di Francesco Faeta e Domenico Sabino
Tra le iniziative per ricordare Annabella Rossi nel quarantennale della sua scomparsa, Domenico Sabino ha intervistato Francesco Faeta, tra gli studiosi che furono più vicini a Rossi, testimoniando di una stagione importante dell’antropologia italiana.
Come e dove conosci Annabella Rossi?
L’allora Istituto di Sociologia de’ “La Sapienza” (quella era la denominazione dell’Università alla fine degli anni Sessanta), diretto da Franco Ferrarotti, è stato una notevole fucina di formazione per giovani studiosi di scienze sociali (vi lavoravano, oltre al direttore, tra gli altri, Corrado Antiochia, Simonetta Piccone Stella, Marcello Lelli, Armando Catemario, Alberto Stadera). Si trattava di un luogo effervescente e vivace, diviso tra i poli di un orientamento riformista, con echi olivettiani e del Movimento Comunità, che guardava molto alla sociologia americana, e uno più radicale, con una decisa impronta marxista. Dopo la mia laurea in Sociologia, con una tesi sulle periferie urbane romane, avevo iniziato a bazzicare l’Istituto, con possibilità d’inserimento effettivo pari a zero ma con molta curiosità e interesse (mi bastava ascoltare, respirare una certa aria, frequentare la biblioteca, dare una mano per la redazione della, da poco nata, rivista “La Critica Sociologica”). La frequentazione della sede universitaria posta sotto la Galleria Esedra ebbe naturalmente, come era deprecabile costume accademico di allora (che largamente permane) un costo in termini di cessione gratuita ed anonima del proprio lavoro e delle proprie realizzazioni (benché modeste, nel mio caso): parte della mia tesi confluì, senza neppure un ringraziamento, in Roma da capitale a periferia di Ferrarotti, pubblicato nel 1970. Le fotografie che avevo iniziato a realizzare diventarono di “uso pubblico”, non più d’autore, ma dell’Istituto. Lì incontrai Annabella per la prima volta (forse veniva anche su sollecitazione di Piccone Stella, con cui era molto amica). Lei non aveva una grande considerazione per la Sociologia né, devo dire, per il direttore dell’Istituto, e intraprese una campagna, caratterizzata da una veemente diatriba e da una affettuosa sollecitazione, per distaccarmi da quello che lei riteneva, con l’approssimazione polemica che sovente la distingueva, un polo di formazione industrialista e aziendalista. Contrapponeva l’Antropologia alla Sociologia, la prima una disciplina che spingeva in direzione dello studio delle classi subalterne nella prospettiva della loro liberazione, la seconda che “lavorava per i padroni”. Contrapponeva Ernesto de Martino a Franco Ferrarotti e ad Achille Ardigò, con buona pace di Theodor Adorno e Pierre Bourdieu.
La nostra amicizia crebbe quando seppe che conoscevo Luigi M. Lombardi Satriani, che avevo incontrato presso la Facoltà di Lettere di “Sapienza”, al termine di una sua lezione come ospite e che avevo iniziato a frequentare. L’Antropologia, dunque, non mi era poi così lontana, il rifiuto della Sociologia era possibile. Ma, attenzione! L’Antropologia di Lombardi Satriani era troppo teorica, troppo libresca, poco intricata con il sociale, non avvezza al terreno (lei coltivava una forte attrazione per il fieldwork, sia nella sua prima fase di lavoro, come paleo-archeologa, sia poi a partire dalla definitiva esperienza iniziatica con de Martino in Salento). Dunque, anche in quella direzione un intento polemico; benché fosse amica di Lombardi Satriani e anche sua ammiratrice, tentò di dimostrami per molti mesi che la vera antropologia stava altrove, con frequenti richiami al Terzo Mondo e all’America latina. I figli di Sanchez di Oscar Lewis, che sarebbe venuto meno di lì a pochi mesi dal nostro incontro (con sua grande commozione che ancora ricordo), fu una delle iniziali letture che devo a lei (mi prestò la prima edizione inglese dell’opera).
