di Francesco David
Cos’è lo sviluppo? Cosa possiamo intendere con tale termine, in particolare dal punto di vista dell’antropologia? Una riflessione sull’argomento al giorno d’oggi sembra più che legittima. Anzi, se pensiamo a questioni come le conseguenze derivanti dai cambiamenti climatici o il sempre crescente divario tra ricchi e poveri, che mettono a nudo tutte le storture e i fallimenti della modernità e del capitalismo globalizzato, la discussione sembra addirittura urgente.
Ad ogni modo, è bene specificarlo, il seguente articolo non vuole essere un resoconto storico dello sviluppo come concetto in sé, o come insieme di modelli teorici e pratici, cioè di quella che viene comunemente definita Cooperazione allo sviluppo. Né tantomeno intende essere uno studio sulla cosiddetta Antropologia dello sviluppo. L’articolo, piuttosto, vuole gettare uno sguardo sulle complesse relazioni che si sono andate costruendo e definendo tra l’antropologia come campo disciplinare e scientifico e le varie concezioni prevalenti in merito allo sviluppo [1]. Tale rapporto è costituito da momenti spesso carichi di interazioni e mediazioni, altre volte di tensioni e conflitti.
Si può dire che il concetto di “sviluppo” rappresenti uno dei grandi miti della seconda metà del XX secolo, allo stesso modo come quello di “progresso” lo è stato per il periodo dell’Illuminismo e quello di “evoluzione” per la seconda metà del XIX secolo (Pavanello, 2007). La disciplina antropologica, a ben vedere, fa propria la nozione di sviluppo a partire dai concetti di “imperialismo europeo” e “ideologia del progresso”, che hanno contraddistinto la nascita e il carattere dell’antropologia culturale di matrice evoluzionista agli esordi del processo di formazione di questo campo specifico delle scienze sociali (Miduri, 2007:103). Le stesse scienze dell’uomo sono nate, verso la fine del XIX secolo, da una configurazione di rapporti tra potere e sapere da cui è emerso il carattere eurocentrico delle nuove forme di conoscenza. Nella stessa antropologia, dapprima considerata la scienza delle società “primitive” e “tradizionali”, si può leggere in una certa misura la storia dei rapporti di dominio tra centro e periferia (Kilani, 1994). Anche l’idea che il progresso contraddistingua la storia dell’uomo può essere ricondotta – come è noto – al positivismo delle scienze naturali e sociali della seconda metà dell’800 e alla convinzione che la società industriale rappresenti il più alto stadio di modello di società lungo un’evoluzione culturale di natura cumulativa.
Questa idea di sviluppo trova fondamento in una visione lineare della storia, di derivazione cristiana, che porta i primi antropologi evoluzionisti a identificare il progresso con la crescita e a considerare il cambiamento come un mezzo graduale e una trasformazione necessaria affinché si possano raggiungere forme più evolute di società. Secondo questa prospettiva, infatti, la storia non sarebbe altro che un processo di trasformazione da uno stadio culturale inferiore a uno superiore, da forme di società semplici ad altre più complesse. Gli evoluzionisti culturali, da questo punto di vista, ritengono che tutti i gruppi umani si evolvano nel tempo lungo una stessa scala evolutiva, e che i popoli cosiddetti “primitivi” incarnino stadi di sviluppo passati, ormai superati dalle società occidentali. Per gli antropologi evoluzionisti, allora, il progresso rappresenta un concetto sintetico attraverso il quale è possibile esprimere contemporaneamente le idee di cumulatività e di continuità culturale (Fabietti, 1991).
Nel corso dei primi decenni del Novecento, il concetto di sviluppo risente dell’influenza della crescita economica e tecnico-scientifica che caratterizza gran parte del secolo, legandosi a filo doppio alla nozione, dominante nelle società industrializzate, di progresso. Tale fattore contribuisce a far apparire lo “sviluppo” stesso come una specie di mito di fondazione delle società occidentali. In effetti, dal secondo dopoguerra in poi, esso diviene una sorta di “imperativo della storia” cui devono partecipare tutti i popoli della terra. Ed è sulla base di questa concezione di sviluppo, infatti, che nel 1949 il presidente americano Truman, in un celebre discorso al Congresso[2], richiama l’attenzione sulla condizione dei Paesi più poveri, definendoli per la prima volta “sottosviluppati”, dando così vita alla dicotomia tra sviluppo e sottosviluppo. Secondo questa distinzione, da una parte vi sono i Paesi occidentali industrializzati come espressione di un modello di modernità al quale tutte le società umane devono tendere, e dall’altra parte tutte quelle popolazioni che non sono più definite per delle proprie caratteristiche positive, ma per essere privi di quel carattere fondamentale che è per l’appunto lo sviluppo.
In questa fase storica, quindi, il concetto di sviluppo viene inteso principalmente nella sua accezione economica, ovvero come un processo che deve porsi due obbiettivi principali: la crescita della produzione e l’aumento dello standard di vita della popolazione. I Paesi sottosviluppati, da questa prospettiva, possono ottenere tali risultati solo tramite l’aiuto dei Paesi industrializzati, aiuto che deve concretizzarsi sotto forma di trasferimenti finanziari, di assistenza tecnica e ampliamento degli scambi commerciali. L’approccio prevalente si basa non a caso sulla “Teoria degli stadi” di Rostow (1960), secondo cui il passaggio da società agrarie tradizionali a società industriali è formalizzabile in una serie di fasi che risultano diverse da Paese a Paese per quanto riguarda i tempi, l’intensità e le modalità, ma sono indispensabili ovunque per configurare un processo di industrializzazione in senso proprio. In sostanza, lo sviluppo, sul modello evoluzionista, rappresenta la chiave d’accesso verso l’ideale universale della “modernità”, da raggiungere attraverso la crescita economica e l’industrializzazione, in un processo considerato uni-lineare, continuo, cumulativo e irreversibile.
Dalla metà degli anni 50 iniziano ad affacciarsi critiche sostanziali a questa concezione prevalente di sviluppo [3]. Il dibattito che ne deriva porta con sé due importanti considerazioni: da un lato l’esigenza di estendere l’analisi teorica anche ad ambiti diversi dalle semplici variabili macroeconomiche; dall’altro, la necessità di considerare le profonde differenze che caratterizzano i Paesi sottosviluppati, sia al loro interno che, soprattutto, nelle relazioni con il centro.
