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Antropologia dell’imperfezione

mini_magick20240922-1-60azb2di Aldo Pisano 

Il progetto di antropologia radicale che Albert Piette propone nel libro Existential Art, learning to look. An essay on radical anthropology (Il Sileno edizioni, 2024) tenta di risolvere il rapporto fra oggettività/stasi e soggettività/dinamismo dell’identità. Il progetto di Piette apre questioni non solo teoretiche ed epistemologiche, ma anche di carattere ontologico. Il problema centrale è infatti come possa lo sguardo cogliere l’identità di un fenomeno/soggetto pur nel suo mutare e se, di fatto, possa esserci un’identità fissa e non fluida. Piette riattualizza, in senso antropologico, il dilemma classico della nave di Teseo e dell’identità dell’io: «An anthropology of the human being requires a description of the different forms of incompleteness. If we look at a group of individuals interacting together, we run the immediate risk of absorbing the flaws and imperfections of each individual. This is something that few sociologists or social anthropologists have avoided».

Obiettivo generale del saggio, dunque, è quello di pensare allo sguardo dell’artista come la base dell’antropologia, prima che intervengano metodi di ricerca rigidi e strutturati, così che l’antropologo possa osservare passivamente, ancor prima di intervenire attivamente nella rappresentazione organizzata del fenomeno-identità. Proprio nella caducità, transitorietà, dinamicità si apre la natura dell’essere umano in senso originario: nella sua irrequietezza e mutabilità.

La volontà di non cedere a una narrazione artificiosa è di fondamentale importanza per Piette, anche nello stile in cui articola il testo che non presenta una suddivisione in capitoli, ma in macro-sezioni tematiche: “The artist who looks”; “Absolute Style”; “Rilke or advice to a young anthropologist”.

Il saggio si apre come un invito all’ibridazione metodologica incentrata sula parzialità e obliquità dello sguardo; non a caso, il primo riferimento a Leonardo Da Vinci e alla sua capacità di osservare i fenomeni da prospettive diverse, costituisce uno dei punti di partenza per raccontare come lo stesso oggetto possa facilmente essere rappresentato in forme diverse: sia in riferimento all’eterogeneità di uno stesso sguardo, sia in riferimento a quella di sguardi diversi.

Non è un caso che l’antropologia esistenzialista di Piette richiami un termine che echeggia molto nelle filosofie del Novecento: esistenza. Proprio la filosofia dell’esistenza, come Lebensphilosophie, filosofia della vita, trova uno dei suoi rappresentanti in Wilhelm Dilthey che, a proposito di visione del mondo (Weltanshauung), osservava come le prospettive delle scienze dello spirito (Geisteswissenshaften) e quelle della natura (Naturwissehschaften), fossero equiparabili in quanto metodo di osservazione, pur mutando la rappresentazione dell’oggetto, nonché l’oggetto stesso: è lo sguardo che dà forma al mondo.

Nella prima macro-sezione “The artist who looks”, riprendendo Catherine Beaugrand, Piette definisce la “existential art” come «works that directly concern the human being, his existence, the sequence of moments, the loss of moments, or that invite us to think about an epistemology for observation and description». L’arte, in questa prospettiva, diviene uno strumento epistemologico che indaga sull’immenso volume, inquantificabile, della vita umana che è necessariamente tridimensionale, mai piatta. Questa tridimensionalità appare nel momento in cui l’essere umano manifesta la sua intrinseca natura relazionale e sociale; nel suo mettersi in relazione, in rapporto dialettico con lo sfondo a cui appartiene, il soggetto emerge sia nel suo solitario distacco (indice dell’unicità), sia nella sua appartenenza all’altro.

le-volume-humainPiette, geometricamente, propone una prospettiva sull’arte esistenziale che, al pari dell’antropologia esistenziale, interpreti la vita umana come mutamento, come dinamismo provocato dallo scambio continuo con l’ambiente, con sé stessi, con gli altri, con il mondo, riassumibile nella parola francese evocata dall’autore: «flux». Così, la soggettività è un processo aperto, mai chiuso e definitivo: «there would be no substance, no delimitation, only openness, relationships, flows and permanent differentiation».

Eppure, per il progetto di un’antropologia radicale, è necessario assumere la prospettiva completamente inversa: una visione chiusa, rigida e sistematica della soggettività e della natura umana. Questo è il modello paradossale proposto da Piette che dedica la prima analisi al “to look” – inteso come processo attivo e attento – rispetto al “to see” – inteso invece come atto passivo. Proprio come l’artista, l’antropologo deve costruire un proprio sguardo, una propria prospettiva sulle cose; ma per farlo deve prima di tutto imparare a guardare. La proposta contro-intuitiva di Piette e della sua antropologia radicale è rivoltare questa prospettiva epistemologia e rappresentazionale dell’antropologo; infatti, l’antropologo prima impara attivamente e intenzionalmente a guardare, ma poi deve imparare a osservare passivamente.