Iniziai, così, a frequentare la casa di Annabella. Lei abitava a Trastevere, al 71 di via della Lungaretta, con il documentarista Michele Gandin, suo compagno di vita, che aveva incontrato agli inizi degli anni Sessanta grazie agli auspici della comune amica Anna Maria Levi, che era l’amata sorella di Primo. Accomunava i due un’intensa aspirazione verso la libertà, la promozione della coscienza civile, l’anticonformismo, unita a una grande passione politica per l’emancipazione dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati, e quest’aura fluiva su chiunque frequentasse la loro casa. In particolare, il Mezzogiorno italiano, che entrambi conoscevano a fondo, era il concreto terreno, continuamente vagheggiato ed evocato, del loro impegno (anche se era presente una forte attenzione internazionalista, che si concretava in interesse per tutti i Sud del mondo). Ecco, lì, grazie ad Annabella, ho imparato molto.
Hai partecipato con lei a qualche ricerca sul campo?
Come ti ho accennato, avevo già avuto esperienze di ricerca sul campo, nelle periferie romane, per la mia tesi di laurea; e avevo parallelamente iniziato a far ricerca come freelance, in Calabria e in Sicilia, osservando direttamente, in un’ottica politica radicale derivatami dal movimento studentesco romano nel quale militavo, quel mondo contadino che de Martino e, in modo più ravvicinato, Rossi e Lombardi Satriani mi facevano conoscere. Ma la prima ricerca con un carattere istituzionale fu, oltre che con Lombardi Satriani, proprio con Annabella. Una ricerca su cui vale la pena di soffermarsi perché, al di là del ricordo autobiografico, indica con chiarezza alcuni dei tratti della sua personalità scientifica e umana.
Negli anni dal 1970 al 1972 si svolse, con base presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a Roma, dove Rossi lavorava, un’indagine dal titolo Significati e funzioni del Venerdì Santo in Calabria e Sicilia, organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina, dove Lombardi Satriani insegnava, e con il sostegno del CNR. Fui aggregato al nutrito gruppo di ricerca (anche perché, come Annabella aveva partecipato alla indagine in Salento perché aveva l’automobile, io venni cooptato perché avevo due macchine fotografiche) e destinato in Calabria, particolarmente a Caulonia e poi, l’anno successivo, a Tiriolo e Nocera Terinese. Durante le riunioni preparatorie a Roma, Annabella manifestò chiaramente quelle differenze nell’idea del lavoro etnografico e antropologico che ho richiamato, centrando la sua attenzione su due questioni: l’effettiva rappresentatività delle feste quaresimali al fine di illustrare la diversità contadina e meridionale; la quantità di attenzione da dedicare alla letteratura folklorica preesistente sull’argomento. Questioni niente affatto tecniche, come comprendi, ma centrali nel delineare la postura degli studiosi di scienze sociali all’epoca. Annabella sosteneva “le ragioni di Carnevale”, cui avrebbe dedicato per anni attenzione, perché occasione rituale legata alla trasgressione e all’affermazione prepotente, pur se effimera, delle istanze dell’autonomia popolare, e riteneva il frame religioso, ecclesiastico e canonico della Quaresima, mortifero, costrittivo, caratterizzato da un’indefettibile egemonia della Chiesa cattolica. Lombardi Satriani, che aveva fortemente voluto quella ricerca, lavorando anche al reperimento dei (pochi) fondi, riteneva invece che proprio il rigido frame in questione rendesse di particolare interesse i margini di resistenza e di creatività popolare. Rossi pensava, poi, che si dovesse andare sul terreno “a mente sgombra”, attrezzandosi a interpretare la diversità che si osservava; Lombardi Satriani desiderava che si transitasse attraverso un accurato lavoro di lettura e analisi dei testi demologici esistenti (e anche dei testi semi culti, pensa ai sermoni, ai laudari e ai copioni delle sacre rappresentazioni), riferiti sia alla realtà territoriale che dovevamo direttamente osservare, sia al più ampio contesto meridionale. Credo, con il senno di poi, che avesse ragione, su entrambe le questioni, Lombardi Satriani. La Quaresima garantiva un approccio testuale, attraverso i suoi rigidi copioni strutturati sul dettato canonico e il suo esteso retroterra documentale, postulando una ricerca basata anche sulle scritture, ecclesiastiche, confraternili e folkloriche. Il Carnevale di Annabella portava a confrontarsi con la sua prepotente pre-testualità e a optare per un immediato approccio di terreno.