Antropologia applicata e Antropologia dello sviluppo
Nel 1961, dopo il cosiddetto anno della decolonizzazione, le Nazioni Unite proclamano gli anni che vanno dal 1960 al 1970 come il Primo Decennio dello Sviluppo, a consacrazione dell’obbligo morale dei Paesi economicamente avanzati di aiutare i Paesi arretrati ad uscire dal loro stato di sottosviluppo. In questo senso, lo sviluppo diviene non solo un termine chiave nei rapporti tra Paesi ma anche un sistema di pratiche e strutture organizzate. Emerge l’assunto, infatti, che determinati processi di cambiamento si possano affermare solo tramite la messa a punto di politiche, strumenti e organizzazioni qualificate. Questa è la ragione principale che porta a percepire lo sviluppo anche in una prospettiva essenzialista, ovvero, nel Sud del mondo come una realtà che deve essere importata, mentre nel Nord del mondo come un complesso di saperi e pratiche altamente specializzati. L’Antropologia, nell’ambito del processo interno di specializzazione, giunge a reclamare il suo spazio in quanto settore disciplinare e scientifico funzionale alla messa a punto, alla gestione e alla valutazione delle operazioni legate al complesso sistema dello sviluppo (Pavanello, 2007).
La cosiddetta “antropologia dello sviluppo”, per l’appunto, trae storicamente origine da una più ampia e generale “antropologia applicata” (van Willigen, 1993; Ervin, 2000; Malighetti, 2001) che, soprattutto a partire dagli anni 60, sia in Europa che negli Stati Uniti, punta a una certa professionalizzazione degli studenti di antropologia. Molti giovani antropologi, infatti, non avendo accesso al mondo accademico, trovano sbocchi lavorativi presso altre istituzioni, agenzie internazionali, società di consulenza, di aiuto comunitario, di beneficienza e di cooperazione. Ed è dall’insieme di queste attività che, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, prende avvio la new applied anthropology, intenta a concentrarsi su tematiche inerenti la salute, l’ambiente, l’istruzione, i diritti umani e, naturalmente, lo sviluppo.
L’emergere dell’antropologia dello sviluppo, così come l’incontro tra antropologia e istituzioni deputate allo sviluppo, avviene per diverse ragioni. Già a partire dai primi anni 70 i fallimenti dei grandi progetti ad alta intensità di capitale avevano costretto le istituzioni internazionali e quelle dei singoli Paesi a rivedere le loro strategie politiche e a prestare maggiore attenzione allo sviluppo rurale e ai bisogni delle comunità locali. Proprio in questi anni, infatti, si delinea la cosiddetta “Teoria dei basic needs”, che ribalta l’ordine di priorità configurato nell’approccio prevalente, ponendo al primo posto dei progetti di sviluppo non la crescita economica, bensì il raggiungimento di un livello minimo di vita per le fasce più povere della popolazione. L’approccio dei basic needs implica il rifiuto del colonialismo culturale e del modello occidentale di sviluppo, poco rispettoso delle diversità culturali, e auspica uno sviluppo endogeno che consideri l’essere umano come agente e referente di uno sviluppo non solo economico ma, soprattutto, sociale.
L’antropologia dello sviluppo, allora, compare proprio grazie al manifestarsi di proposte locali di sviluppo autonomo in contrapposizione ad una cooperazione internazionale che indica la “via” allo sviluppo e al fatto che gli antropologi si trovano sempre più spesso ad interagire, nel terreno d’indagine e della ricerca, con tecnici e professionisti di Organizzazioni Governative e Non Governative, o con interlocutori nativi coinvolti in processi di mutamento sociale pianificato (Zanotelli, Lenzi Grillini, 2008:14). Le nuove politiche di sviluppo, in effetti, cominciano a prendere in considerazione l’idea della partecipazione delle comunità coinvolte nei processi indotti e la necessità di elaborare progetti costruiti su una maggiore e migliore conoscenza dei contesti sociali e culturali in cui si opera. Tutto ciò conduce, ovviamente, a un atteggiamento più favorevole nei confronti delle capacità professionali degli antropologi.
Il paradigma teorico di mutamento sociale e culturale in voga in questa fase richiede così l’intervento nelle operazioni legate allo sviluppo della figura dell’antropologo in quanto studioso in grado di penetrare la realtà locale e capace di istituire un rapporto diretto con i beneficiari interessati. Tale conoscenza socio-culturale della popolazione locale, mediata dall’antropologo, diviene funzionale al che il progetto di sviluppo sia compreso, accettato e realizzato. Si afferma in pratica la necessità di reclutare esperti provenienti da discipline sociologiche e antropologiche il cui contributo deve essere offerto in tutte le fasi del ciclo progettuale, e non solamente ex-post per spiegare cosa non ha funzionato. Prima di allora, invece, il personale da impiegare nella cooperazione era selezionato esclusivamente sulla base di competenze specifiche tecnico-scientifiche ed economico-finanziarie. In questo modo, la sfida dello sviluppo, nel cosiddetto Terzo Mondo e non solo, offre uno straordinario campo di applicazione agli antropologi che, attraverso le ricerche sul campo, possono descrivere, analizzare e comprendere le diverse azioni di sviluppo e gli impatti sulla popolazione locale.
Lo sviluppo, da questa prospettiva, non viene inteso come un obbiettivo da perseguire o da raggiungere, né tantomeno come un ideale, ma fa riferimento all’azione sociale esercitata da diversi attori, come appunto le istituzioni, lo Stato, le imprese e i volontari autonomi, i quali cercano di modificare la vita sociale, politica, tecnica ed economica di un dato luogo del pianeta (Miduri, 2007:104). Il mondo della cooperazione internazionale e il sistema degli aiuti umanitari, in questo senso, vengono considerati oggetti primari dell’analisi antropologica. In effetti, si può dire che l’affermazione di una specificità antropologica nell’ambito delle ricerche sullo sviluppo si costituisce intorno all’analisi etnografica sia dei progetti di cambiamento pianificato che del funzionamento della macchina organizzativa della cooperazione internazionale (Colajanni, 1993; Ferguson, 1994; Arce, Long, 2000a).
