dialoghi antivirus
di Dario Inglese
«Ricordo ancora benissimo le tue lezioni, quando dicevi che il nostro cervello non registra la realtà, ma la ricostruisce, in qualche modo la crea… Dicevi che c’è qualcosa, là fuori, ma che la sua struttura è costruita dai nostri neuroni, che la elaborano a partire dalle percezioni e poi ce la raccontano a modo loro… Ecco, a volte spero che tutto questo […] non sia davvero la realtà, ma solo una nostra costruzione, una storia che ci siamo inventati, un nostro incubo…»
«Purtroppo, qualcosa là fuori esiste davvero» disse Livio […] «Noi le diamo colori e sapori, che in realtà non esistono, la rielaboriamo in uno spazio tridimensionale, che quasi sicuramente è solo un’illusione, e dentro un tempo che procede inesorabile dal passato al futuro, che con ogni probabilità non è reale. Eppure questa è l’unica maniera in cui il mondo là fuori può essere capito da noi, perché l’evoluzione ci ha formati così e non in un altro modo… Magari quel qualcosa non è così come noi ce lo rappresentiamo, eppure qualcosa, alla fin fine, esiste. E temo, almeno nelle conseguenze, che sia abbastanza simile a quello che stiamo vedendo…».
Nel romanzo Qualcosa, là fuori Bruno Arpaia immagina una terra devastata da una terribile crisi ecologica, i cui territori riarsi e screpolati sono attraversati da carovane di migranti che tentano disperatamente di raggiungere i paesi dell’estremo nord – gli unici che all’interno del nuovo equilibrio climatico offrano condizioni di vita simili a prima. Livio è un neuro-scienziato che con il disastro ha perso tutto (la carriera, la cattedra a Stanford, la famiglia), Marta una ex studentessa che tanti anni prima era rimasta affascinata dalle sue lezioni sul rapporto fra linguaggio e realtà. Durante il viaggio, organizzato da una compagnia scandinava semiclandestina e profumatamente pagato dai partecipanti, i due si avvicinano e, insieme a una quotidianità fatta di marce forzate lungo paesaggi spettrali, viveri razionati, scarsità d’acqua, attacchi di predoni, condividono le loro riflessioni su un mondo al collasso e la sostanziale incapacità di pensare la catastrofe, di darle un senso, pur vivendola nei suoi devastanti effetti. Ciò che sta accadendo è reale? E che cos’è la realtà? Se l’essere umano è responsabile di questa crisi perché adesso non riesce a governarla? C’era modo di prevedere quel che sarebbe accaduto? Sono queste le domande che assillano i protagonisti del romanzo lungo la via che li conduce verso un Altrove che probabilmente non esiste neppure.
Si può pensare la catastrofe? E prevedere l’imprevedibile? Le culture, com’è noto, organizzano il rapporto tra uomo e natura cercando di sottrarlo simbolicamente, ognuna a suo modo, al divenire storico. Cercano di produrre stabilità laddove c’è mutamento, si sforzano di stabilire uniformità laddove c’è fermento: un’illusione che si riverbera nei concetti d’identità e tradizione – come fossero blocchi immobili nel tempo – e che trasmette l’idea di permanenza nonostante il cambiamento. Le culture si situano così a metà tra una natura indistinta da cui partono (fingendo accuratamente di non farlo, come insegnava Claude Lévi-Strauss) e una natura indistinta cui possono ripiombare, tra l’ordine e la possibilità del disordine, tra la stabilità e l’eventualità del collasso. Ogni cultura, cioè, si staglia sullo sfondo dell’apocalisse: un orizzonte, esorcizzato e bilanciato da riti ad hoc, in grado di dar senso al mondo e far sì che ciò che è non possa essere altrimenti.