Dall’incontro con Ernesto de Martino, nel 1959, Annabella Rossi trae istruzioni per la propria ricerca sul campo. Ne consegue una consapevolezza sui rapporti tra classi dominanti e subalterne, di cui parla nell’articolo del ‘71 Realtà subalterna e documentazione: «Questa realtà deve essere documentata, per essere conosciuta, per circolare, per smascherare chi la copre per precisi fini politici». È ancora valida oggi l’asserzione?
Rossi in realtà declinava a modo suo l’impegno politico di de Martino, senza soffermarsi troppo sulle sue basi teoriche, ma radicalizzando le posizioni di vicinanza sociale e politica con i subalterni. Ciò premesso, l’asserzione della validità dell’impegno politico nella ricerca sociale è oggi valida più che mai. Naturalmente sono cambiate molte cose. Non vi sono più le classi subalterne, nei termini della ricerca di Rossi, pur se permane, modificata, la condizione di subalternità. Anche una teoria antropologica basata sulla nozione stessa di classe, rischia di essere oggi inadeguata a cogliere e interpretare la realtà. Ma smascherare gli ordini gerarchici e costrittivi dentro i quali è oggi relegata la vita di tutti e, in particolare, dei meno abbienti, degli immigrati, delle minoranze, delle donne, resta a mio avviso, lezione che oggi Annabella darebbe se fosse ancora viva (era nata nel 1933, potrebbe essere ancora una lucida novantenne, se il destino non fosse stato cinico e baro).
Personalmente custodisco un’idea dell’impegno dello studioso di scienze sociali, che ho certamente formato sugli esempi concreti di Rossi e di Lombardi Satriani, ma che oggi declino in modo diverso. Questo impegno non può essere soltanto di militanza sul terreno, di testimonianza solidale (tanto, a chi interessa che lo studioso sia con un gruppo umano sofferente od oppresso, oggi che il neocapitalismo autoritario non cerca più un consenso che sembra appartenergli di diritto?). Deve divenire anche, e soprattutto direi, impegno per la costruzione di teorie sociali che sappiano prefigurare modelli alternativi. Nella crisi delle grandi narrazioni della Storia che abbiamo vissuto, e andiamo vivendo, contribuire a elaborare modelli di vita sociale diversi e renderli noti, deve costituire, a mio avviso, l’impegno principale dell’antropologo, del sociologo, dell’economista o dello studioso di politica. Il contadino di Rossi aveva ben chiara l’ingiustizia sociale ed era in grado di ipotizzare anche come se ne potesse venire fuori; il compito dello studioso era maieutico e la sua vicinanza fisica, sul terreno, una condizione importante per l’emancipazione collettiva. Il giovane precario di oggi, il rider delle periferie milanesi, l’immigrato sottopagato dell’agro pontino, il pensionato che sopravvive negli slums del Tufello o della Cecchignola, uomini e donne persi nelle immense banlieue che il capitalismo ha disseminato ovunque, non hanno affatto chiara la dinamica della propria dipendenza e non hanno modelli cui affidarsi per uscirne. Come ci si sottrae oggi alla morsa del neocapitalismo autoritario? Quale progetto per il futuro della gente?
Vi è, poi, un’ulteriorità che investe quell’ambito visivo cui Rossi ha dedicato molta attività pratica, anche se poca attenzione teorica. La condizione sociale complessiva oggi transita attraverso la sua rappresentazione. Si sta bene o male perché la percezione mediata dai mass media e dai social media inesorabilmente lo sancisce, al di là delle effettive situazioni economiche e sociali. Ciò vuol dire che impegno oggi significa anche saper smascherare le false rappresentazioni della vita collettiva che alimentano il populismo e le derive dispotiche.