Più o meno a partire dagli anni 70, quindi, l’antropologia si propone come uno strumento tecnico e scientifico volto a migliorare la qualità dei progetti di sviluppo e a contribuire a un radicale mutamento. Si fa strada la convinzione che le conoscenze e le pratiche antropologiche, tramite la comprensione delle differenze culturali e delle strutture sociali della popolazione locale, presa ora in considerazione come major stakeholder e non più solo come recipient, possano contribuire concretamente ad apportare un miglioramento nelle condizioni di vita dei gruppi coinvolti negli interventi di sviluppo. L’impegno prioritario degli antropologi, in sostanza, si concretizza nel porre al centro dello sviluppo non i processi economici indotti dall’esterno, secondo la logica chiamata top-down, bensì le comunità umane, da una prospettiva che parta “dal basso”, ovvero secondo il paradigma definito bottom-up (Cernea, 1985).
Critiche all’Antropologia dello sviluppo: il «discorso dello sviluppo»
Lungo questo percorso l’antropologia dello sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, si afferma sempre più come subdisciplina relativamente autonoma, definita “development anthropology”. Inizialmente non si tratta di un campo di studi particolarmente omogeneo in quanto gli antropologi dello sviluppo non condividono ancora approcci teorici e metodologici comuni e coerenti. È invece a partire dagli anni 80 che la subdisciplina si attesta sempre più come un campo di ricerca comune, sia per raffinare i concetti e i metodi di applicazione dei saperi antropologici alle politiche e ai progetti di sviluppo, sia per migliorare la teoria e le pratiche stesse dello sviluppo. Contemporaneamente, grazie anche alle posizioni di una certa antropologia marxista, in Europa come negli Stati Uniti si apre un grande dibattito sulle dinamiche sviluppo-sottosviluppo e sulla legittimità stessa dell’antropologia dello sviluppo. Dibattito che si va a coniugare con le critiche provenienti dalla cosiddetta “sfida postmoderna” e dal complesso dei “postcolonial studies”.
Se l’analisi postcoloniale cerca di produrre costrutti teorici fondativi di pratiche finalizzate alla trasformazione delle condizioni di sfruttamento dei popoli del Terzo mondo, l’approccio postmoderno si rivolge a una critica dei «fondamenti stessi del modo di conoscere che è alla base di un’azione di sviluppo e delle sue espressioni istituzionali» (Tommasoli, 2001:81). In questo modo, sulla base di un comune impianto teorico foucaultiano, questi due filoni danno vita, soprattutto a partire dagli anni 90, a una corrente di studi caratterizzata da un approccio “decostruzionista”, destinato appunto a decostruire le logiche, le narrative e le retoriche che ruotano attorno al concetto di sviluppo così come è percepito nel Nord del mondo. Come infatti fa notare l’economista francese Latouche (1997), i valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolar modo il progresso e la modernità, non corrispondono ad aspirazioni universali ma discendono dalla storia propria dell’Occidente e con molta probabilità non hanno alcun senso per altre società. Molti studiosi, pertanto, iniziano a porre la loro attenzione sul cosiddetto “discorso dello sviluppo” (Escobar, 1991, 1995, 2005; Ferguson, 1994; Apthorpe, 2005), sostanzialmente concepito come una serie di narrazioni attraverso cui le grandi agenzie di sviluppo mondiali e transnazionali descrivono e giustificano le azioni che pianificano nel Sud del mondo.
Diversi autori si preoccupano di decostruire il discorso dello sviluppo nei suoi elementi costitutivi, presentandolo come una sorta di “narrativa” dell’egemonia occidentale (Verhelst, 1990; Hobart, 1993; Fairhead, 2000). Altri tentano di metterne in luce la natura di prodotto culturale storicamente determinato (Latouche, 1989; Gardner, Lewis, 1996; Rist, 1996). Da questo punto di vista, mettendo in discussione l’essenza ideologica dello sviluppo, l’analisi antropologica permette di evidenziare il potere di questa ideologia nella rappresentazione della realtà sociale, condizionata e falsata da appositi meccanismi attraverso cui il discorso dello sviluppo produce possibili modi di essere e di pensare, escludendone altri (Malighetti, 2005). Si può in effetti sostenere che la stessa «costruzione del Terzo Mondo attraverso i discorsi e le pratiche dello sviluppo deve essere vista in relazione all’intera storia della modernità occidentale, della quale lo sviluppo sembra essere uno degli ultimi e più insidiosi capitoli» (Escobar, 2005:190).
Muovendo da una prospettiva decostruzionista, molti autori giungono a formulare una critica radicale all’apparato dello sviluppo e alle sue strategie d’intervento sulla base della convinzione che le forme di conoscenza e di descrizione dei gruppi umani beneficiari dei progetti sono costruite e prodotte all’interno di un paradigma volto alla loro sottomissione neocoloniale. Sulla scia delle teorie foucaultiane, si tende a dimostrare che le retoriche del discorso dello sviluppo, producendo un’ideologia frutto di un modo spiccatamente occidentale di descrivere il contesto socioculturale ed economico teatro dei progetti, grazie all’utilizzo di categorie che individuano e reificano le priorità delle popolazioni beneficiarie secondo logiche a loro completamente estranee, non farebbero altro che condurre a una nuova forma di colonizzazione dei contesti in cui si va ad operare. Ferguson (1994), ad esempio, definisce l’apparato dello sviluppo come una “macchina antipolitica” che, mutando in problemi tecnici la maggior parte dei problemi sociali e politici, causa di povertà e disuguaglianze nel Sud del mondo, arriverebbe a frenare i movimenti dal basso e le loro potenzialità di critica al sistema.
Alcuni studi, dinanzi ai fallimenti degli interventi pianificati e alla resistenza imprevista dei popoli e dei sistemi culturali alla pressione sviluppista, propongono un ripensamento del concetto di sviluppo attraverso un’analisi critica delle caratteristiche delle politiche e delle pratiche di cambiamento (Mathur, 1990; Sachs, 1992). In questo modo, i risultati della riflessione antropologica conducono a una critica sia nei confronti del mondo della cooperazione internazionale che, per estensione, all’antropologia dello sviluppo. Muovendo dalle analisi etnografiche dei progetti di sviluppo promossi dalla macchina organizzativa, sociale e politica della cooperazione, si giunge alla messa in discussione del ruolo applicativo della disciplina stessa.