Partendo dalla questione relativa allo sguardo dell’artista, ossessionato dall’osservazione, che apre il dibattito teorico sull’imitazione nel rapporto fra forme definite e precise e forme imprecise, Piette propone di riportare questo nel campo proprio dell’antropologia: «Imitating, not imitating, copying, not copying, representing, not representing, figuring, not figuring, creating and not creating a likeness: all this in confrontation with the movement of things, their distance, their depth, the screen that is the artist’s vision. I’m not saying that we should resolve the question of imitation, or more precisely resemblance, still less that art should be imitation, I’m saying that we should put them back at the centre of the anthropological debate».

Innervando la prospettiva dell’artista sullo sguardo antropologico, la proposta di Piette – condotta anche per mezzo di molti riferimenti a Giacometti – fa emergere il contrasto nella descrizione della realtà e dell’identità del soggetto nel suo moto oscillatorio fra l’essere in continuo movimento e dinamismo (identità come flusso e io cangiante) e l’identità come nucleo stabile, fisso, spesso raccolto da uno sguardo esterno: «And artistic forms can help to do this. In this way, the anthropology of the human being creates a loophole in the theory of the social sciences, by proposing to explore the unmaking together, the unbinding, the separation, as fundamental and permanent realities».

Qui la contraddizione si scioglie nella prospettiva dell’autore: proprio la particolarità del soggetto, la sua individualità, nel mutare, è ciò che rende il soggetto unico e quindi stabile. È paradossale, ma è così, analizza Piette; e proprio l’arte insegna come, anche nel suo continuo mutare e cambiare, la realtà di una cosa possa essere colta in quanto essenza stabile: «Describing and analysing a singularity means identifying regularities and constants in each one, from which comparisons can be made. This is what science does for a plethora of other ‘topics’». Questa singolarità, nel suo mutare, è qualcosa di concettualmente fisso: è la caratteristica ricorrente e trasversale che permette di stabilire l’identità di qualcosa. Per l’antropologia, come per l’arte, ciò che conta è la mancanza di qualcosa, che poi diventa essenza della cosa stessa; questa è ciò che permane, che determina la haecceitas di memoria scotista, e che si continua irrimediabilmente a non osservare, in quanto si è focalizzati su ciò che permane, per riuscire a intrappolarlo, definirlo, descriverlo con completezza e rigore metodologico. Scrive riassuntivamente Piette: «It is up to the anthropologist, then, to grasp singularity and incompleteness, to look, to observe meticulously, not to forget that there is a reality, to analyse, to conceptualise, to do scientific work, as we say. In any case, art has learned to distinguish between the axioms of anthropology and those of the social sciences (of which social anthropology is a part). The latter posit the existence and significance of social phenomena. A radical anthropology, as the science of human beings, – it would then be existential anthropology -, would start from the following axioms: the separation of human beings, their difference or singularity, the incompleteness of their acts, gestures and words».

71q0nmvrzsl-_uf10001000_ql80_Nella seconda macro-sezione “Absolute Style”, l’analisi di Piette si basa su riferimenti fitti alla poetessa argentina Alejandra Pizarnik: lo stile assoluto potrebbe anche essere un modo di vivere che l’antropologo coltiverebbe: esitazione, sensibilità, lucidità, ritiro. L’antropologo non sarebbe colui che vive con gli altri, ma colui che osserva relazioni incompiute, immerso nel chiasso di circostanze e situazioni. Da qui, emerge il ruolo contraddittorio dell’antropologo, al pari di quello del poeta che vuole cogliere insieme solitudine del soggetto e il suo essere-in-relazione. Gli antropologi non si accontentano solo di osservare. L’antropologo ama immaginare un mondo di solitudini, in cui ogni persona è separata dalle altre, irriducibile alle altre, lucida sui rapporti che non possono che fallire: un mondo di ritiro e, quindi, di non violenza, un mondo in cui ciascuno comprenda che esiste soltanto l’altro e null’altro. Preferisce questo mondo a quello degli esseri umani che sono diventati ipolucidi, incapaci di conoscere e di andare fino in fondo alle cose.

Questa dicotomia fra l’individualizzazione e l’essere in relazione è una riflessione genuninamente esistenzialista; un modo proprio di guardare che coglie il soggetto in quanto individualità indipendente dagli altri, ma allo stesso tempo nel suo essere immerso in un mondo di relazioni. La dimensione individuale, nascosta, colma di paura è quella che maggiormente contraddistingue la soggettività; ed è quella che diviene di maggiore interesse per l’antropologia, di contro alle tendenze tradizionali dell’antropologia sociale. Quello che conta è il mondo del sottosuolo (Dostoevskij), il mondo della caverna (Platone): «The anthropologist is this man in the underground, who wants to see and speak reality, but he is not in the deepest part of the underground, as Pizarnik or the Dostoyevskian character were. Black is certainly the blackness that is the human being. It is also the darkness that confronts the researcher observing and trying to understand the human enigma. It is also the darkness of truth. But black can be decomposed. It contains other colours».