Negli anni Sessanta Rossi effettua nel sud Italia ricerche sul campo corredandole di documentazione fotografica e sonora. Le ricerche riguardano la religiosità popolare e la cultura materiale. Secondo te, con lei principia l’antropologia visiva in Italia ovvero l’immagine-documento? Del resto ella stessa afferma: «Una intera pagina non riesce né a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine».
Ho una certa perplessità rispetto all’affermazione che tu ricordi, personale elaborazione di Annabella, del resto, di un imperante luogo comune, “un’immagine vale più di mille parole”. A un’immagine si deve certamente dare credito, superando il pregiudizio crociano invalso nell’alta cultura italiana, della sua flebilità e ingannevolezza nell’espressione del pensiero e del pensiero critico in particolare. L’immagine va posta sullo stesso piano della parola, tra gli strumenti che consentono informazione, riflessione, comunicazione. Ma un’immagine di per sé non è detto che “documenti o trasmetta” più di una determinata scrittura. Dipende dalla qualità dell’immagine e dalla qualità della scrittura; dipende dai differenti carichi di responsabilità che loro si assegnano nell’organizzazione della narrazione e degli spazi discorsivi. Questo ordine di riflessioni era abbastanza distante da Annabella, a mio avviso, che aveva in effetti una certa fiducia “messianica” nella forza contro-informativa dell’immagine (in questo pienamente Sessantottina).
Con Annabella poi, non nasce certo l’etnografia visiva italiana, se con tale locuzione vogliamo designare la prassi di raccogliere informazioni etnografiche e antropologiche con i mezzi audiovisivi.
Come sai, fu de Martino a essere considerato, a torto o a ragione, il fondatore dell’etnografia visiva da noi. Ed egli fu, indubbiamente, un promotore e un innovatore in questo campo, che però altri prima di lui avevano praticato e alacremente dissodato. Sia pur in modi e forme diversi, i mezzi audiovisivi, e in particolare la fotografia, sono stati impiegati, nel contesto antropologico nazionale, analogamente con quanto accadeva in altre tradizioni di studio, sin dagli esordi. Anche qui, pur se con tratti peculiari, le vicende (e le storiografie) della disciplina e del mezzo si sono intrecciate, dentro quell’orizzonte coloniale e imperialista che le ha entrambe distinte, come molti studiosi hanno sottolineato.
Rossi, però, che aveva nel momento d’inizio della sua avventura antropologica, già una notevole esperienza di fotografa, come attestano le produzioni giovanili presenti nel suo archivio familiare, fu in effetti la prima persona che riassunse in sé i ruoli di antropologa e fotografa. In questo direi che la sua vicenda è stata realmente pionieristica. Prima di Rossi, de Martino si portava appresso, come un’appendice, il documentatore, con l’inevitabile scollamento, strabismo, disallineamento che ne conseguivano. L’occhio di antropologa di Annabella coincide, invece, con il suo occhio di fotografa (e di videomaker), inaugurando una prassi che, per quel che concerne il contesto nazionale, avrà un seguito duraturo nella seconda metà del Novecento e oltre.
Ciò che va segnalato ancora, però, è una peculiarità della ricerca di Rossi, per lo meno al suo tempo: una ricerca che, anche per il suo collocarsi in una prestigiosa sede di carattere nazionale (il museo che ho prima ricordato), ha saputo coniugare la documentazione audio-visiva con la concreta raccolta dei manufatti sul campo, dei documenti cartacei loro connessi e con la loro schedatura, in un tutto organico che conferisce a questa esperienza etnografico-visiva, museologica e archivistica un tratto assolutamente innovativo.