La ricerca antropologica, a ben vedere, studiando le cause di sviluppo e sottosviluppo e l’impatto dei piani di cambiamento e cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, analizza i fallimenti e gli effetti distruttivi di tali azioni «come il risultato delle relazioni di dipendenza con le società occidentali» (Malighetti, 2005). Nella prospettiva antropologica il concetto di sviluppo spesso serve per occultare precisi interessi economici e politici e, nell’approccio decostruzionista, è possibile svelare le strategie egemoniche volte a creare nuove forme di dipendenza tra i Paesi del “Terzo mondo” rispetto a quelli del “Primo mondo” (Zanotelli, Lenzi Grillini, 2008: 28).
Nel suo complesso, allora, la cooperazione allo sviluppo viene accusata di essere semplicemente una forma avanzata di neocolonialismo e imperialismo (Escobar, 1995; Sachs, 1992), esprimendo una sorta di continuità storica tra le pratiche occidentalizzanti di cambiamento pianificato del periodo coloniale e le attuali iniziative a favore dello sviluppo nei Paesi ex coloniali (Latouche, 1984, 1989; Verhelst, 1990; Colajanni, 1994; Malighetti, 2001). Non a caso, tali interventi vengono definiti da Fairhead (2000) come un triplice processo di “decivilization”, “depolitization” e “depossession”. La prospettiva postmoderna e decostruzionista, perciò, mostra come il discorso sullo sviluppo rimanga il principale strumento di legittimazione dell’interventismo “civilizzatore”. Questo funzionerebbe come un efficace dispositivo di potere nei confronti di popolazioni bersaglio, le quali spesso altro non sono che le ex colonie, così da perpetuare di fatto il rapporto di dominio tra il Primo e il Terzo mondo (Malighetti, 2005).
Lo sviluppo, dunque, viene considerato «come un’impresa etnocentrica, verticistica e tecnocratica, ancorata a una prospettiva evoluzionistica unilineare e alla categoria di progresso» (ibid.). Identificato con la crescita, per effetto della globalizzazione tende a trasformare le società «verso forme più perfette, celebrate nello sviluppo tecnico-scientifico ed economico occidentale, o meglio, dei suoi gruppi egemonici e dominanti» (ibid.). Come fa notare Colajanni (1993, 1994), nel corso del XX secolo si assiste all’esportazione di un “modello” che causa la cancellazione di gran parte degli altri modelli, tramite quella che viene definita “occidentalizzazione del mondo” (Latouche, 1989), un processo che genera un’uniformazione culturale planetaria e una “mimesi generalizzata”, ovvero l’asfissia della creatività culturale di tutte le altre culture e la standardizzazione dell’immaginario e del tempo (Latouche, 1997). Per tali ragioni, una buona parte della riflessione antropologica contemporanea tenta di focalizzarsi sull’analisi e lo studio delle resistenze ai tentativi omologanti di quella che Escobar (1995) definisce “egemonia dello sviluppo”, che vorrebbe imporre un’ideologia felice e rappacificata del neoliberismo globalizzato.
Antropologia, mutamento sociale e sviluppo
La critica postmoderna e decostruzionista produce reazioni molto differenti in seno all’antropologia, sia a livello teorico che pratico. Alcuni antropologi preferiscono abbandonare la ricerca etnologica e dedicarsi a forme letterarie di analisi e decostruzione; altri scelgono di orientare i loro studi sulle società del Nord del mondo; alcuni continuano a perseguire impegni di collaborazione nelle azioni di cambiamento pianificato; altri ancora optano per un’antropologia dello sviluppo intesa come analisi critica degli apparati nazionali e del sistema internazionale della cooperazione, nonché delle pratiche e delle politiche dello sviluppo (Pavanello, 2007).
È in questo modo che sorge la distinzione tra “antropologia dello sviluppo”, che nel contesto anglosassone viene definita “anthropology of development”, intesa come studio antropologico dello sviluppo pianificato come concetto, o come oggetto specifico di analisi critica, e l’antropologia “per lo sviluppo” e “nello sviluppo”. Queste ultime due vengono integrate, sempre nel mondo anglosassone, nella macrofamiglia della “development anthropology” (Grillo, Stirrat, 1997) e fanno riferimento, nel primo caso, al lavoro di traduzione e trasmissione da parte degli antropologi del loro sapere disciplinare in favore degli operatori dello sviluppo al fine di influenzare le politiche e i progetti di intervento, e nel secondo, al coinvolgimento degli stessi antropologi, nelle vesti di ricercatori o consulenti, all’interno dei programmi di sviluppo (Colajanni, 1994). Si tratta, insomma, dell’insieme di pratiche scientifiche e professionali di antropologia applicata alle azioni di sviluppo (Gardner, Lewis, 1996; Tommasoli, 2001) e destinate specificatamente ai pianificatori di progetti.
L’approccio decostruzionista, che come detto conduce una critica radicale all’apparato dello sviluppo, riceve esso stesso delle critiche. Grillo (1997), ad esempio, sostiene che gli autori decostruzionisti riversano un’eccessiva enfasi sugli aspetti di “onnipotenza” che caratterizzerebbero l’impianto dello sviluppo, rischiando in questo modo di “mitizzarlo”, anche se da una prospettiva profondamente critica. Il limite principale di questo approccio sarebbe quello di condurre ad una interpretazione fuorviante dello sviluppo, rappresentato come se fosse una macchina omogenea pressoché infallibile in cui tutte le sue parti e tutti coloro che vi fanno parte agirebbero seguendo un unico modello prefissato caratterizzato da una razionalità in grado di realizzare ovunque tali progetti egemonici nascosti (Tommasoli, 2001).
Pertanto, nonostante le critiche decostruzioniste e postmoderne all’apparato dello sviluppo, molti antropologi continuano a perseguire obbiettivi di coinvolgimento, sia a livello pratico che teorico, dell’antropologia nello sviluppo. Costoro, mentre riconoscono l’importanza di una critica etnografica istituzionale, sottolineano che le critiche più radicali hanno spesso sottovalutato i contributi positivi della disciplina antropologica al mondo della cooperazione allo sviluppo. Alcuni, infatti, pongono in evidenza come «la development anthropology sia sempre stata impegnata nella critica sistematica dei processi di sviluppo, nell’analisi critica di interventi che si rivelavano distruttivi, nella messa a fuoco delle complessità interne e delle differenze socioeconomiche nelle comunità oggetto di interventi, nonché nel continuo porre in discussione le assunzioni di principio, i concetti portanti e le teorie dello sviluppo» (Pavanello, 2007).
