di questi programmi (oggetto di valutazione per le “certificazioni di qualità”, assunte dall’organizzazione d’impresa e trasportate forzatamente in un contesto estraneo) è l’occasione per mortificanti esercizi di ipocrisia o di nonsenso: una cosa che tutti sanno bene ma che non si può dire.
Mi scuso per la digressione e torno alla mia argomentazione principale. C’è tutto questo nella scuola di oggi, insieme ad altre cose. Ad esempio l’influenza della legge sulla autonomia scolastica, i piani dell’offerta formativa, i rapporti con il territorio e i “progetti extracurricolari” (tanto odiati da Mastrocola). Ci sono le “educazioni particolari”, all’affettività, alla legalità, al multiculturalismo e così via. C’è il ruolo delle nuove tecnologie, padroneggiate più dagli studenti che dai docenti (quanto influisce ad esempio sulla didattica la presenza della LIM in ogni classe?). Ci sono le esperienze (vituperate e probabilmente già fallite) di alternanza scuola-lavoro. Insomma, tanti elementi, frutto di logiche riformatrici diverse, spesso contraddittorie e incoerenti – un “agglomerato indigesto”, per usare la famosa espressione gramsciana. Ma soprattutto, la natura della scuola e il suo mutato ruolo sono determinati da altre caratteristiche di carattere più ampiamente storico-sociale. Pensiamo agli aspetti che più preoccupano Ricolfi e Mastrocola: l’abbandono di un’etica dell’impegno, del dovere e persino del “sacrificio” nello studio; la perdita di prestigio della cultura fine a se stessa, nonché del prestigio e dell’autorevolezza della figura sociale dell’insegnante; l’aziendalizzazione dei servizi educativi e l’idea dello studente come cliente che “ha sempre ragione”; la infantilizzazione degli studenti come soggetti deboli da proteggere da compiti troppo gravosi e da traumatici insuccessi; la crescente inutilità sociale delle competenze culturali e di certi titoli di studio (a partire da quelli umanistici).
Tutte queste cose non hanno molto a che fare con Don Milani o Rodari; né con Tullio De Mauro, che anzi ha cercato di analizzarle criticamente, e forse neppure con Luigi Berlinguer e con i suoi consiglieri pedagogici, che pure nei fatti le hanno in parte assecondate. Hanno invece a che fare con trasformazioni potenti, lente e inesorabili della società occidentale contemporanea: una società opulenta malgrado le crisi, fortemente individualizzata e cresciuta attorno al culto del “successo”, produttrice di soggettività strutturalmente volte alla fragilità, al vittimismo e al risentimento. Starei quasi per dire una società neoliberista, se non detestassi l’uso di questo termine come passpartout di ogni critica sociale, che lo porta a diventare una specie di significante vuoto, utile solo a identificare come moralmente superiore chi lo impiega. Tutto questo non c’entra molto con le responsabilità del progressismo o con i miti del Sessantotto: o forse sì, ma solo nel senso che quella stagione ha anticipato pionieristicamente, senza sospettarlo, alcuni aspetti della attuale, con quei principi come “vogliamo tutto e subito”, l’“immaginazione al potere”, la tendenza a considerare repressiva ogni regola e ogni “disciplina”, anche quelle costitutive dei fenomeni sociali o culturali, per non parlare di “il personale è politico” (Mario Perniola ha scritto un provocatorio pamphlet dal titolo Berlusconi o il ’68 realizzato – ed. Mimesis, 2011 – per dimostrare, contro ogni luogo comune, una simile continuità).
In conclusione: Ricolfi e Mastrocola hanno proposto di fronte a un pubblico non meramente specialistico una denuncia sacrosanta, perché l’impreparazione di amplissimi settori di studenti è un fatto; e hanno mostrato che lasciare che ciò avvenga e anzi si aggravi costantemente non è di sinistra e danneggia i ceti inferiori (sarà pure la scoperta dell’acqua calda, ma allora quanti pedagogisti hanno finora usato solo quella fredda?). Poi, semplificano e forse sbagliano nel ricostruire storicamente le responsabilità, e nell’indicare come soluzione il semplice ritorno al passato e la liquidazione di intere stagioni di elaborazione di cultura educativa e di metodologia didattica. Rischiano di finire su quel terreno che deplorano in riferimento alla “scuola progressista”, cioè di portare il discorso su un piano morale più che pratico. E i loro critici ovviamente li seguono ben volentieri su questo terreno (voi reazionari, noi dalla parte degli oppressi etc. etc.). Francamente di queste contrapposizioni, di discorsi fatti soprattutto per sottolineare la superiorità morale di chi parla, ne possiamo fare anche a meno. Resta un problema pragmatico: come si insegna a scrivere e a parlare alle ragazze e ai ragazzi di oggi?
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017).
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