Annabella indaga la realtà subalterna nel Salento con approccio gramsciano alla struttura festa e al folclore considerato fino ad allora elemento ‘pittoresco’ e ‘spettacolare’. Basti pensare che con Lettere da una tarantata (1970) il fenomeno è studiato per la prima volta con lo ‘sguardo dall’interno’. Volume imperniato sulle dinamiche interazionali tra antropologo e interlocutori. Sguardo lontano da revival e spettacolarizzazioni in atto come ‘La notte della taranta’. Cosa pensi in merito a ciò?
Preferisco soprassedere sull’argomento “notte della taranta”, non soltanto per la mia personale diffidenza verso l’oggetto, ma anche perché penso additi un quadro complesso del tutto distante dalle problematiche di Rossi. La tua domanda, comunque, pone due questioni diverse. Il gramscianesimo di Rossi e l’innovatività dell’opera del 1970 che ricordi.
Riguardo alla prima questione, Rossi non partecipò in prima persona al dibattito teorico che impegnò parte dell’antropologia italiana coeva, riguardo alle tesi gramsciane sul folklore, dibattito che impegnò lo stesso de Martino e poi Lombardi Satriani, Alberto M. Cirese (ma anche Tullio Seppilli, Amalia Signorelli, Clara Gallini, per qualche verso Vittorio Lanternari). Rossi, che aveva una certa idiosincrasia, come forse già traspare da quanto prima ti ho detto, per la dimensione teorica e la prassi speculativa, attuò invece sul terreno una ricerca improntata a tratti marxisti, così come le erano stati trasmessi e mediati da de Martino (il cui gramscianesimo, come sai, era caratterizzato da una larga autonomia e da tratti a volte contraddittori). Ma, forse ancor più, una ricerca improntata a un nuovo “umanesimo etnografico” (per chiosare ancora de Martino), solidale e partecipativo, empatico e pragmatico.
Noi non disponiamo ancora di una dettagliata conoscenza delle carte private di Rossi, per lungo tempo fuori Italia, da poco rientrate presso il Museo delle Civiltà e ancora non consultabili (che ci potrebbero dare chissà quali esiti), ma per i documenti pubblici e privati ad oggi disponibili, la sua etnografia, come ho accennato, ebbe tratti molto marcati, certamente trascendenti gli stessi insegnamenti demartiniani. E si caratterizzò in modo originale rispetto a molte delle esperienze coeve. Tra le carte non note di Rossi, potrebbero esservi corrispondenze con gli interlocutori privilegiati, a esempio, che potrebbero offrirci un quadro più chiaro circa il suo pensiero etnografico. Che io ho avuto poco modo di vedere all’opera, malgrado amicizia e frequentazione, perché le mie dislocazioni spaziali (ma anche temporali) molto raramente hanno coinciso con le sue. Vi sono testimoni autorevoli, però, per questo aspetto, coloro che hanno lavorato sul campo a stretto contatto con Annabella, da Roberto De Simone, a Paolo Apolito, Marialba Russo, Patrizia Ciambelli, Luciano Blasco.
La questione dei carteggi mi porta sul secondo aspetto che tu evocavi, quello dell’innovatività di Lettere da una tarantata. Si tratta di un’opera che, al di là del suo oggi quasi canonico riconoscimento “riflessivo”, presenta caratteri realmente nuovi. De Martino si fermava, in qualche misura, sulle soglie cerimoniali e rituali del tarantismo e della sua terapia. I rilievi sociologici compiuti sulle tarantate, confluiti ne’ La terra del rimorso, sono piuttosto esterni, concepiti secondo le logiche regolamentari del questionario, e con una metodologia piuttosto arcaica. Oltre al volume stesso ciò si evince anche attraverso la pubblicazione, che dobbiamo a Signorelli e Valerio Panza, dei materiali relativi alla spedizione in Salento del 1959. Annabella sente il bisogno di varcare quelle soglie, ritornando nei luoghi della ricerca. Comprende bene che la storia delle tarantate non finisce il giorno della guarigione sul sacer limen della cappella di san Paolo a Galatina. Va loro incontro nei loro luoghi, si confronta con i loro mestieri e con la loro vita privata. Mette in gioco se stessa in un primo esperimento di solidarietà femminile interclassista e trasversale. Si affida a uno strumento di comunicazione, la scrittura epistolare, che sa essere pressappoco estraneo per i soggetti nativi che incontra ma che, se condiviso, può consentire a questi ultimi di uscire fuori dagli schemi canonici del rapporto ricercatore-informatore. Pone al servizio dell’indagine la sua profonda e viscerale partecipazione e la sua carica emotiva. Dedica attenzione al linguaggio con il quale una determinata condizione viene partecipata e, per meglio analizzarlo, si affida alla lettura di un linguista del calibro di Tullio De Mauro. Insomma, più che una lettura dall’interno del fenomeno indagato, come tu dici, un rovesciamento del concetto stesso di lettura.