A questo proposito, Gardner e Lewis (1996), in Anthropology. Development and the Post-Modern Challenge, discutono il ruolo positivo dell’antropologia nella sfida postmoderna in termini di una capacità di sovvertire il discorso e le pratiche dello sviluppo dall’interno. I due studiosi sostengono innanzitutto che la distinzione tra “knowledge for understanding” e “knowledge for action”, avanzata da diversi autori sulla scia della distinzione tra antropologia dello sviluppo e antropologia nello sviluppo, sia sostanzialmente falsa in quanto la conoscenza antropologica non può prescindere dalla combinazione di entrambe le modalità del sapere. Per tale motivo essi affermano che, nonostante la relazione altamente problematica tra antropologia e sviluppo, gli antropologi dovrebbero comunque esservi coinvolti con il preciso obbiettivo di contribuire al mutamento del paradigma su cui è fondato il discorso egemonico dello sviluppo.
Gardner e Lewis propongono così di usare il termine “sviluppo” in riferimento ai processi di cambiamento economico e sociale indotti dalla crescita economica, ovvero da specifiche politiche e azioni condotte dagli Stati, dalle agenzie internazionali donatrici e dai movimenti sociopolitici indigeni. Lo sviluppo consisterebbe allora in una serie di eventi e azioni, nonché di discorsi e costrutti ideologici, che possono avere nel loro insieme effetti positivi o negativi sulle popolazioni locali che concretamente ne sperimentano gli esiti. Ciò non escluderebbe il fatto che alcuni aspetti dello sviluppo possano avere comunque conseguenze distruttive sull’ambiente culturale e sociale di riferimento e causare l’indebolimento delle capacità delle comunità locali di determinare il proprio presente così come il proprio futuro. La nuova prospettiva dell’antropologia dello sviluppo, quindi, si configura come capacità scientifica e professionale in grado di mettere in discussione il teorema dello sviluppo come valore per sé e di decostruire le relazioni sociali e politiche della povertà, intesa come una condizione di difficoltà o di impossibilità ad avere accesso alle risorse necessarie per la sopravvivenza.
I due autori sostengono che la ricerca antropologica deve perseguire nell’ambito delle politiche e delle pratiche dello sviluppo l’obiettivo di studiare i fenomeni locali di resistenza agli interventi di sviluppo contribuendo alla decostruzione di alcune dicotomie, come quella tra tradizionale e moderno, globale e locale, centro e periferia. Per raggiungere tale scopo, i concetti di riferimento per un’azione di sviluppo antropologicamente orientata vengono identificati nella logica della riduzione della povertà e della creazione delle cosiddette income-generating activities, cioè “attività generatrici di reddito”, con particolare riferimento alle questioni di genere, del microcredito, dell’associazionismo e della microimpresa. In questo quadro, il ruolo degli antropologi deve essere quello di reperire le informazioni necessarie sia per la valutazione dei bisogni e delle risorse locali, che per l’identificazione dei gruppi sociali suscettibili di entrare in gioco, i cosiddetti target groups, nonché di analizzare le relazioni di potere all’interno delle comunità locali, al fine di costruire un’arena di buona percezione reciproca e contribuire così alla creazione di un consenso diffuso.
Gardner e Lewis, per supportare questa loro innovativa prospettiva, fanno riferimento a diversi quadri teorici. Innanzitutto, si basano sulla nozione di community development, cioè “sviluppo comunitario”, ossia all’idea strettamente legata all’approccio cosiddetto integrato allo sviluppo in cui viene posta enfasi sulla necessità di collegare tra loro le differenti variabili sociologiche. Tale espressione si riferisce a quel processo attraverso il quale i membri di una data comunità compiono insieme azioni collettive in grado di generare soluzioni a problemi comuni. Questo processo poi è inscindibile dal concetto di empowerment, dal momento in cui un approccio integrato non può ormai fare a meno di prendere in considerazione e garantire il controllo sulle variabili sociali da parte della stessa popolazione soggetta ai mutamenti pianificati. Per tale motivo assume ulteriore importanza un approccio che tenga conto anche della nozione di “partecipazione”, divenuta ormai uno dei pilastri del discorso istituzionale contemporaneo sullo sviluppo (Tommasoli, 2001). Lo “sviluppo partecipativo”, in questo senso, implica il rovesciamento di prospettiva, sia teorica che pratica, per cui quei gruppi che venivano percepiti esclusivamente come beneficiari degli aiuti provenienti dalle azioni di cooperazione, quindi donne, minori, gruppi minoritari o vulnerabili, sono ormai divenuti i soggetti attivi e i protagonisti dei processi di empowerment e di sviluppo umano.
Post-sviluppo e “alternative allo sviluppo”
Come si è avuto modo di vedere, il filone di studi decostruzionista muove delle critiche radicali al mondo dello sviluppo, respingendone completamente la struttura ideologica e concettuale che lo sorregge. Nonostante ciò, questi approcci propongono anche aspetti costruttivi, che però si pongono al di là e al di fuori dei confini dell’apparato dello sviluppo. Per molti di questi autori, il futuro dell’antropologia dello sviluppo risiede nell’adozione di un atteggiamento critico nei confronti dei modelli dominanti delle pratiche di sviluppo, attraverso il riferimento al nuovo concetto di “post-development”, ovvero all’idea che il mito dello sviluppo definitivamente collassato deve essere sostituito da nuove priorità (Rahnema, Bawtree, 1997). Da qui, non più la ricerca di “forme di sviluppo alternative” ma piuttosto l’analisi delle “alternative allo sviluppo” in atto nelle pratiche dei movimenti e degli esperimenti innovativi dal basso.