C’è però una cultura, che per comodità argomentativa ritrarrò in un modo molto più uniforme di quanto in verità non sia (me ne scuso), in cui una potente mitopoiesi scientifico-religiosa ha prodotto l’idea di un progresso unidirezionale e virtualmente senza fine che, di fatto, ha reso difficile non soltanto pensare, ma anche immaginare la catastrofe. O meglio: c’è una cultura – la modernità – in cui una potente mitopoiesi ha inserito la possibilità della catastrofe all’interno di una cornice temporale lineare che non prevede rifondazioni del cosmos attraverso il caos, bensì continue fughe in avanti in cui i disastri diventano questioni di governance, meri problemi gestionali da superare solo attraverso la tecnica verso un futuro sempre più radioso. Il poeta, non a caso, parlava amaramente di «magnifiche sorti e progressive». All’interno di questo schema ideologico, il passato diventa ostacolo, zavorra, sinonimo di arretratezza; il futuro, nonostante il costante desiderio d’innovazione è in verità taciuto e non problematizzato, al massimo vaticinato; il presente, infine, resta da solo a occupare l’orizzonte: oggetto di un culto dell’attualità che non permette di voltarsi indietro e paralizza (banalizza) lo sguardo in avanti.
L’ipocrisia (la sostanziale cecità) di un tale modo di vedere le cose irrompe in modo evidente di fronte all’emergenza climatica e all’enorme difficoltà che tutti noi proviamo nel descriverla, pensarla e tentare in qualche modo di affrontarla. Molti dei blocchi cognitivi che ci impediscono di approcciare seriamente il global warming derivano in primis dalla sfida epistemologica che questo fenomeno, a dispetto della sua evidenza scientifica, pone alle nostre categorie. Con i pesanti cambiamenti climatici nella cosiddetta epoca dell’Antropocene, infatti, si verificano (almeno) due eventi epistemologicamente devastanti per l’orizzonte moderno: 1) il mondo cessa di essere un neutro palcoscenico per le azioni umane ed entra brutalmente in scena come co-protagonista; 2) la classica e ordinata tripartizione cronologica (passato – presente – futuro) collassa su se stessa producendo un magma indistinguibile in cui non solo le decisioni prese nel passato plasmano il presente e modellano il futuro, ma in cui il futuro smette di essere pura e impalpabile virtualità per irrompere, in un paradossale regime di contemporaneità, nel presente [1]. A queste considerazioni vanno poi aggiunti due corollari: a) il mondo brutalmente entrato in scena si rivela un sistema in cui le sue parti (tutte: persone, animali, piante, minerali, oggetti, gas, particelle, idee) sono correlate e che mette in crisi la rigida distinzione fra Natura e Cultura; b) l’essere umano moderno sperimenta l’insuccesso di un orizzonte ideologico che l’ha eletto signore della Natura e la sinistra ironia insita nel suo delirio di onnipotenza: essere responsabile di cambiamenti climatici e fantasmi ecologici che una volta evocati non possono essere tenuti agevolmente sotto controllo [2].
Secondo il filosofo Timothy Morton ciò che rende così complicato pensare la catastrofe climatica è suo il «carattere iperoggettivo». Che cosa sono gli iperoggetti? Si tratta di fenomeni che scompaginano il nostro universo categoriale e tutto ciò che crediamo di sapere sulla natura degli oggetti che ci circondano. Perché tutta questa difficoltà nel concepirli? Perché gli iperoggetti sono viscosi, «ovvero si “attaccano” alle entità con le quali sono in relazione» (Morton 2018: 3). Perché gli iperoggetti sono non locali, «ciascuna “manifestazione locale” di un iperoggetto non è, direttamente, l’iperoggetto stesso» (ibidem). Perché gli iperoggetti «esistono su scale temporali profondamente differenti rispetto a quelle a cui siamo abituati in quanto esseri umani» (ibidem). Perché gli iperoggetti «esibiscono i loro effetti in maniera interoggettiva; ovvero, possono essere individuati in uno spazio che consiste nelle relazioni reciproche tra le proprietà estetiche degli oggetti. L’iperoggetto non esiste in funzione della nostra conoscenza» (ibidem). Perché gli iperoggetti, infine, sono contraddistinti da un movimento di phasing, «sembrano andare e venire, ma questo andirivieni è dovuto all’accesso limitato che ne abbiamo» (ivi: 91)
L’iperoggetto per eccellenza del nostro tempo è per l’appunto il global warming, la cui caratteristica principale è quella di esistere su livelli spazio-temporali troppo grandi perché possa essere percepito in maniera diretta (che esista come fenomeno in sé fuori da ogni ragionevole dubbio, infatti, ce lo dicono solo i modelli matematici dei climatologi). Pur incrociando quotidianamente la mia esistenza (viscosità), non posso vederlo nella sua interezza, né tantomeno scorgerne la fine (phasing): il sole che mi brucia la pelle, la pioggia battente sul mio cappotto, il vento che mi sferza il viso durante un violento temporale estivo sono soltanto sue manifestazioni locali (non località). L’irruzione degli iperoggetti provoca così un corto circuito cognitivo; un cambio di prospettiva che mette in crisi l’idea che la storia sia soltanto storia umana e che erode la validità dei due concetti fondanti della modernità: la Natura e il Mondo come entità su cui il soggetto umano si muove imponendo il proprio volere e i propri significati.