Per rendere il senso di questa auto-osservazione, Piette innalza a forma di scrittura fondamentale quella diaristica. Tuttavia, egli non la fa rientrare nell’autobiografia – qui intesa come narrazione lineare e riflessiva – quanto nell’autografia – ossia un racconto di sé smorzato, a volte ripetitivo, non lineare.

La terza sezione intitolata “Rilke or advice to a youg anthropologist” è sia una dedica a Rilke, sia una sua rilettura, affinché possa diventare uno strumento epistemologico sui generis per gli antropologi. L’opera di Rilke, infatti, riassume i diversi temi incontrati nel corso delle precedenti pagine: «the gaze and observation, solitude and the singularity of the person, relationships and the common, the relationship to context and intellectual modes».

9788806223281_0_0_536_0_75Tra i principi che Piette riprende da Rilke come suggerimento per gli psicologi vi sono: (1) la solitudine, dunque la possibilità per l’antropologia radicale di essere altro, di rompere con gli schemi, incentivando la vita da outsider: «Let the radical anthropologist discard the need for approval from outside, from institutions and their rewards»; (2) l’osservazione, in questa attitudine passiva, l’antropologo accoglie l’inatteso, l’inaspettato senza applicare filtri di lettura della realtà esterna: «A gesture in the process of being made, of springing forth. The anthropologist is faced with what is there. He observes it, notes it. He is astonished by it as he is by the birth of life. He notices a weight, a tension, a balance, a strength, a fragility, a disturbance. He waits, he almost submits to the one who moves. He waits for the movements of the face and body, thinking that he is going to see gestures he has never seen before»: l’antropologo accetta il reale che si impone; (3) distintività, per cui l’antropologo osserva le forme uniche esistenti di ogni essere umano, forme in movimento e sviluppo; anche se per cogliere l’unicità nella molteplicità è necessario saper osservare l’interezza che origina tale unicità; (4) relazione, che assume come punto di partenza la solitudine del soggetto che, nel suo avvicinarsi all’altro, continuamente fallisce, restituendo il valore della solitudine e dell’individualità per allontanamento.

La quarta parte, intitolata “The ball and the drawing” chiude il breve ma intenso libro di Piette. Il capitolo prende le mosse dall’arte di Marcel Duchamp. Come succede per le opere di Duchamp, per l’antropologo guardare a un essere umano è l’esatto opposto di mettere le cose in una prospettiva, ma anzi destituirla in quanto rappresentazione costruita razionalmente e filtrata. Di estrema importanza, per l’arte come per l’antropologia, diviene lo sfondo. A questo proposito Piette rievoca alcune riflessioni di Heidegger in riferimento alla descrizione di un tempio greco e contenute in L’origine dell’opera d’arte. Il tempio è presente come soggetto principale della rappresentazione ma, paradossalmente, permette allo sfondo di emergere. Questo rapporto dialettico fra soggetto e sfondo che, seppure fa emergere con preponderanza chi è in primo piano, permette di considerarlo in quanto esso è posto in relazione ad altro (lo sfondo); così, l’antropologo, nell’osservare l’identità individuale, non può non considerarla in relazione ad altro, in quanto contesto-dipendente. Proprio da questa relazione biunivoca emergono l’uno e l’altro nella loro interdipenenza (e indipendenza) grazie alla contro-spettiva: «The motifs of an existential art, like an existential anthropology, are at play: the singularity of a being, detached from the rest – not to lose it -, the resemblance, the continuity of its moments – not to lose them -, its disappearance».

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 

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Aldo Pisano, si è laureato in Scienze Filosofiche nel 2018 all’Unical, svolgendo un lavoro di ricerca per la tesi in etica e antropologia della tecnica con Carlo Rovelli, all’Università di Marsiglia. Collabora con la cattedra di Bioetica ed etica del digitale e Antropologia Filosofica presso l’UNICAL con la prof.ssa Ines Crispini e attualmente è dottorando in Learning Sciences and Digital Technologies per il settore di ricerca di Filosofia Morale. È socio della Società Italiana per l’Etica dell’IA, della Società Filosofica Italiana e della Società Italiana di Filosofia Morale; dal 2021 è membro del Direttivo Nazionale “Inventio” (Filò – Università di Bologna). È redattore per MagIA (Università di Torino) e per Ritiri Filosofici. I suoi principali ambiti di ricerca riguardano l’etica dell’Intelligenza Artificiale, l’etica narrativa e la didattica della filosofia. Ambiti in cui ha diverse pubblicazioni in italiano e in inglese.

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