Un esempio significativo di questo approccio ci viene fornito dal lavoro di Escobar (2005), il quale, dopo aver mosso una dura critica nei confronti dell’apparato dello sviluppo, propone un’era di “postsviluppo”. Con questo termine l’autore intende una dimensione nella quale i soggetti e i movimenti sociali esclusi dalla “macchina antipolitica” descritta da Ferguson possono riprendere voce ed escogitare strategie alternative finalizzate a ripensare lo sviluppo dal basso criticandone il suo carattere esclusivo. Secondo Escobar, infatti, l’epoca del postsviluppo vede emergere i movimenti sociali come «simboli di resistenza alle politiche del sapere e all’organizzazione del mondo dominanti» (2005: 214) e come forze capaci di re-immaginare il Terzo mondo. Questa prospettiva individua nelle forme di lotta dei gruppi e movimenti sociali di base l’unica speranza per disarticolare e rifondare la struttura capitalista mondiale che, nelle forme di un discorso ideologico ed etnocentrico, veicola soluzioni per la soddisfazione di quei bisogni interpretati come fondamentali dalle grandi agenzie internazionali, secondo metodi di valutazione ascrivibili alla razionalità della modernità occidentale, ma che in realtà sono molto distanti dalla pratica quotidiana delle persone e dal loro sistema di valori (2005: 211). Il ripensamento e la rielaborazione dal basso, quindi, di quelli che sono i reali bisogni che le persone sentono come necessari è alla base delle strategie di lotta e di organizzazione politica che i movimenti sociali mettono in atto per ridefinire e rifondare lo sviluppo.
Anche Malighetti (2005), sulla scia di Escobar, critica il sistema e le logiche della cooperazione allo sviluppo, proponendo un esempio di “alternativa allo sviluppo”. Fa riferimento ai favelados di Manguinhos a Rio de Janeiro, riuniti in una forma organizzativa che, mobilitandosi a livello locale tramite diverse azioni, favorisce l’associazionismo, educa alla cultura del diritto e della cittadinanza, incoraggia la coscienza critica degli abitanti della favela, promuove un’economia basata sulla solidarietà e la cooperazione fondata su progetti di microcredito. Si tratta di un’esperienza dal valore altamente significativo in quanto ci aiuta a comprendere come i movimenti sociali endogeni possano promuovere sostanziali processi di cambiamento dal basso, svincolati dalle logiche di dominio e di dipendenza insite in molti progetti di sviluppo pianificati dall’esterno. Tali cambiamenti vengono pensati e realizzati in favore di una crescita collettiva della comunità, e sono il risultato di strategie di rielaborazione critica di temi fondamentali relativi all’ambito culturale, economico, identitario e politico, in modo alternativo rispetto alle politiche macroeconomiche globalizzate (Zanotelli, Lenzi Grillini, 2008).
Un altro importante contributo è quello proposto da Arce e Long (2000b), i quali, riconoscendo l’intensità e la rapidità del cambiamento sociale contemporaneo e la capacità di auto-organizzarsi dei movimenti sociali di base, mostrano come i differenti messaggi vengano tradotti, reinterpretati e rielaborati da parte di attori localmente situati e organizzati. I due studiosi analizzano il modo in cui le idee e le pratiche della modernità vengano appropriate e re-inserite nelle pratiche locali attraverso la frammentazione e la dispersione della modernità in molteplici modernità costruite “dal basso” e in costante proliferazione. Gli autori, a tal proposito, adoperano il concetto di “contro-sviluppo”, preso a prestito da Galjart (1981), per evidenziare le controtendenze che emergono nelle rappresentazioni, nelle pratiche, nei discorsi, nelle forme organizzative, nelle istituzioni e nei forum costruiti dal basso, rispetto alle strategie della modernizzazione occidentale, mostrando in definitiva un dinamismo fondato sulla fusione, sulla mescolanza e sull’opposizione. Secondo Arce e Long, quindi, tale nozione di contro-sviluppo rappresenta un’utile prospettiva dalla quale osservare la formazione di nuove modernità “dal basso” e, allo stesso tempo, analizzare il modo in cui i programmi di intervento su piccola scala possono assumere un ruolo davvero significativo nel modellare i processi alternativi allo sviluppo. Il termine, inoltre, ci porta a riflettere sul fatto che il compito principale dei donatori esterni e degli scienziati sociali nelle azioni legate allo sviluppo non dovrebbe essere quello di gestire le incertezze o analizzare gli insuccessi dei progetti, bensì quello di sostenere le controtendenze, anche attraverso l’esercizio della pressione politica sui governi.
La socio-antropologia del cambiamento sociale
Un approccio diverso da quello decostruzionista viene proposto dalla cosiddetta antropologia actor-oriented [4], caratterizzata da una metodologia più attenta agli aspetti dialogici e riflessivi e dall’attenzione agli aspetti collaborativi e partecipativi dei processi di cambiamento sociale. Questa prospettiva mette in risalto le interpretazioni, le strategie, l’agency, da parte degli attori sociali in gioco, e il modo in cui si intersecano attraverso processi ibridi di mescolamento e accomodazione (Malighetti, 2005). Ciò aiuta a ridefinirne i posizionamenti ed eventuali spazi di manovra dei protagonisti sulla scena e non solo le loro reazioni agli esperimenti di ingegneria sociale identificati con la teoria o le strategie della modernizzazione.
Nell’ambito dell’antropologia dello sviluppo, tale approccio riflessivo invita a porre in discussione i modelli concettuali e organizzativi, le ipotesi di partenza, i pregiudizi teorici o quelli riguardanti i molteplici interlocutori in campo. In questo modo è possibile rilanciare la professionalità dell’antropologia nella cooperazione articolando la critica all’impostazione unilaterale e verticistica del moderno apparato tecnico-scientifico dello sviluppo con la considerazione negoziale degli interventi, concordati e riformulati in un continuo processo dialogico.
Un esempio di antropologia actor-oriented è quello proposto dall’antropologo francese Olivier de Sardan (2008). La sua è una socio-antropologia dello sviluppo che analizza quest’ultimo come oggetto di studio specifico e non come concetto del quale condividere o rifiutare le ideologie sottostanti. Si tratta essenzialmente di un metodo che lascia poco spazio alla prospettiva di un’applicazione, e quindi di un’implicazione diretta dei saperi antropologici nelle pratiche dello sviluppo, ma si orienta piuttosto verso forme di analisi di estrema importanza per la valutazione e il monitoraggio di queste pratiche.