Morton va addirittura oltre: «gli iperoggetti» – scrive – «hanno provocato la fine del mondo. Ovviamente il pianeta Terra non è esploso: ma il concetto di mondo ha smesso di essere operativo, e sono stati proprio gli iperoggetti a causarne la morte» (ivi: 9). Una coscienza ecologica degna di tal nome, pertanto, dovrebbe prendere atto dell’esistenza di forze su cui non si può avere controllo e che, soprattutto, non si esauriscono nella relazione con l’essere umano; dovrebbe liberarsi senza rimpianti di categorie stantie per sviluppare «una geofilosofia che non ragioni solo in termini di eventi significativi per gli esseri umani» (ivi: 11); dovrebbe, infine, pensare alla biosfera come a un iperoggetto essa stessa, dove non esiste Altrove in cui nascondere i rifiuti del nostro modo di produzione e del nostro modo di ragionare (ivi: 39).
Più la catastrofe climatica si staglia imponente nelle vite dei moderni (e di tutti i viventi, anche di quelli che non ne sono direttamente responsabili), più fa (intra)vedere i suoi effetti, più essa resta difficile da concepire perché sfuggente, invisibile (nella sua interezza e nella sua durata) e ambigua, a meno di non cambiare occhiali e linguaggio: questo sembra dirci Morton con un argomentare perturbante e serrato. Il suo approccio s’inserisce all’interno dell’ampio filone critico verso la modernità; il fatto che egli conduca le sue riflessioni da una prospettiva lontana dal correlazionismo moderno (in accordo con Immanuel Kant, secondo tale approccio il campo d’azione della filosofia risiede nella correlazione fra la cosa in sé e la mente, non in uno dei due poli presi separatamente) e dal pensiero postmoderno (la realtà come costruzione), e anzi fiduciosa in un rinnovato realismo, gli serve per spostare l’attenzione dall’essere umano alle entità non umane e per attaccare le fondamenta antropocentriche della nostra società (a suo avviso, l’ostacolo più grande all’imperativo categorico di fare urgentemente qualcosa contro il riscaldamento globale e le sue devastanti conseguenze).
Prescindendo dalla discussione sulla validità complessiva dell’argomentazione di Morton, e della corrente cui aderisce (Object-oriented Ontology – Ontologia orientata agli oggetti, uno dei filoni del nuovo realismo filosofico), molti degli spunti forniti dallo studioso inglese mostrano un notevole potenziale euristico e possono, a mio avviso, essere integrati da una visione antropologica che non si fermi all’analisi di una certa immagine di uomo e società. Come si accennava poco sopra, infatti, e come riconosciuto anche da Morton, la rimozione della catastrofe dal novero dei problemi dell’uomo è fenomeno moderno [3]: un frutto dell’ambiguo e incestuoso matrimonio tra antropocentrismo ed etnocentrismo che tende a marginalizzare l’alterità e a far coincidere in maniera sospetta l’anthropos con un determinato tipo di homo occidentalis.