Rossi declina la visione oleografica della classe subalterna e rurale; visione, invece, rassicurante per la classe egemone. C’è sintonia con le teorie dell’antropologo Oscar Lewis? Ciò si evince nel saggio del 1969 Le feste dei poveri?
Sulla relativa vicinanza di Rossi e di Lewis, ti ho già detto qualcosa, anche se va tenuto presente che l’orizzonte politico in cui la prima si muoveva era ben diverso da quello in cui si muoveva il secondo. Ovviamente, la visione oleografica del mondo subalterno non appartiene più a Rossi. Del resto, malgrado i ritardi presenti, qua e là, anche nel contesto accademico, malgrado l’incidenza di studi e di studiosi ancora legati alla radice demologica (magari rielaborata secondo direttive gramsciane), dopo de Martino, tale visione è totalmente superata. Vi è però un elemento interessante nell’etnografia e nell’antropologia di Annabella, nella sua fotografia etnografica, su cui mi sono soffermato altre volte e che mi sembra utile qui richiamare.
L’elemento in questione riguarda un certo tratto che definirei “orientalista”. Vi è, in realtà, un atteggiamento orientalista della ricerca relativa al Mezzogiorno nell’antropologia italiana del secondo Dopoguerra, ed esso è presente anche nel lavoro di Rossi, malgrado la sua notevole capacità di svecchiamento e di reinvenzione delle pratiche. L’“Oriente” di Rossi, però, in omaggio al vento caraibico e andino che soffiava impetuoso sull’Italia di quegli anni, è latino-americano: i suoi poveri, persi nelle fenditure di culti marginali o nelle volute di violenti carnevali, somigliano ai messicani figli di Sanchez, agli Indios di lingua Quechua, agli innumerevoli pobrecitos delle sierras equadoregne o boliviane. Un mondo esotico, insomma, involontariamente plasmato dalla passione umana e politica di Annabella. Un esotismo che rinviava a quella parte del globo in cui un concreto evento rivoluzionario (Cuba), un forte vento di libertà, un’endemica guerriglia, una teologia della liberazione, sembravano concorrere a mutare il corso immobile della storia capitalista e post-coloniale. Ricordo l’ammirazione che Rossi aveva per le fotografie scattate nel Sud da un bravissimo fotografo, che ebbe a collaborare con lei in più occasioni, Vittorugo Contino. Fotografie a colori, legate a manifestazioni della religiosità popolare, a eventi cerimoniali e rituali, a sperduti villaggi e contrade di montagna, che apparivano quasi indistinguibili da quelle che avrebbe potuto realizzare in America latina.
All’inizio degli anni Settanta, durante la docenza di Antropologia Culturale all’università di Salerno, Annabella conosce Roberto De Simone, con cui avvia ricerche in Campania con documentazione fotografica, sonora e filmica. I risultati di tali lavori si ritrovano nei saggi Immagini della Madonna dell’Arco (‘74) e Carnevale si chiamava Vincenzo (‘77). Entrambi contrapponevano alla ricerca accademica, astratta e da tavolino, l’indagine sul campo. Annabella, infatti, spesso indirizzava battute dissacranti a docenti di scienze antropologiche. È stata una figura composita ed eretica, per niente omologata all’ambito universitario. Cosa ricordi di quel periodo?