Olivier de Sardan parte dalla constatazione che la maggior parte degli errori che si verificano nelle attività dello sviluppo risiede in quello che definisce «uno shock inferto dalla realtà agli operatori di sviluppo» (ibid.). Gli agenti dello sviluppo, in effetti, quando devono eseguire sul terreno i compiti tecnici che sono stati loro affidati, scoprono che i comportamenti degli attori locali sono spesso divergenti rispetto agli obiettivi tecnicamente programmati. Questo shock produce inevitabilmente delle false spiegazioni che legittimano comportamenti come la routinizzazione delle pratiche degli agenti, le rinunce di fronte a realtà che appaiono loro troppo complesse, la paradossale perseveranza negli errori, o la scarsa attitudine all’innovazione e all’adattamento.
Per tale motivo risulta di estrema importanza l’analisi delle rappresentazioni dello sviluppo che sostanziano quello che Olivier de Sardan chiama il “populismo sviluppista” degli attori della cooperazione internazionale. In particolare, è necessario svelare quei meccanismi di ordine morale e politico per cui lo sviluppo viene inteso come qualcosa che viene fatto per il “bene” degli altri (“paradigma altruista”), oppure che riguarda il “progresso tecnico ed economico” (“paradigma modernizzatore”). Entrambi questi paradigmi rappresentano le cosiddette “meta-ideologie” dello sviluppo, le quali determinano e legittimano gli obiettivi e i comportamenti degli agenti dello sviluppo. Meta-ideologie accompagnate da “infra-ideologie”, basate principalmente su alcuni stereotipi: l’idea, ad esempio, secondo cui l’Africa sarebbe il continente del “collettivo” nel quale l’elemento individuale si fonde e dissolve in quello comunitario, oppure la concezione del contadino come piccolo imprenditore individuale. L’individuazione di questi stereotipi, secondo Olivier de Sardan, e la loro rimozione sono pregiudiziali per evitare di commettere una serie di errori cruciali che, nel migliore dei casi, impediscono il raggiungimento dei risultati attesi e, nel peggiore, provocano effetti perversi e nocivi sulle comunità locali.
Da qui l’importanza di una socio-antropologia del cambiamento sociale che ponga come oggetto fondamentale di studio appunto le rappresentazioni degli stessi attori coinvolti nelle dinamiche dello sviluppo. Come infatti sostiene lo stesso autore: «L’antropologia del cambiamento sociale e dello sviluppo è in buona parte un’antropologia delle rappresentazioni» (ibid.). L’obbiettivo di questa socio-antropologia è quello di costruire una grande mappa incrociata delle rappresentazioni in grado di rendere comprensibile ciò che è veramente in gioco per gli attori coinvolti. Pertanto questo approccio metodologico si rivela piuttosto suggestivo in quanto, se da una parte consiste nell’individuare e smantellare i costrutti meta-ideologici e infra-ideologici dello sviluppo, dall’altra consente di pervenire a un piano di analisi delle reali dinamiche di interazione tra i protagonisti delle azioni legate allo sviluppo, proponendosi dunque come un indispensabile strumento propedeutico alla valutazione degli effetti di qualunque azione pianificata di modificazione di un dato ambiente sociale (Pavanello, 2007).
L’antropologia nello e per lo sviluppo
Per quanto riguarda quella che è stata definita la development anthropology, cioè l’antropologia nello e per lo sviluppo, si è detto che già a partire dagli anni 70 sono sempre più numerosi gli antropologi chiamati a risolvere problemi legati alle operazioni di cambiamento pianificato. «Nei loro posti di lavoro, queste persone possono svolgere molte funzioni, come quella di ricercatore per la formulazione di politiche per i più svariati settori della vita sociale, oppure le funzioni di valutatore (di bisogni sociali, o dell’impatto sociale di interventi), formatore, mediatore culturale, agente del cambiamento sociale e, persino, di terapista» (van Willigen, 1993). Questi ruoli possono andare quindi dalla raccolta e analisi delle informazioni alla partecipazione nella realizzazione di progetti, dal fornire supporto nella definizione di politiche e programmi al monitorarne gli effetti in termini di cambiamento sociale e culturale, fino alla formazione degli operatori dello sviluppo. Inoltre, l’attività degli antropologi si può riscontrare in una serie di declinazioni inedite per la disciplina, come la policy e l’advocacy anthropology (Ervin, 2000).
Sempre più spesso gli antropologi vengono interpellati dalle agenzie internazionali e governative come consulenti o come osservatori dei processi di sviluppo in atto nelle loro aree di interesse e di ricerca. I diversi contributi provenienti dalla cosiddetta “anthropological consultancy”, ovvero da quegli antropologi che svolgono ruoli di consulenza all’interno dei progetti di cooperazione, permettono di evidenziare le complessità insite in questa mansione e, inoltre, forniscono interessanti spunti provenienti da esperienze di campo che possono risultare utili ai pianificatori e ai realizzatori di progetti. Vi è infatti una crescente letteratura che, ritenendo oramai priva di senso la dicotomia tra sapere antropologico e azione sociale, avanza stimolanti riflessioni sul lavoro di consulenza come ambito della professionalità antropologica (Stirrat, 2000; Colajanni, 2012; Declich, 2012) e ribadisce l’utilità dell’ingresso degli etnologi nei contesti istituzionali attraverso i quali transitano gli aiuti internazionali come canale di accesso privilegiato, e talvolta imprescindibile, per la raccolta dei dati empirici (Gardner, Lewis, 1996; Mosse, 2005).
A livello pratico, le diverse tipologie di “expert report” eseguite dagli antropologi impegnati nei processi di cambiamento pianificato si inseriscono in un vasto spettro di possibilità. Ad esempio:
«le consulenze inserite all’interno di un programma di sviluppo e finalizzate ad una più proficua riuscita del progetto stesso, le consulenze per verificare l’impatto di un progetto, le perizie legali inserite all’interno di un processo giuridico che vede coinvolti singoli gruppi etnici o popolazioni indigene, quelle finalizzate alla proposta di risarcimenti e indennizzi per comunità danneggiate o parzialmente lese dalla realizzazione di un progetto nella regione in cui queste ultime vivono, e infine le perizie nelle quali l’antropologo è incaricato di esprimere un parere tecnico sull’estensione geografica di un territorio rivendicato da un popolo indigeno come proprio e tradizionale» (Zanotelli, Lenzi Grillini, 2008:43-44).