La stessa modernità, d’altra parte, è meno monolitica di quanto voglia apparire, e anzi «polverizzata» in molteplici manifestazioni locali. Con Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro (2017: 10), allora, potrebbe essere utile osservare «il registro etnografico» e la «varietà di modi in cui le culture umane hanno immaginato la disarticolazione dei cardini spazio-temporali della storia»; e con Ernesto de Martino (2019) esaminare quanto labile possa essere la presenza, tanto nello spazio etnologico del Mezzogiorno d’Italia nel dopoguerra quanto, curiosamente, nel cuore della società borghese. In questo senso, come sostiene Matteo Meschiari (2019: 15), la «grande cecità» di cui parla Amitav Ghosh è antropologica prima ancora che ecologica e va sfidata dimostrando una sensibilità in grado di aprirsi all’altro in vista di decisioni realmente condivise. E valide per tutti.
È proprio da questa prospettiva che, in piena pandemia da Coronavirus, Vito Teti ci fornisce alcuni utilissimi strumenti da inserire in un’ipotetica cassetta degli attrezzi cognitivi per l’avvenire. Con il suo Prevedere l’imprevedibile. Passato, presente e futuro al tempo del coronavirus (2020, Donzelli Editore) ci invita a fare i conti con l’eventualità del collasso e a non restare schiavi dell’attualità per entrare in una dimensione autenticamente contemporanea. Una sfida certamente non semplice, ma inderogabile – in ballo c’è il futuro del nostro mondo.
Teti inizia la sua riflessione da una delle immagini più potenti, vivide, dell’epidemia ancora in corso: la preghiera di Papa Francesco in una Piazza San Pietro deserta e bagnata dalla pioggia. Era di marzo, era il tempo del lockdown e delle città vuote, un momento tanto inquietante quanto imprevisto, lontano anche dalle più familiari paure in un’epoca di guerre asimmetriche e attacchi terroristici: niente macerie, niente rovine o devastazioni, bensì strade integre ma desolate, silenziose, forzatamente abbandonate. Indipendentemente dal ruolo e dalle parole di quella figura vestita di bianco, in quelle immagini – scrive Teti – «c’è qualcosa di drammatico» perché «ci inchiodano muti a una diversa percezione del mondo, dei luoghi, del tempo, di ognuno di noi» (Teti 2020: 9). Al chiuso delle nostre abitazioni abbiamo vissuto – stiamo vivendo – un «momento epocale», una rottura, una cesura netta rispetto al prima, che non può non farci interrogare con urgenza circa la nostra idea di umanità, di società, di ambiente. Circa il senso della nostra presenza in un mondo che, ancora una volta, sperimenta globalmente il rischio radicale del non esserci (De Martino 2019: 70):
«La linea del tempo si rompe. La pandemia l’ha irrimediabilmente spezzata. Il pieno è diventato vuoto. Quel vuoto, quella solitudine, l’assenza totale di persone rendono d’improvviso plausibile, rendono presente, il rischio di una fine, fanno pensare alle città, ai paesi, al mondo intero senza più abitanti» (Teti 2020: 9).
Soprattutto, continua Teti, il Coronavirus – una guerra invisibile, un disastro, un crollo, una catastrofe, un’apocalisse dopo la quale sarà impossibile far finta di nulla, non fosse altro per le conseguenze che essa avrà sui nostri concetti di «casa, paese, città, spazio, tempo, relazioni, corpo» (ivi: 13) – ci spinge a dover fare i conti con l’impensabile che abbiamo rimosso, dal momento che «nessuna delle filosofie storicistiche è in grado di difendere l’uomo moderno dal terrore della storia» (ivi: 35). Ci sorprende a ripescare, volenti o nolenti, da un angolo remoto della nostra mente quella visione ciclica del tempo che forse troppo frettolosamente avevamo messo via insieme ad altri relitti della storia:
«L’idea di un mondo che «muore» e poi rinasce, di un tempo che si rigenera, oggi, con il coronavirus, sembra di nuovo attualissima: dalle mitologie popolari si trasferisce nel pensiero di chi non crede più in un progresso illimitato, di chi teme che la crisi ci metterà di fronte a scenari apocalittici e di chi pensa, dopo un lungo periodo di grandi difficoltà, a una rigenerazione del mondo e dell’umanità» (ibidem).