A De Simone quale testimone del lavoro di Annabella, ho già fatto cenno. Egli è stato colui che ha saputo introdurre Rossi nel mood napoletano e campano, con la sua straordinaria conoscenza del contesto e dei regimi scenici che lo caratterizzavano. Annabella era romana; l’amore e l’interesse per la Campania erano accompagnati da una personale cultura antropologica ben diversa. Lello Mazzacane, nei rapporti di collaborazione che aveva avuto con lei, l’aveva in qualche modo avviata a un modo di essere e di fare peculiare. Ma De Simone è stato colui che l’ha condotta all’interno dell’universo sonoro, vocale, mimico, gestuale, teatrale, rituale e cerimoniale del Carnevale campano. Senza di lui, che del resto è coautore, Carnevale si chiamava Vincenzo non credo sarebbe potuto esistere o, se fosse esistito, avrebbe avuto diversa fisionomia.
La ricerca accademica, poi, per Annabella semplicemente non esisteva, se non per l’aspetto didattico, per il coinvolgimento dei suoi studenti dell’Università di Salerno nel lavoro sul campo, cui lei dedicava molta attenzione e molte energie. Rispetto all’accademia era certamente irriverente, ostile, beffarda e ciò era del resto ricambiato. Le istituzioni si servirono di lei e della sua straordinaria intelligenza, pagandola il meno possibile: a Salerno era una semplice incaricata e la cattedra non le fu mai chiamata, presso il museo aveva la qualifica, di cui si vantava, di operaia. Sovente, nei suoi tentativi di avere un posto meno precario nell’Università, si trovò la strada sbarrata da ostilità, diffidenze, pregiudizi, sgambetti ed egoistiche concorrenze. Di questa situazione ella, sia pur con personale sofferenza, si fece una ragione attraverso la sua cultura politica e attraverso la militanza che largamente suppliva alla scarsa considerazione accademica. Si, Annabella, è stata una figura eretica, una donna poliedrica, curiosa, aperta al nuovo, che percepiva bene la sua diversità femminile, pur non avendo assunto atteggiamenti e posture da militante femminista.
Perché una personalità vigorosa come Annabella Rossi è tuttora ‘scomoda’ per molti antropologi? L’onestà intellettuale imporrebbe la conoscenza della sua vasta produzione scientifica e della sua metodologia di ricerca, organizzando seminari e convegni. Non credi?
Mah, sai, l’antropologo italiano credo debba essere consapevole di lavorare per l’oblio. Chi si ricorda più di noi, a parte la fortunata eccezione di de Martino (ma eccezione nel chiuso recinto disciplinare; ben pochi oggi, su di un piano più generale, ricordano una delle menti più brillanti del Novecento europeo). Ma soprattutto, chi pensa mai di trarre lezione per la costruzione dell’intelligenza nazionale, dalla riflessione e dalla ricerca di un antropologo? Diciamo che, almeno che non ci occupiamo di food, come oggi si dice, di commenti più o meno colti o spiritosi sulle consuetudini dell’“Itala gente dalle molte vite”, sugli aspetti “caratteristici” di un evento o di una cultura, nessuno ha bisogno dell’antropologia (e forse, occorre dirlo, l’antropologia non ha bisogno di nessuno, chiusa com’è nella sua dimensione solipsistica). Dunque, Annabella non è un’eccezione, pur se il suo carattere scomodo, la sua postura anticonformista, la sua appartenenza di genere hanno sicuramente rafforzato il suo isolamento e il suo oblio. Ma, never say never, recentemente ho sentito dire che il direttore di un importante (per noi antropologi) museo, programma con i suoi sottoposti di fare di lei, pensa un po’, un’icona pop.
A cosa lavori e cosa stai per pubblicare?