Inoltre, sempre più spesso accade che gli antropologi svolgano consulenze non solo per conto dei governi, delle grandi agenzie internazionali o delle ONG, ma anche per commissione delle stesse organizzazioni indigene.
In definitiva, è importante sottolineare come oggi il quadro più ampio costituito dalla situazione socio-politica contemporanea, e anche dalla storia sociale recente della disciplina antropologica, contribuisca a configurare per gli antropologi una serie di funzioni aggiuntive rispetto a quelle tradizionali. In effetti, oltre a quella della anthropological consultancy, è possibile annoverare una serie di ruoli diversi e compiti specifici per gli antropologi che collaborano nei progetti di cambiamento pianificato. Innanzitutto, la funzione dell’antropologo come difensore di popolazioni marginali, povere e particolarmente colpite dai processi di sviluppo. Inoltre, la figura di mediatore, ovvero l’antropologo come canale di comunicazione tra i pianificatori e gli attori sociali coinvolti nei processi di acculturazione pianificata. Infine, quella di controllore, valutatore, titolare di un’attitudine all’esercizio critico sull’andamento particolare dei processi di cambiamento (Colajanni, 1994). Queste ulteriori funzionalità pongono dunque l’antropologo nelle condizioni di porsi in maniera maggiormente propositiva e costruttiva nei contesti dello sviluppo.
Conclusioni
Attraverso questo contributo si è tentato di tracciare le linee costitutive del rapporto che nel tempo si è andato stabilendo tra l’antropologia come campo disciplinare e il complesso mondo dello sviluppo. Soprattutto a partire dagli anni 90, il vocabolario dello sviluppo si è arricchito di nuovi termini quali empowering, enabling, sustainability, sviluppo endogeno, pianificazione a partire dall’analisi dei bisogni fondamentali, progetti auto sostenuti, sviluppo sostenibile, self-reliance development. Va, tuttavia, mantenuto sempre un livello alto di attenzione nell’analisi dei singoli progetti di sviluppo, per comprendere se queste parole non vengano usate esclusivamente per dare una veste “politicamente corretta” a progetti pianificati e realizzati sempre e comunque in un’ottica impositiva ed escludente per le comunità locali (Kaufmann, 1997), o in un’impostazione metodologica priva degli strumenti adatti a cogliere il punto di vista locale (Zanotelli, Grillini, 2008).
In effetti, il parziale successo, le crisi, i fallimenti, o addirittura i danni a lungo termine di alcuni progetti di sviluppo, trovano ragione in una molteplicità di cause, tra le quali va annoverata molto spesso l’assenza di un piano di valutazione e di controllo della “sostenibilità socioculturale” del progetto stesso. Occorre quindi verificare sempre il significato e gli effetti pratici di ciò che di volta in volta si intende col termine “sviluppo”. L’antropologia, appunto, attraverso l’insieme dei suoi saperi e delle sue pratiche, appare uno strumento significativamente utile per svolgere questo lavoro di verifica.
A tal proposito, sembra che la problematica principale che si pone oggi davanti agli antropologi è scegliere se
«ri-direzionare dall’interno il mondo dello sviluppo, partecipando ai progetti e proponendo soluzioni o fornendo consulenze capaci di correggere gli errori in cui i pianificatori rischiano di incorrere, o altresì criticare il mondo dello sviluppo dall’esterno, sostenendo che le pressioni alle quali sarebbero sottoposti all’interno dei progetti non permetterebbe loro di produrre riflessioni critiche in piena libertà e indipendenza» (ivi: 44).
Personalmente, ritengo che sia le critiche più radicali al concetto di sviluppo, sia gli approcci di quegli autori che tramite la rielaborazione dei dati raccolti nella situazione etnografica di incontro tra operatori e beneficiari hanno voluto fornire un contributo proficuo per uno sviluppo realmente partecipato e sostenibile, sia infine il lavoro di quegli antropologi che operano all’interno dei progetti di sviluppo come consulenti esterni, possono risultare di estrema importanza per ripensare e ridefinire le politiche e le pratiche interne al mondo dello sviluppo (2008: 45). Pertanto, soprattutto alla luce del raggiungimento degli obbiettivi posti dall’Agenda globale 2030, ovvero dei Sustainable Development Goals, l’Antropologia può risultare senza dubbio un utile strumento conoscitivo e metodologico, e quindi di cambiamento, affinché attraverso l’abbattimento del muro etnocentrico dell’omologazione e operando nel pieno rispetto delle diversità e dell’incontro interculturale, nonché dell’empowerment dei gruppi umani coinvolti, possa contribuire a realizzare uno sviluppo fondato concretamente non sulla dipendenza bensì sulla reciprocità, la compartecipazione e la sostenibilità locale.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Questo contributo trae spunto da alcuni capitoli della mia tesi finale “Antropologia e Cooperazione allo sviluppo umano e sostenibile” per il Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea – conseguito nell’a.a. 2015-2016.
[2] H.S. Truman, Message to the Congress on Point Four, 24.6.1949.
[3] Un esempio di giudizio negativo nei confronti della teoria della modernizzazione, ritenuta ormai incapace di spiegare i rapporti tra Paesi sviluppati e non-sviluppati, viene fornito dalla diffusione della cosiddetta “teoria della dipendenza”, frutto per lo più del pensiero di autori sudamericani.
[4] Il metodo actor-oriented viene proposto per la prima volta durante gli anni 70 dalla cosiddetta Scuola di Manchester e ripreso di recente da Arce e Long (2000a).
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Francesco David, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia, svolgendo ricerche sul campo in Basilicata, dove ha analizzato i processi storici e culturali di una festa patronale locale, e nel C.I.E. di Bologna, dove ha avuto modo di indagare i meccanismi di gestione biopolitica della sofferenza delle donne immigrate, ha ottenuto un Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea, occupandosi del rapporto tra antropologia e Cooperazione allo sviluppo umano sostenibile. È attivo nel settore migratorio e dei diritti umani e membro dell’Associazione Amici della Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con la quale ha collaborato per il primo Summer Camp “MigrAction – Immagine innovative tools for Breaking Stereotypes and Building Dialogue”. Ha conseguito diverse esperienze come Tutor e Team Coordinator. Lavora come Freelance Writer e scrive per alcune riviste scientifiche.
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