Il virus, proprio come uno dei perturbanti iperoggetti di Morton, è ubiquo ma impercettibile (se non nelle sue manifestazioni locali), rompe la linearità della nostra percezione temporale facendo ricadere nel presente il peso del passato e la materialità del futuro. Per non soccombere a questa confusione, scrive l’antropologo calabrese, dovremmo opporre al culto dell’attualità un responsabile sentimento della contemporaneità che non sezioni il tempo in compartimenti stagni e che si fondi piuttosto su una «nostalgia creativa» in grado di recuperare il passato nelle sue suggestioni di possibilità e stimolo.
Da questo punto di vista, il ricordo e il senso dei luoghi, i racconti, le storie di vita e i miti prodotti localmente si configurano come strumenti decisivi per stare nel presente avendo rispetto del passato e pensando veramente al futuro. Catastrofi sanitarie come il Coronavirus e apocalissi climatiche come quelle che segnano il nostro tempo, infatti, non arrivano mai inaspettate e improvvise, ma sono il frutto di scelte umane (troppo umane…), di uomini che hanno preso tragicamente alla lettera l’auto-proclamato ruolo di signori della natura; di uomini che hanno dimenticato con troppa facilità e che non sono più capaci, come direbbe Tim Ingold, di entrare in «risonanza» con ciò che l’ambiente permette loro. Una nostalgia positiva e un uso accorto della memoria, allora, consentirebbero di guardare al passato non come a un romantico tempo andato – postura che neutralizza la storia e conduce, di fatto, a una colpevole inazione – bensì come a «uno stimolo capace di sprigionare, a certe condizioni, dinamiche autenticamente innovative, rivoluzionarie, “sovversive”» (ivi: 21). Il passato, da questa prospettiva, può essere «salvaguardato per fornire modi alternativi di vedere le cose e valori nuovi per un futuro altro» diventando «un esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di “quello che è” ma nei termini di “quello che potrebbe essere”» (ivi: 21). Il ricordo riflessivo come carburante per l’immaginazione e la produzione di nuovi miti, insomma. E il tempo del virus come soglia liminale per ripensare finalmente il nostro modo di vivere, non come ennesima occasione persa (dopo l’atomica a Hiroshima e Nagasaki, la minaccia dello showdown nucleare in piena Guerra Fredda, Chernobyl, l’11 settembre e altre proverbiali apocalissi dopo le quali nulla sarebbe più stato come prima…).
Seguendo il ragionamento di Vito Teti, prevedibilità e imprevedibilità, al netto degli imponderabili casi della vita, non sono categorie necessarie, meccanicamente desumibili isolando arbitrariamente alcune variabili – come fanno, da versanti opposti, gli ottimisti transumanisti o i pessimisti radicali (ivi: 43-45). Ma certamente non sono nemmeno categorie gratuite: la memoria è un frutto che va coltivato, perché rischia di atrofizzarsi; la sua perdita spezza i nostri legami con la storia, ci lascia attoniti rispetto agli eventi e alle tragedie, ci rende schiavi di logiche emergenziali che, in un circolo vizioso, ci allontanano dal senso dei luoghi rendendoci sempre più ciechi e impreparati:
«Il passato può e deve essere riscattato come un universo, un mondo sommerso, di potenzialità diverse, non compiute, suscettibili di future realizzazioni. Il prevedibile va misurato rispetto al passato, alla memoria. Alla storia e alla preistoria del mondo» [4] (ivi: 57).