Devo dirti, per quel che ti ho appena anticipato, che non vorrei lavorare più su nulla. Il mondo spaventoso che si profila, lo fa nella nostra (degli antropologi italiani, intendo dire) più assoluta irrilevanza e nel nostro assoluto silenzio. Non si riescono neppure a difendere dignitosamente recinti disciplinari divelti dalle più approssimative scorribande del potere (politico e amministrativo). Dunque, non vorrei e non dovrei scrivere altro. Però, non so fare altro che scrivere e fotografare e senza queste due attività per me la vita si prospetta realmente noiosa; e conseguentemente sta per uscire, destinato a chissà quali orizzonti di dimenticanza, un libro sulle peregrinazioni nel Sud di Arturo Zavattini negli anni Cinquanta, e un libro, ideato e scritto in collaborazione con Francesca Romana Uccella … su Annabella Rossi.
In merito a quest’ultima pubblicazione in uscita?
Con l’editore, Domenico Ferraro, abbiamo deciso di fornire le necessarie informazioni sul libro a breve, quando sarà pronto per la sua uscita in libreria, nei primi mesi del 2025. Posso anticiparti che il suo titolo è Annabella Rossi. Album di famiglia di un’antropologa. Poggia sulle sue immagini personali, messe a disposizione dalla famiglia, e tratteggia un ritratto inedito della donna e della studiosa. Una sorta di quarta di copertina potrebbe dire: un romanzo sull’“educazione sentimentale” di una grande antropologa, dall’esteso nucleo parentale ai primi viaggi e impegni di studio, dalle amicizie di una vita fino alle pionieristiche campagne di ricerca, sola o con alcuni dei protagonisti della cultura italiana del Novecento, da de Martino a Diego Carpitella, da Gandin a Roberto Leydi, da Lombardi Satriani a Ferdinando Scianna.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Francesco Faeta, antropologo, ha insegnato nelle Università della Calabria e di Messina e insegna presso la Scuola di Specializzazione in Beni Culturali DEA di “Sapienza”. Docente Erasmus in Spagna, è stato fellow della Columbia University e direttore di studi invitato presso l’ÉPHÉ di Parigi. Collaboratore di istituzioni museali, tra le quali il Museo delle Civiltà di Roma, fa parte dei comitati scientifici di alcune tra le principali riviste italiane di antropologia e di studi visuali. Suoi interessi sono quello delle immagini e delle rappresentazioni, in rapporto con i contesti rituali; della fotografia etnografica con particolare riferimento al Mezzogiorno; della metodologia e della teoria disciplinare; della storiografia critica, in relazione alle questioni politiche che essa pone. Dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi Visuali e pratiche della rappresentazione. Il suo ultimo libro è L’occhio e le cose. Cinque lezioni sullo sguardo, Milano, Meltemi, 2023. Di prossima uscita nel 2025, Viaggio a Sud (in collaborazione con Arturo Zavattini), Roma, Postcart, e Annabella Rossi. Album di famiglia di un’antropologa (in collaborazione con Francesca Romana Uccella), Roma, Squilibri.
Domenico Sabino, collaboratore de’ ‘il manifesto’ e di altre riviste di cultura politica, è laureato in Antropologia Culturale e diplomato al Conservatorio in Canto Lirico. Antropologo, drammaturgo, musicista, regista teatrale e di docu-video, si occupa di religiosità popolare e tradizione musicale orale del sud Italia. È stato docente di Drammaturgia del Novecento all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Ha messo in scena come autore e regista, tra gli altri, i drammi Festa a mmare, SEqueNZA, Padiglione Sorveglianza, Ammèn. È autore, tra gli altri, dei docu-video Ma/donna delle Galline, Annibale Ruccello – Assoli, Luigi Di Gianni | Cinema dell’Essere. Fra le pubblicazioni: Oleograf(f)ia Napolitana, Annibale Ruccello – Immaginari antropologici, Che cosa sono le nuvole? Una fuga dall’apocalittica scena contemporanea. Ha coordinato laboratori teatrali e musicali nei Dipartimenti di Salute Mentale. È fondatore e direttore artistico della Compagnia teatrale TheaterAus.
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