Non si può, argomenta Teti, prevedere un terremoto o un’alluvione, ma prestare attenzione al modo in cui, storicamente, certe comunità hanno imbastito il loro rapporto con i luoghi fissandolo simbolicamente nei miti e nei racconti (ed evocandolo ciclicamente nei riti) potrebbe far sì che non si costruisca in un determinato territorio (oppure che non lo si faccia nel più totale disprezzo dei criteri di sicurezza). È impossibile, inoltre, prevedere quando (si badi: quando, non se…) un virus salterà da una specie all’altra innescando un’epidemia letale, ma ripensare la nostra coesistenza con l’ambiente e gli altri viventi, riflettendo anche sulla ratio dei nostri sistemi di produzione, forse potrebbe allontanare, o attenuare, la minaccia di simili tragedie in futuro. Porsi all’interno di «un pensiero espressamente apocalittico», ripescando criticamente il passato e confrontandosi con visioni del mondo altre che traggono linfa da cicliche rifondazioni simboliche, diventa allora un esercizio di responsabilità: credere che la catastrofe possa davvero accadere e accettare «che gli sforzi fatti per prevenirla, quando poi non avviene, si rivelino inutili» possono rappresentare un viatico verso un uso saggio della tecnica (una delle grandi conquiste moderne), una prevenzione accorta e una sana «etica del futuro» (ivi: 54-55).
Nella memoria, per chi ha la pazienza e la sensibilità di leggervi con occhio critico, si possono trovare lezioni e possibilità alternative. Teti sembra allora suggerire che uno dei frutti più avvelenati di certa tronfia modernità sia l’equiparazione del passato al vecchio, all’arretrato, al primitivo; la sua rimozione in nome di un presente totalizzante e di un futuro più vagheggiato che responsabilmente costruito. Una mossa ottusa, purtroppo: come avviene nei peggiori incubi horror che turbano (e seducono) la modernità, il rimosso non elaborato torna ogni volta. E il ritorno irrelato dei defunti, il folklore lo insegna, fa sempre danni. Non a caso, riflettendo sull’animale responsabile dello spillover (il salto di specie) che ha generato l’epidemia di Covid-19 nell’uomo – il pipistrello [5] – l’antropologo si sofferma sulla figura sovente associata ai chirotteri in etnologia e in letteratura: il vampiro. Teti riprende un discorso sviluppato qualche anno fa (2018) in un denso contributo in cui il vampiro veniva tratteggiato come una figura carsica della modernità: un eroe culturale che vive nell’ombra, scompare alla vista per tanto tempo e riappare durante epoche particolarmente critiche.
Quando esce per la prima volta dagli universi popolari cui è stato confinato dall’alba dei tempi siamo in pieno Illuminismo: s’impone all’attenzione della cultura dominante grazie all’erosione dei saperi tradizionali sotto i colpi del metodo scientifico, della nuova razionalità politica e dell’azione pedagogica della Chiesa [6]. È a questo punto che il vampiro si dimostra un vero e proprio camaleonte riuscendo a resistere al traumatico passaggio dalle campagne centro-orientali d’Europa ai salotti di Londra e Parigi. Se nel Settecento l’«epidemia vampirica» è l’ultimo disperato grido di cosmologie ormai in crisi, nell’Ottocento il «contagio» si diffonde nel cuore della modernità europea e, attraverso la fascinazione romantica per le rovine, fa del vampiro una sorta di contraltare critico, e melanconico, della modernità stessa: un presago di sventura e, allo stesso tempo, un portatore di valori altri sconfitti dalla storia. Una figura, eternata da innumerevoli scrittori e studiosi, che ancora oggi, al di là del mai cessato successo mainstream, torna emblematicamente a sbirciare il nostro mondo in momenti di grande incertezza. Con la sua carica ambigua e melancolica il vampiro diventa dunque uno dei simboli del nostro rapporto col tempo al tempo della pandemia: da una parte incarna un passato inascoltato e calpestato che, soprattutto nei momenti bui, riappare tra i vivi a reclamare lo spazio che gli è negato; dall’altra, pur mettendo radicalmente in discussione la possibilità della vita, porta con sé una visione ciclica del tempo (la possibilità della rigenerazione) e, soprattutto, una «struggente nostalgia della vita» – diretta emanazione di quei mondi che l’hanno prodotto e che forse oggi sarebbe bene ascoltare almeno un po’ (Teti 2020: 82-83).
Timothy Morton, lo abbiamo visto poco sopra, ci dice che gli iperoggetti sono non locali e che anzi mettono in crisi la stessa idea di località. Lo sguardo antropologico di Vito Teti, tuttavia, ci spinge a non sottovalutare la dimensione micro, i suoi significati e le conoscenze di cui essa si fa portatrice: la memoria e il sapere locale, in questo senso, diventano luoghi sovversivi, spazi generatori di potenzialità utili, parafrasando Clifford Geertz (1988: 22), ad ampliare «l’universo del discorso umano». Diventano serbatoi di possibilità alternative e racconti nuovi in vista di soluzioni autenticamente condivise ai problemi che si presenteranno d’ora in avanti. È una visione, questa, che mette in gioco un’etica della responsabilità e un’etica dell’ascolto, che cerca di far spazio ai gruppi umani marginali e ai collettivi non umani con cui condividiamo il nostro passaggio sulla terra. Penso alla saggezza ecologica dei bozzetti etnografici e familiari evocati da Teti in questo volume; penso alle cosmogonie amerindie studiate da Eduardo Viveiros de Castro; penso ai tanti casi di culture che hanno già sperimentato l’apocalisse dei propri universi e che, in un modo o nell’altro, hanno resistito alla tempesta continuando con fatica a conservare visioni del mondo e valori altri. Penso al ruolo che l’antropologia può rivestire nella formazione di una rinnovata coscienza ecologica.
Sulla scorta dei suggerimenti di Teti, allora, la sfida di una sensibilità antropologica orientata in tal senso consisterà nel non de-storicizzare il passato e nel non trasformare la conoscenza locale in un’ingenua e romantica filosofia di salvezza new age. Riposerà, piuttosto, come suggerito anche da Tim Ingold, nell’accettare il rischio epistemologico di «prendere gli altri sul serio» (Ingold 2018: 1) studiando con loro (piuttosto che studiando loro) e nel seguire fino in fondo il carattere speculativo dell’antropologia indagando il crinale tra esperienza e immaginazione:
«aprire spazi per un’indagine generosa, aperta, comparativa eppure critica sulle condizioni e sulle possibilità della vita umana. […] unirsi ad altri esseri umani nelle loro speculazioni su come la vita potrebbe essere pur rimanendo saldamente ancorati a una comprensione profonda di ciò che essa è in particolari tempi e luoghi» (Ingold 2019: 19).
Nel far ciò l’antropologia, disciplina di nicchia, si dimostra in grado di prendersi una grandiosa rivincita scientifica perché nel corso di oltre un secolo di storia ha portato i suoi cultori a percorrere il globo e a vivere a stretto contatto con i gruppi più disparati e le loro visioni del mondo. Che cosa possiamo fare con tutta questa conoscenza accumulata? Confrontarci con la gente (tutta la gente…) nel tentativo di costruire insieme un mondo buono per le future generazioni (Ingold 2018: 106).
Nel rimescolamento delle categorie spazio-temporali dell’epoca che stiamo vivendo parlare di nostalgia del passato o di nostalgia del futuro è, come ci mostra Vito Teti, praticamente la stessa cosa: l’etica della responsabilità cui saranno chiamati gli esseri umani potrebbe essere il discrimine fra la salvezza e il collasso. Nessuno ovviamente ha la sfera di cristallo rispetto all’avvenire, ma in tempi di crisi molti dei suggerimenti fin qui discussi appaiono particolarmente adatti per ripensare noi stessi in rapporto agli altri e all’ambiente, e per inventare il futuro attingendo (anche) al passato. Come scriveva Percy Bysshe Shelley, per guardare avanti è quanto mai necessario «imparare a immaginare ciò che conosciamo».
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Proviamo ad esempio a immaginare scorie radioattive che ci sopravvivranno per 24 mila anni e che, pur stoccate in relativa sicurezza in qualche luogo nascosto ai nostri occhi, ci introducono oggi, nel presente, a scale temporali difficilmente concepibili per un essere umano.
[2] Riposa qui, in effetti, uno degli effetti più paradossali dell’Antropocene: più l’uomo si trasforma in una forza biologica capace di scompaginare gli equilibri ambientali, più l’irruzione di Gaia lo mette di fronte a entità non umane incontrollabili. Seguo qui il ragionamento che Danowski e de Castro (2017: 29) sviluppano sulla base delle argomentazioni di Dipesh Chakrabarty e Isabelle Stengers.
[3] Ovviamente tale considerazione va temperata: la catastrofe, occultata da certo ottimismo, ha continuato a rappresentare una pista che, con la sua fascinazione per crolli, rovine, rivolgimenti, teleologici fini della storia, ha percorso tutta la storia dell’Occidente e ha alimentato meta-riflessioni filosofico-letterarie e produzioni audio-visive di genere per tutta la modernità e oltre. Ciò che ancora oggi fa fatica a trovare spazio in alcuni ambiti scientifici e narrativi, invece, è una seria riflessione sui cambiamenti climatici (cfr. Danowski, Viveiros de Castro 2017; Ghosh 2017; Meschiari 2019).
[4] Ragionando sui tempi lunghi dell’evoluzione geologica, Telmo Pievani giunge a considerazioni analoghe: l’avvento dell’uomo, scrive, è il frutto «della fine del mondo degli altri e […] di imprevedibili cambiamenti catastrofici che hanno segnato da sempre la presenza della vita sulla terra» (Pievani 2012: 127). Da questa evidenza scientifica dovrebbe discendere, a suo avviso, una radicale assunzione di responsabilità, un «dovere antropologico alla lungimiranza» (ivi: 149): in vista della continuazione dell’esperimento Homo sapiens, è quanto mai necessario far tesoro della storia della vita sul pianeta, nella consapevolezza che l’ambientalismo del futuro sarà la più alta forma di umanesimo (ivi: 150).
[5] Teti, citando David Quammen, si domanda (retoricamente) se davvero la responsabilità della pandemia possa essere ascritta ai chirotteri, animali notoriamente schivi e diffidenti, oppure se debba ricadere interamente sull’uomo che invade, altera e devasta gli ecosistemi più disparati (Teti 2020: 91).
[6] Secondo le cronache, si calcola che tra il XVII e il XVIII secolo nel centro-est Europa (la patria folklorica dei vampiri) le autorità politico-religiose abbiano registrato circa trentamila casi di vampirismo. Attraverso un’attenta lettura dello spazio politico-culturale dell’epoca, Teti allora scrive (2018): «l’epidemia vampirica può essere osservata come esplosione scomposta e diffusa di casi d’angoscia e di aggressioni da incubo che non trovano più risoluzione, secondo consolidate tecniche, negli orizzonti culturali tradizionali».
Riferimenti bibliografici
Arpaia B. 2016, Qualcosa, là fuori, Guanda, Parma.
Danowski D., Viveiros de Castro E. 2017, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano (ed. or. 2014, Ha mundo por vir? Ensaio sobre os medos e os fins).
De Martino E. 2019, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino (prima edizione 1977).
Geertz C. 1988, Interpretazione di Culture, il Mulino, Bologna (ed. or. 1973, The interpretation of Cultures);
Ghosh A. 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza Editore, Vicenza (ed. or. 2016, The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable).
Ingold T. 2018, Anthropology. Why it Matters, Polity Press, Cambridge.
Ingold T. 2019, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano (ed. or. 2013, Making: Anthropology, Archaelogy, Art and Architecture).
Meschiari M. 2019, La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria, Roma.
Morton T. 2018, Iperoggetti, Nero Editions, Roma (ed. or. 2013, Hyperobjects. Philosophy and Ecology after the End of the World).
Pievani T. 2012, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, Il Mulino, Bologna.
Shelley P.B. 2013, In difesa della poesia, Mimesis, Milano (ed. or. 1821, A Defence of Poetry).
Teti V. 2018, Il vampiro e la melanconia. Miti, storie e immaginazioni, Donzelli Editore, Roma.
Teti V. 2020, Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus, Donzelli Editore, Roma.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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